Monteverde
di Gianfranco Franchi
Castelvecchi Editore
Narrativa
Pagg. 313
ISBN: 9788876152917
Prezzo € 16
Per il
recensore di turno non è certo agevole parlare di Franchi e della sua
produzione. Il rischio che si corre, nel tentativo di condensare a beneficio
del lettore i generi e le tematiche coi quali il nostro si è misurato, è quello
di apparire giocoforza riduttivi, ammettendo in sintonia con Patrizia Garofalo, quando ne recensisce la silloge poetica
“L'inadempienza” (Edizioni Il Foglio, 2008), “la dolorosa coscienza
dell'insufficienza della parola”. Insufficienza, aggiungerei, nel rendere
giustizia ai molti interessi coltivati e alle tante iniziative poste in essere
dall'autore romano. Potremmo pertanto, in maniera ondivaga, muovere da un suo
verso: “insofferente gigante di carta e fantasia”, che
credo gli vesta addosso comodamente. Ma non è solo il Franchi poeta a seminare
qua e là indizi di un autoritratto da cucciolo e oltre; nella sezione Patrie
lettere del recente “Monteverde”
(Castelvecchi, 2009), l'articolo 2 dei diritti del
Letterato recita: “Il fine di ogni associazione letteraria è la conservazione
dei diritti naturali ed imprescrittibili del Letterato. Questi diritti sono
l'indipendenza, l'eclettismo, la critica, la renitenza
ai generi e la resistenza all'oppressione.” Un manifesto, questo, che per chi
lo conosce Franchi ha vissuto e vive dentro e fuori dei suoi libri.
Personalmente l'ho incontrato con la sua precedente opera di narrativa, Pagano
(Edizioni Il Foglio, 2007), dove sono stato conquistato dalla forza del suo
spirito battagliero, dal suo pensiero anarchico in grado di svelare con efficacia
le ipocrisie e i luoghi comuni del mondo politico, della vita sociale e
culturale e di rappresentarne l'attualità come pochi. In effetti, mentre nei
salotti bene si fa un gran parlare dell'incapacità della nostra letteratura di
farsi specchio del presente, Franchi rispolvera la figura del maître à penser, quello che aveva il polso della situazione, che
indicava la via a una società meno frenetica e meno distratta di quella
odierna, a un'opinione pubblica che lo teneva in debita considerazione. Non di rado
era guida morale e politica, critico pure verso quell'ideologia che rivendicava
e nei confronti dei suoi rappresentanti, come quel Pasolini che non a caso fa
capolino in “Monteverde”. Peccato che – dettaglio -
l'intellettuale si ritrovi a vivere, oggi, in un mondo capovolto, dove i servi
di partito e gli opportunisti agguantano potere e successo perché la loro
affidabilità è a prova di bomba, in quanto “sei affidabile quando sei
ricattabile”. Così al trentenne “laureato con lode, specializzato, onesto e non
allineato” rimane solo la “depressione e il mal di cuore”: precario,
sottopagato, bandito dal consorzio che gli preferisce modelli di maggiore
appeal e sbocchi professionali, costretto a incancrenire tra le spire mefitiche
della Legge Biagi. Ma il Franchi - o il suo alter ego Guido
Orsini – non si scoraggia: in perfetto stile “dinosauro postmoderno” si fa
scacciare dalle radio, è sempre in cerca di lavoro, fa di volta in volta
l'arbitro, il giornalista-magazziniere, l'inseritore notturno, l'addetto allo
sportello e non entra nella polizia perché ha una totale venerazione per Serpico; si definisce “stagista di me stesso, tirocinante
della letteratura italiana. Grande lavoratore. Gratis.”
E in quest'ottica apre un portale web che porta il suo nickname, lankelot.eu, agorà virtuale frequentatissima, corpus
enciclopedico di contributi filologicamente irreprensibili, dove Franchi
coordina il dibattito su arti, scienze e letteratura con la collaborazione di
spiriti liberi e privilegiati in quanto non ancora espressione di qualcosa:
poteri economici, lobbies, industrie.
