Storia della colonna infame
di Alessandro Manzoni
Introduzione di Maurizio
Cucchi
Giangiacomo Feltrinelli Editore
www.feltrinellieditore.it
Saggistica storica
Collana Universale
Economica I Classici
Pagg. 136
ISBN 9788807820502
Prezzo € 6,00
L'infamia non dei
condannati, ma dei giudici
Nel corso del lavoro preparatorio dei Promessi sposi, consistente nella
ricerca di documentazioni sui fatti dell'epoca in cui si svolge la vicenda di
Renzo e Lucia, Alessandro Manzoni s'imbatté in incartamenti che parlavano di un
processo intentato nel 1630 nei confronti di due uomini accusati di propagare
la peste che allora infieriva nel milanese e nelle contrade limitrofe. Al
riguardo ricordo che, nella sua celeberrima opera, alla diffusione del
morbo e alle sue tragiche conseguenze sono dedicate pagine fra le più belle.
Questo procedimento giudiziario in origine avrebbe dovuto essere parte
integrante dei Promessi sposi, per la
precisione in quella parte del libro appunto dedicata alla peste, ma la sua
caratteristica di digressione, non disgiunta dalla non trascurabile lunghezza,
indusse l'autore a non includerla nel romanzo, sia per evitare uno squilibrio,
sia nel timore di disorientare i lettori. E fu così perciò che questo saggio
storico ebbe una destinazione autonoma, cioè come di lavoro destinato a una
pubblicazione a sé stante, anche se, abbastanza di frequente, capita che gli
editori la propongano al termine dei Promessi
sposi, in un unico volume.
In Storia della colonna infame Manzoni
scrive appunto di questo processo, avvenuto a Milano nel 1630, contro Guglielmo
Piazza, commissario di sanità, e Gian Giacomo Mora, barbiere, accusati da
Caterina Rosa, definita dallo stesso autore “donnicciola” del popolo, di aver
provocato il morbo e la sua diffusione con strane misteriose sostanze con le
quali venivano unti i muri e le porte delle case, e da
qui il termine di “untori” attribuito ai due disgraziati. Sottoposti a torture,
confessarono benché innocenti, e furono condannati
alla pena capitale, preceduta da altre crudeltà che solo a pensarci fanno
rabbrividire. Fra le pene accessorie ci fu anche la distruzione della casa del
barbiere, sulle cui rovine, a perpetuo monito, venne
eretta una colonna, chiamata “colonna infame”, che nel 1778 fu abbattuta, a
parziale riabilitazione dei condannati, stante che eventualmente l'infamia
avrebbe dovuto essere attribuita a chi li giudicò.
La vicenda, in sé interessante, non
sarebbe tuttavia meritevole di particolare attenzione se non si guardasse al
punto di vista del Manzoni, al suo grande senso di pietà, ma anche alla sua
disamina di carattere morale. Vero è che erano tempi difficili, che il morbo si
propagava incontrollato, che l'ignoranza del popolo creava e costruiva
superstizioni, ma chi aveva istruzione non avrebbe dovuto credere che la peste
fosse una creazione di due uomini, volta, non si sa per quale motivo, ad
annientare la popolazione. Com'è
possibile che i giudici prestassero fede alla linguaccia di una donnicciola,
avviando un'indagine che con i primi arresti indusse il popolo a credere che
potessero esistere gli untori, in una frenesia collettiva che reclamava sangue
per riparare ad altro sangue versato?
L'analisi che del fatto fa Manzoni è sì
storica, ma anche giuridica, psicologica, sociologica e politica. In questi giudici non solo è assente la pietà, ma manca anche
il buonsenso; inoltre, al servizio dei potenti, incapaci di arginare il morbo,
nel timore di una ribellione cercarono di trovare il cosiddetto capro espiatorio
in due poveri innocenti. Fuori da ogni logica inventarono un processo, diedero
in pasto a gente esasperata i presunti autori delle loro disgrazie, senza un
minimo di coscienza, tesi solo a soddisfare il ventre molle di un popolo
inferocito. Dopo l'esecuzione della sentenza la peste
continuò a divampare e nessuno pensò che in fondo non c'erano più gli untori,
ma intanto la tensione che prima cresceva ogni giorno era sbollita nelle urla
strazianti dei condannati torturati sulla pubblica piazza. Quei giudici
sapevano quello che facevano, sapevano cosa dare al popolo affinché si
placasse, quel che non sapevano è che l'infamia non
era dei condannati, ma solo loro.
Il libro è veramente stupendo e credo
che sarebbe opportuno che fosse oggetto di studio nelle scuole; non aggiungo
altro, se non il consiglio di leggerlo.
Alessandro
Manzoni nasce a Milano nel 1785. Figlio del conte Pietro e di Giulia
Beccaria, viene educato nei collegi dei padri Somaschi e Barnabiti, finché nel 1805 raggiunge la madre a
Parigi, dove soggiorna fino al 1810 entrando in contatto con gli idéologues repubblicani e stringendo amicizia con il
filosofo Claude Fauriel. Nel 1808 si sposa con Enrichetta Blondel e due anni
dopo, nel 1810, si converte al cattolicesimo. Seguono anni di
intensa attività letteraria e di intensi contatti con gli ambienti del
romanticismo milanese: ne nasce la poesia dei primi Inni sacri (1812-15)
e delle odi politiche (Marzo 1821, 1848, e Il cinque maggio,
1821) e l'interesse per un rinnovato teatro tragico, svincolato dai canoni del
classicismo (Il conte di Carmagnola, 1820, e Adelchi,
1822). Nel 1823, dopo un'ulteriore prova di poesia
liturgica (Pentecoste, 1822), termina il Fermo e Lucia, prima e
provvisoria stesura del romanzo storico a cui si era dedicato fin dal 1821 e
che sarà pubblicato quattro anni più tardi con il titolo I promessi sposi
(1827). A partire da questa data diminuisce la sua
attenzione per i problemi letterari: gli anni trenta sono segnati da una lunga
serie di lutti familiari (morte della moglie e di alcuni dei suoi dieci figli)
e dalla lunga revisione linguistica del romanzo, la cosiddetta
"risciacquatura dei panni in Arno", avviata dal soggiorno fiorentino
del 1827 e portata a termine nel 1840, con la pubblicazione a fascicoli
dell'opera, integrata dall'appendice sulla Storia della colonna infame.
Sempre più convinto dell'impossibilità di conciliare invenzione letteraria e
adesione al "vero storico" (Del romanzo storico, 1850), negli
anni successivi Manzoni, pur godendo di grande fortuna
già presso i contemporanei, abbandona del tutto l'attività letteraria; nominato
senatore a vita nel 1861, vota a favore della liberazione di Roma (1864) ed è
presidente della Commissione parlamentare sull'unità linguistica.
Nell'anniversario della sua morte, avvenuta a Milano nel 1873, Giuseppe Verdi
compone e dirige la Messa da requiem.
Renzo Montagnoli