Ausilio
Bertoli, L'amore altro. Un'odissea nel Kosovo
(Besa Editrice, pp. 100, €
12,00)
Il
produttivo scrittore vicentino Ausilio Bertoli (Grumolo delle Abbadesse, 1945)
sembra aver trovato a est nuova linfa vitale per la sua narrativa. Già col
precedente “La sirena dell'immortalità” (Azimut, 2008) i caratteristici
protagonisti dei suoi romanzi spostavano la loro sfera d'influenza in territori
dove il genoma venetico dava origine, nel confronto/scontro con le istanze
autoctone, a singolari alchimie. In “L'amore altro” questa tendenza è ancor più
marcata, con conseguenze impreviste e di sicuro impatto per il lettore. La
vicenda è ambientata nel Kosovo, nell'ambiente del volontariato umanitario che
il nostro autore, sociologo di formazione, ha avuto modo di toccare con mano
per il tramite di suoi conoscenti.
Boris e Giulia, manco a dirlo due veneti – padovani per l'esattezza –, vanno a
Prizren Bas a far visita a Clizia,
la sorella di lei, medico all'ospedale dell'International Assistance.
Com'è nelle sue corde, Bertoli congegna alcune dinamiche amorose e ne
rappresenta gli sviluppi: Giulia, abbandonata dal marito, è innamorata di
Boris, non ricambiata (“le riversavo l'affetto che un qualsiasi fratello nutre
nei confronti della propria sorella”); lui è invaghito di Clizia
(“io sognavo l'amore di una medichessa”), in principio, ma finisce per idolatrare
e poi innamorarsi perdutamente di Arifa, l'infermiera
kosovara. Stesa così sembra la trama di un vaudeville, invece il romanzo breve,
o racconto lungo che dir si voglia (questa la forma privilegiata dal nostro
autore), procede con ritmo serrato e sterza bruscamente in atmosfere noir. Quella che nelle intenzioni doveva essere per Boris, Giulia e Arifa una gradevole gita turistica al parco nazionale di Brezovica si trasforma improvvisamente in un incubo: “Uno
sparo secco lacerò l'aria. Un istante, e l'eco di un urlo strozzato,
coperto in parte dal rombo di un aereo a reazione, mi risuonò nelle orecchie.”
E' Boris a parlare; la storia si dipana sotto gli occhi del lettore per mezzo
della sua voce. Boris e Giulia entreranno nel mirino dei trafficanti di droga e
gas tossici; sarà l'avvio di una catena di sofferenze, di morti e di sogni
distrutti. Il Kosovo martoriato dalla guerra impone
all'autore una mimesi più stringente e drammatica; ci sono alcuni passaggi
cruciali in cui viene descritta con stile asciutto e diretto la crudeltà di
alcune situazioni post-belliche: “Per i soldati era un divertimento
incaprettare o bruciare vivo chiunque si trovasse nelle case o nei boschi.
Il più bel divertimento.”
Boris Pavani è un altro dei personaggi tipici alla
Bertoli, se così possiamo definirlo. Borghese, ben istruito, insoddisfatto
della vita grigia che conduce, un anti-eroe che si sente inadeguato nella
società in cui vive e che coltiva sogni di riscatto di difficile realizzazione.
Come Delio Rizzi in “La sirena dell'immortalità”,
Boris si allontana dalla provincia opprimente per cercare nuove motivazioni
esistenziali, per trovare l'amore, una compagna in grado di compensare il suo
senso di vuoto, le sue frustrazioni e angosce. Ma in questo libro c'è un
espediente narrativo che diviene una possibilità in più di evoluzione del
personaggio. Delio Rizzi usciva un po' rattoppato
nello spirito e nella sua aurea mediocritas, in
provvisorio eppur stabile equilibrio mentale, dalle sue avventure croate. Per
Boris lo scarto è invece nella direzione di un valore aggiunto: la tragica
vicenda di Arifa determina un sostanziale cambiamento
di rotta nella sua vita. Da pavido e irresoluto, preda di un forte senso di
disagio e smarrimento, Boris diviene consapevole e determinato. Il suo amore
per Arifa viene sublimato in una nuova ragion
d'essere, monito continuo a lottare per migliorare la propria condizione e
quella degli altri. Viene da chiedersi se Boris (alla ricerca di un amore
esclusivo, in netto contrasto con lo slancio idealista di Arifa)
sarebbe maturato come uomo senza perdere la sua donna kosovara, ma è una
speculazione peregrina: si cambia a confronto con le esperienze, per quanto
spietate. Arifa, infatti, al sogno d'amore di Boris
aveva opposto il suo ideale: “non so ancora cosa
pretendi da me e dalla vita. Io pretendo di studiare medicina e curare e
aiutare i disperati della mia terra, quelli più disperati di me, perché possano
affrontare un futuro se non roseo, almeno accettabile.”
I personaggi di Bertoli rivelano le proprie motivazioni profonde con poche
parole, si spiegano per comportamenti e azioni. La scrittura serve abilmente
quest'esigenza: è secca, frammentata, concitata a tratti. Bertoli è abile nel
ricreare in forma semplificata moduli linguistici e colloquiali che hanno il
sapore della schiettezza, quasi ellittici, tratteggiando atmosfere che evocano
il parlato locale senza l'utilizzo del dialetto, con ridondanze e ripetizioni
nei dialoghi o interiezioni e esclamazioni del tutto peculiari, di buon effetto
espressivo.
Un possibile happy end fa capolino nello scioglimento della vicenda, come un
fiore su un ammasso di rovine. Boris tornerà in Kosovo, là dove ha trovato
l'amore – non quello che cercava, ma un amore più grande, più puro e virtuoso
–, per realizzare una clinica pediatrica dove guarire e amare i bambini della
zona. Allora, forse, quell'animale (l'uomo) più feroce che esista sul pianeta
può essere fermato; forse non c'è neanche bisogno che gli scienziati gli
cambino i geni per ammansirlo, come viene affermato in apertura del romanzo.
Forse c'è bisogno di una infusione ulteriore di
speranza, quella che Ausilio Bertoli invoca nella bella epigrafe che apre
“L'amore altro” e che vi invito a leggere, perché è evidente che per cambiare
questo stato di cose vi sia bisogno di dosi massicce di un “altro amore” che
non sia quello atavico per noi stessi, per la nostra etnia e per il nostro
fazzoletto di terra brulla e senza frutto. produttivo
scrittore vicentino Ausilio Bertoli (Grumolo delle Abbadesse, 1945)
Alberto Carollo
www.cigalesplinder.com