Catania
di Massimo Maugeri
Strana città, Catania. Bella e
contraddittoria, come molte città del Sud. Paradossale, a volte. Capace di affascinare
e di contrariare, di sorprendere e di deludere. Dipende dalla prospettiva da
cui la si guarda, dallo stato d'animo contingente del
visitatore di turno. Difficilmente, però, lascia indifferenti. E questo è
senz'altro un punto a suo favore: l'odio gramsciano
per l'indifferenza, non passa da questa città… che però – bisogna ammetterlo –
non si salva dal rischio di scivolare in un'apatia atavica, che talvolta la
avvolge. Del resto, quella celebre esortazione di Giovanni Paolo II (“Catania alzati, rivestiti di luce e giustizia”),
scolpita su una lapide posta sulla facciata di uno dei palazzi di Piazza del
Duomo, a ricordo di quel 4 novembre 1994, giorno in cui il pontefice polacco
solcò il suolo del capoluogo etneo, rimane una voce che merita ancora oggi di
essere ascoltata con molta attenzione da una città che spesso rimane seduta…
salvo, appunto, sgranchirsi le gambe di tanto in tanto. Questa
natura dicotomica, poi, è anche segnata dalla sua posizione geografica: distesa
tra la Montagna e il mare (è bene ricordarsi di chiamare l'Etna al femminile:
per i catanesi non è il vulcano, ma ‘a Muntagna),
ammicca tra l'oscurità della pietra lavica e la luminosità rutilante di un sole
generoso. Una città capace di far disperare per le sue
inefficienze, ma anche di far innamorare per il fascino dei suoi luoghi.
Perché – è bene precisarlo – Catania è una città che pullula di luoghi-simbolo.
Primo fa tutti, la statua dell'Elefante situata al centro di Piazza del Duomo:
un luogo che possiede una tale potenza evocativa che non può non lasciare
traccia nelle pagine dei narratori a cui la città ha
dato i natali. Ne ho scritto più volte anch'io, già a partire
dal mio primo romanzo “Identità distorte” (2005): “Al centro della
piazza barocca l'elefante in pietra lavica, u liotru,
svettava sulla fiumana di corpi assiepata dinanzi alla Cattedrale, nel tratto
che va dall'imbocco di Via Etnea a Porta Uzeda. Con i
suoi occhi bianchi u' liotru osservava placido i volti appesantiti e caduchi degli uomini
e delle donne in attesa. Dietro un sorriso abbozzato pareva percepire i suoni,
le voci, i bisbigli della città. Di quella città di cui esso stesso ne era
simbolo. Di quella città dove bene e male, luci e ombre, sacro
e profano, si erano avvicendati in un flusso continuo di eventi che gli
erano scivolati addosso; lievi, uniformi, come l'acqua a linzolu
della Fontana dell'Amenano. E tutto aveva compreso,
assorbito, captato; quasi che l'obelisco egizio di granito di Syene, che imperioso si stagliava dalla sua schiena per più
di tre metri e mezzo d'altezza, non foss'altro che
una potente, maestosa, antenna ancestrale”.
Piazza del Duomo era stata rasa al suolo dal terremoto del 1693. Fu ricostruita
nel 1694 per volontà del duca di Camastra. Vaccarini, nel 1736, ispirandosi all'Elefante romano della
Minerva di Bernini, decise di realizzare questo monumento proprio al centro
della piazza, di fronte alla cattedrale di sant'Agata. All'interno della
fontana inserì il già mitico Liotru di cui,
oltretutto, dovette ricostruire le gambe. Nel 1862, nel corso di un
rinnovamento edilizio, la statua corse il rischio di essere demolita. Si
racconta che sia stato il popolo infuriato a salvare l'elefante. Questo, giusto
per sottolineare la misura del legame dei catanesi con
il loro principale luogo-simbolo.
