Una tragedia
milanese di Ottiero
Ottieri,
Guanda
PAROLE, PAROLE, PAROLE
Non è certamente un libro che tiri su il morale ai depressi, o comunque un
rimedio per la malinconia, l'ultimo romanzo di Ottiero
Ottieri: Una tragedia milanese,
fresco di stampa, per i tipi di Guanda. L'amaro sarcasmo dell'autore -
innegabilmente sorretto da una vis poetica originale e controcorrente - ci
offre uno spaccato di vita di un mondo a cui siamo oltremodo felici di non
appartenere.
Teatro dell'azione è prevalentemente una Milano livida dove "non si
produce, ma si riproduce", una città in cui "d'inverno è sempre
notte", dove persino le auto risentono dell'atmosfera negativa, tanto che
"proiettano i loro fari inquieti" nello squallore di vie spettrali.
Persino via della Spiga è guardata dall'autore in un'ottica deprimente, tanto
che descrive "case, piccole, vuote , loculi
dell'artigianato" e "vetrine stilistiche più smaglianti e stilizzate
del mondo, inframmezzate da gioiellieri che non hanno normali vetrine, ma piccoli
buchi quadrati, dove il gioiello sta mandando fiamme dalla sua nicchia
privata".
Fin dalle prime righe ci rendiamo conto di respirare il clima di una città
"finta", dal cielo finto in cui il lavoro è metro di misura della
vita, parametro che travalica gli affetti, i sentimenti e in cui le ideologie
sono "puri scontri di interessi economici". È una città "senza
panorama" quelle in cui ci introduce l'autore, a cui fa da controcanto
l'assenza di arredo interiore dei personaggi del romanzo, condannati a vivere
in case grigie dalla cui finestre non si ammira un consolante paesaggio, in una
città priva persino di "fiume, di idee". Se l'impatto visivo con
Milano è così avvilente, quello acustico non è certo più gratificante: le note
"musicali" prevalenti sono quelle dei telefonini, ossessivi strumenti
di conversazioni inutili che si intrecciano e confondono regalando una nota di
corrosivo umorismo alle pagine del romanzo.
Una tragedia milanese potrebbe essere portata in teatro pari pari, così come è stata scritta, perché i dialoghi e
le situazioni hanno una allure volutamente teatrale, recitata da personaggi
tragici e grotteschi. Primo attore è Antonio, un chirurgo estetico di fama
nazionale, non più di primo pelo, ma ancora
affascinante, con il suo fisico asciutto e abbronzato. L'aitante professore è
provvisto di mogli (ex e attuale) e di amante, la fedele e truccatissima Ennia dall'occhio superbistrato. Attori comprimari sono:
Giovanni Cagliostro, un playboy perennemente preoccupato per la sua linea
debordante; Giannandrea Visconti, detto Giandri, un farneticante e - a dire il vero abbastanza
rompiscatole - ossessivamente concentrato nell'autointerrogarsi
e nell'interrogare il prossimo con un andamento maniacale e solipsistico.
Parole, parole, parole spesso illogiche ed inutili corrono tra i protagonisti
maschili e femminili del romanzo, travolti dalla febbre di riempire
furiosamente i loro vuoti di umanità, cercando di farcire il silenzio di
riempitivi qualsiasi atti a mitigare il loro terrore delle ore che scorrono
inesorabili, presaghi, pur non volendolo essere, della morte che si avvicina.
Il paradosso e l'aporia la fanno da padroni anche in questo suo ultimo romanzo
nella pagina dell'autore romano che già ci aveva abituati alla sua cifra
stilistica e alla filosofia dei suoi contenuti con Memorie dell'incoscienza, Donnarumma all'assalto, La linea gotica, L'infermiera di
Pisa, Diario del seduttore passivo, Il poema osceno e De morte, per citare solo
alcune delle sue opere più conosciute.
Ci sono anche frasi di irresistibile umorismo, pur sempre paradossale, in
questa Tragedia milanese, ad esempio quella in cui Giandri,
a proposito dell'opera di un autore che non apprezza, dirà: "Il suo libro
è così divertente che annoia". E
anche situazioni esilaranti, come nella descrizione di una stanza in cui i
tanto deprecati telefonini "strillano" e "gli utenti si
sbagliano, trilla quello del vicino e credono che sia il proprio. Ne
derivano curiosi incidenti. Persino la fredda Lisetta
si confonde e pensa di desiderare, sulla via del progresso, squilli
personalizzati. Certo le tonalità dovrebbero essere milioni."
L'autore sembra voler fare uno sberleffo, gettandogli un occhiata
ghignante, al mondo snob e fatuo che descrive di gente senza contenuti
interiori, portata a parlare vacuamente, così come vive proferendo fiumi di
parole che non portano a niente, o meglio che li sommergono sempre più dentro
quel nulla che è la loro esistenza.
Grazia Giordani
www.graziagiordani.it