“Monteverde” diviene luogo insieme reale e ideale: è
l'isola di via Fonteiana, a pochi passi dal Gianicolo, è l'estensione della casa-fortezza, terra del
primo bacio e alveo dei ricordi, è tempio consacrato alla cultura, è rifugio
antiatomico in un mondo votato all'autodistruzione, osservatorio privilegiato
di fenomeni, sede di piccole arcadie, redazione di
riviste universitarie, crocevia di sogni infranti, di amori alla frutta, di
sbronze e di cazzeggi, microcosmo nel macrocosmo
città, paradigma di un'identità vagheggiata e spesso inafferrabile. La
narrativa di Franchi è onfalocentrica; Guido Orsini è
specchio interiore dell'autore, al limite dell'autoreferenzialità. Il testo è
diviso in sezioni: Casa, Lavoro, Donne, Musica, La Roma, Patrie Lettere;
ciascuna sezione è inframezzata da un interludio,
dove un cane con un'occhio
più chiaro dell'altro (come un Bowie reincarnato) funge da animale totemico,
per traghettarci nell'Ade successivo. Sorprende, in Franchi, questa capacità di
rielaborare il vissuto, di metabolizzare l'esperienza personale e la mole non
indifferente di letture con autorevolezza, ricompattandola in quadri unitari e
coerenti, dove il lettore si identifica e vi riconosce anche il ritratto di una
generazione.
“Monteverde” è un aggiornato zibaldone dove convivono
gomito a gomito momenti di grande lirismo (è il caso di “Catafalco”, dove le
spoglie terrene del nonno divengono riflessione metaforica sulla morte che un intelletto in tenera età tende a negare
caparbiamente), brevi racconti espressionisti che hanno per protagonista un
fusillo incastrato in una presa della corrente, che si svolgono in mondi
paralleli dove l'acqua nuoce alla salute mentre l'alcool è terapeutico o dove
si dialoga con la gatta di casa; e ancora mini saggi su come archiviare il
proprio patrimonio librario, folgoranti osservazioni sul declino della
vita di coppia (Stasera DVD), divagazioni calcistiche sulla propria passione
per la Magica,
circostanziate disamine delle parabole artistiche dei gruppi rock preferiti
(non è un caso che il nostro, in concomitanza con Monteverde,
sia uscito in libreria con un corposo saggio sui Radiohead
per i tipi di Arcana). Quella per la musica è una passione forte, che informa
di sé molti suoi lavori (penso anche ai racconti di “Disorder”,
Il Foglio 2006), speciale mood di sottofondo, rumore sottile della sua prosa. E
ancora gli aneddoti e i piccoli episodi del quotidiano, filtrati e riconvertiti
con stile eroicomico in toccanti epifanie, dove ci si intenerisce per questo
nostalgico che seppellisce il suo vecchio palmare sotto la pianta di rosmarino,
che colleziona calici e boccali che vengono puntualmente distrutti dalle donne
di passaggio; per non dire dell'invettiva rovente, immancabile nel repertorio
di Franchi, indirizzata a un sistema che fa naufragare ogni intraprendenza,
sogni e illusioni.
In “Monteverde” – che doveva in origine titolarsi New
Order – la scrittura è matura, e il livore lascia
spazio a una nuova e più organica consapevolezza. La mente magmatica di Franchi
continua a nutrirsi dei suoi modelli, scoperti e non; quello che doveva essere
il capitolo conclusivo di una trilogia dell'identità si configura come una
nuova apertura, dove l'ordine definitivo necessità forse di ulteriori sessioni.
Lo smarrimento (“Cosa sono? Non ho
un'identità chiara, ho interiorizzato la frontiera”) diviene un punto di forza:
l'Istria, Trieste e Roma trovano asilo nelle Patrie Lettere e il “dipendente
nipote di padroni e figlio di sindacalista” guarisce della propria schizofrenia
in virtù di quel nomadismo psichico chiamato in causa dagli storici per Carlo
Magno, abile unificatore di germani e latini nel Sacro Romano Impero, più o
meno consapevole promotore di uno spazio riconducibile all'attuale Europa: “Non
c'è bene o male. C'è solo consapevolezza. Guido crede che non sia vero
che ogni viso è la carta geografica delle esperienze
di una persona; crede che ogni corpo ne sia espressione e sintesi, che tutto
comunichi qualcosa: la postura, l'atteggiamento, la carne, la pelle, i capelli,
i peli, i lividi, le cicatrici, i nei, la carnagione, la piega del sorriso, il
modo di guardare e di farsi guardare; ogni cosa canta, tutto canta e lui non si
stanca di ascoltare.”
Alberto Carollo