Può essere interessante soffermarsi sulle origini del termine Liotru. Pare che esso debba considerarsi come
una storpiatura del nome Eliodoro (qualcuno dice
anche Teodoro o Diodoro): un mago, una specie di illusionista. Secondo le leggende, Eliodoro
era capace di scomparire da Catania per riapparire a Costantinopoli e
viceversa. Si racconta che una volta creò l'illusione di una fiumana d'acqua
con lo scopo di far sollevare le vesti a un gruppo di signore e consentire la
vista delle parti nascoste. Qualcuno sosteneva che, di notte, andasse in giro
per la città cavalcando proprio l'elefante di pietra. Fu avversario dell'allora
vescovo san Leone, detto il Taumaturgo, che guidò la diocesi di Catania intorno
alla fine dell'ottavo secolo dopo Cristo. Pare che ai miracoli del vescovo,
contrapponesse i suoi prodigi di natura esoterica. Si dice che l'obiettivo di Eliodoro fosse quello di
conquistare il potere politico della città facendosi nominare prefetto. Alla
fine, secondo la leggenda, Eliodoro fu bruciato vivo all'interno
di una fornace, bloccato proprio dal vescovo Leone che miracolosamente non
riportò neanche una piccola scottatura. Secondo un'altra versione Eliodoro sparì in una nuvola di fumo dopo che Leone gli
impose la stola recitando una preghiera. Sul lato ovest della Fontana c'è
un'iscrizione latina che recita così: Questo straordinario elefante della
Catania antica, in quanto simbolo di giustizia, di
saggezza, di remissività, fa onore alla celeberrima città e ai suoi abitanti; e
perché tutti sappiano che esso è una raffigurazione in pietra dell'Etna di quel
famoso Eliodoro un tempo celebre per i suoi prestigi,
il senato e il popolo catanese dopo averlo disseppellito dal peso dei secoli,
qui lo collocano nell'anno 1736.
Di queste notizie relative alla storia della Fontana
dell'Elefante, ne parlano due personaggi della mia raccolta di racconti “Viaggio all'alba del millennio”
(2011): Jenny e – guarda caso – Elio Fante (l'onomatopea di quest'ultimo non è
affatto casuale). La ragazza, in cerca di lavoro (la disoccupazione giovanile
è, ahimè, un altro degli elementi caratterizzanti della città), si improvvisa guida turistica e “utilizza” l'amico Elio come
cavia, prima di provare ad andare a caccia di visitatori bisognosi di
informazioni. A un certo punto Jenny dice a Elio che se si osserva l'elefante
da dietro, si vedono gli attributi. Aggiunge, poi, che c'è una specie di
leggenda sui genitali dell'elefante. Si dice che toccarli porti bene. Elio
commenta che, a saperlo prima, avrebbe evitato di andare fino a Roma a buttare
i suoi soldi nella Fontana di Trevi per assicurarsi un po' di fortuna. A quel
punto Jenny fa notare che per toccare gli attributi dell'elefante bisogna
arrampicarsi, il che è proibito. (Del resto, qualche
anno fa due turisti inglesi sono stati arrestati perché in stato di ubriachezza
hanno tentato l'arrampicata danneggiando il monumento). A quel punto Elio Fante
chiosa con questa battuta: “Guardatevi dal rompere le palle all'elefante”.
Un consiglio che è bene prendere in seria considerazione.
Altro
simbolo della città è il musicista Vincenzo Bellini. Catania, d'altra parte, è
zeppa di luoghi e monumenti dedicati al celebre compositore. Per esempio, i
giardini pubblici – la cosiddetta Villa Bellini - il cui ingresso principale dà
sulla centralissima via Etnea, con una superficie di settantunomila metri
quadrati, impreziosita da busti celebri, vasche, fontane, chioschi, ringhiere
decorate… e da un'esotica e varia flora di tipo subtropicale, che conta più di
cento specie. A Bellini è dedicata un'imponente statua che svetta su piazza Stesicoro, di fronte all'anfiteatro romano, dove il
musicista è seduto su una sorta di scranno ai cui piedi sono disposti quattro
personaggi delle sue opere. A Bellini è dedicato il teatro Massimo, la piazza a
esso adiacente, l'aeroporto internazionale… mentre la sua casa natale è divenuta museo. Un altro personaggio di “Viaggio
all'alba del millennio”, un folle convinto di essere – guarda caso – proprio la
reincarnazione di Vincenzo Bellini si domanda chi è che, però, tra gli abitanti
della città, conosce davvero le “sue” opere. Prima o poi
bisognerà organizzare un sondaggio.
I
luoghi simbolo, si diceva, non mancano. La stessa via Etnea può considerarsi come
una sorta di salotto della città, il cui angolo buono è probabilmente piazza
dell'Università (a un centinaio di metri da piazza del Duomo), oggi isola
pedonale, la quale offre un bel colpo d'occhio grazie alla ristrutturazione
delle facciate dei palazzi storici (il Palazzo dell'Università e il Siculorum Gymnasium) e agli ampi
spazi della sua superficie ricavati dalla eliminazione
dei marciapiedi. Da piazza del Duomo, proseguendo per via Etnea, oltrepassando
piazza dell'Università e piazza Stesicoro, costeggiando
la Villa Bellini fino all'angolo con il viale XX Settembre, è tutto un bel
passeggio. A quel punto, chi volesse introdursi nella “sezione aristocratica”
della città dovrà svoltare a destra, imboccando il suddetto viale in direzione
di piazza Giovanni Verga (dove troverà un monumento-simbolo più moderno: la
fontana dei Malavoglia) e di corso Italia. Proseguendo
lungo il corso, oltrepassando sulla sinistra il Palazzo delle Scienze (sede
della facoltà universitaria di economia), si arriva in piazza Europa, a un
passo dal lungomare. Chi segue questo percorso, però, si è lasciato alle spalle
luoghi importanti, tra cui: la celebre via Crociferi, il castello Ursino, l'Odeon romano, un bel po' di chiese e piazze e
palazzi barocchi… nonché luoghi caratteristici, come
“'A Fera o' Luni” (il noto mercato storico, alle
spalle di piazza Stesicoro) e la pescheria (in
dialetto: piscarìa, il mercato del pesce situato alle
spalle di piazza del Duomo).
A proposito di lungomare, Catania offre un panorama costiero tutt'altro che
monotono: si va dalla scogliera che accompagna la parte centrale della città
(dal porticciolo di Ognina fino alla Stazione
Centrale) e una lunghissima spiaggia – “la plaja” –
che va dal porto fino al litorale siracusano. Ricordo quando
accompagnai in giro per la città l'amico scrittore Roberto Alajmo,
che stava prendendo appunti per la stesura del volume: “L'arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia”
(Laterza, 2010). Provo a sintetizzare questo piccolo aneddoto in forma
dialogica. Luogo: strada che costeggia la plaja di
Catania. Sono alla guida della mia automobile. Roberto Alajmo
mi è seduto accanto. Dico: “Ecco, questo è il posto per eccellenza
dove i catanesi vanno a fare il bagno (l'altro è la scogliera). Anche Brancati veniva a fare il bagno qui.”
– “Sì, ma dov'è il mare?” – “Lì, alla nostra sinistra…” – “Lì?
Dove?”. Giro il capo e mi accorgo che, in effetti, il
mare non si vede: gli stabilimenti balneari ne impediscono la visuale. “Hai ragione. Il mare c'è, ma non si vede”.
– “Ma tempo fa si vedeva?” – “Be', sì. Certo che sì”. – “E ora non si vede più.” – “Già.” – “Strana, Catania. Sembra quasi che, a un certo punto,
qualcuno abbia dato il segnale di immersione rapida”.
Cerco di distrarlo indicandogli una grande struttura sulla nostra destra. “Cos'è?”,
domanda. “Il Palazzo del Ghiaccio”, rispondo. – “Non ci credo.” – “È vero”,
dico con una punta di orgoglio, “possiamo vantare la presenza di un Palazzo del
Ghiaccio praticamente in riva al mare.” – “Della
serie: dell'essenziale ci manca tutto, del superfluo non ci facciamo mancare
nulla”. Non aveva torto, Roberto Alajmo.
Però, dalla cima del Palaghiaccio,
il mare si vede: lo giuro.
* * *
articolo pubblicato sul quotidiano Il Corriere Nazionale e
ripreso su La poesia e lo spirito
letteratitudinenews.wordpress.com