Mastro Don Gesualdo
di Giovanni Verga
a cura di Sergio Campailla
Newton Compton Editori
www.newtoncompton.com
Narrativa romanzo
Collana Grandi Tascabili Economici
Pagg. 256
ISBN 978-88-541-2022-8
Prezzo € 6,00
La
roba, nient'altro che la roba
Secondo romanzo del Ciclo dei Vinti, Mastro Don Gesualdo,
pubblicato nel 1889, è senz'altro una delle opere più conosciute fra quelle
scritte da Giovanni Verga e, a mio parere, è la sua migliore. Il maestro del
verismo ha qui raggiunto infatti una perfezione stilistica e di analisi
raramente riscontrabile, delineando la storia di un uomo che si è fatto da sé,
che con il duro e costante lavoro ha raggiunto una invidiabile posizione di
agiatezza che è il simbolo del suo successo. Ma l'essere riuscito ad arrivare a
un traguardo insperato comporta solo amarezze, con il suo gruppo familiare che
pretende sempre di più e che è avido delle sue ricchezze e con i nobili, casta
già all'epoca in decadenza, che si ostinano, chiusi a riccio nei loro
tramontanti privilegi, a considerarlo solo un parvenu, a trattarlo con distacco, se non addirittura a
disprezzarlo ostentatamente.
Da muratore a imprenditore, a
proprietario terriero, é chiuso in una solitudine e in una infelicità che nemmeno
il matrimonio con una nobildonna (auspicato da lui come simbolo ufficiale
dell'abbandono del vecchio ceto miserevole) potrà sanare. Non amato dalla
moglie, né dai familiari, spesso malvisto addirittura, non gli resterà che
attaccarsi alle cose conquistate che
per lui rappresentano le fatiche di una vita di massacrante lavoro e il
riscontro positivo di questi sforzi. Per quanto il contesto storico sia segnato
dal progressivo evolversi di una nuova classe sociale (la borghesia) di cui
Mastro Don Gesualdo è un chiaro esempio, dal perpetuarsi dell'immobilità del ceto più
povero, quello dei carusi, dei contadini a giornata,
degli ancora pochi operai (almeno in Sicilia) e dalla progressiva inevitabile
decadenza della nobiltà, ancorata a una visione arcaica dell'esistenza e
incapace di comprendere i nuovi tempi, il romanzo non ha solo una valenza
riferita a un particolare e determinato periodo temporale (la prima metà del
XIX secolo), ma assume caratteristiche di universalità ove si tenga conto delle
seguenti considerazioni:
1)
Il
protagonista fa suo il modus operandi
del capitalista, uguale ancor oggi come più di un secolo fa, con quella ricerca
non solo della ricchezza, ma del senso di potere che da essa deriva;
2)
L'invidia
e l'avidità sono proprie degli esseri umani, e ciò fin dalla comparsa degli
stessi sul pianeta; le ricchezze di altri sono bramate, sono opportunità di cui
avvalersi cercando di impossessarsene;
3)
La
storia è frutto di una continua evoluzione temporale ed è impossibile fermare i
fenomeni che si vanno affermando; così all'epoca è la nobiltà che sta
scomparendo, una nobiltà derivante da antichi privilegi messi in discussione
non tanto da una rivincita dei plebei, quanto piuttosto dalla capacità e dallo
spirito di iniziativa che sono propri
della borghesia.
L'aver raggiunto traguardi
impensabili, l'aver accumulato fortune non salva però l'individuo dal giudizio
dei suoi simili, mai positivo, e in effetti quel Mastro e quel Don attribuiti a
Gesualdo Motta non sono frutto di ammirazione e di
rispetto, bensì vengono a comporre un nomignolo spregiativo, perché Mastro
normalmente viene attribuito a chi dirige un gruppo di lavoro di muratori e Don
è un epiteto riservato ai nobili e ai proprietari delle terre. Presi singolarmente
questi termini non sono sinonimo di disprezzo, ma messi insieme evidenziano la
natura del personaggio, la sua modesta provenienza e il traguardo a cui cerca
di giungere. Involontariamente, con questi titoli si è finito con l'evidenziare
le caratteristiche dei componenti della nuova borghesia, tesi a sollevarsi
dall'eterna indigenza per giungere nell'empireo della nobiltà, di cui però non
faranno mai parte, anche imparentandosi con essa.
Gesualdo Motta è un uomo che vive solo in
funzione dei suoi interessi, trascurando moglie e figlia per coltivarli, con un
attaccamento maniacale alla roba, a
quanto da lui conquistato, tanto da impedirgli di condurre una vita normale
tesa alla serenità e a quel poco di felicità che può riservare. Il suo ritratto è impietoso, così come anche
la sua fine che lo vedrà soccombere a un male incurabile, solo come un cane
senza padrone, lasciando indifese le sue ricchezze, di cui altri finiranno con
il beneficiare (il genero Duca di Leyra).
Intorno a lui ruotano tanti personaggi,
descritti mirabilmente: la moglie Bianca Trao,
nobile, una donna sostanzialmente buona che non ama il marito, Isabella Motta,
figlia solo di nome di Gesualdo Motta, in quanto
frutto di una relazione della madre con un nobile scapestrato, e che, benché unica
erede, detesta il padre a tal punto di farsi chiamare con il cognome della
madre, i parenti acquisiti Trao, che della
conservazione della loro posizione nobiliare e delle loro ricchezze hanno fatto
la loro unica ragione di vita, la famiglia di Gesualdo,
che ne ha invidia e che di sicuro non lo ama.
Non vado oltre, perché di personaggi
ce ne sono veramente tanti, ma nessuno è superfluo, anzi sono collocati
esattamente nella trama come contorno indispensabile per giungere a definire il
protagonista, la vicenda, il contesto storico. Mi è impossibile però non citare
i dipendenti di Gesualdo, gran lavoratori e che
probabilmente sono gli unici a capirlo per le loro origini e perché sono
cresciuti con le sue iniziative.
Mastro Don Gesualdo è la storia di un uomo che volle
farsi re, odiato dal suo ceto di origine, che lo considera in pratica un
traditore, e detestato dalla nobiltà per il suo sangue non blu e che finisce
per considerarlo un vero e proprio intruso. Né carne né pesce, scivolerà piano piano in un'angoscia esistenziale, in un attaccamento
morboso agli averi, con un possesso che è fine a se stesso. Soprattutto gli
mancherà la possibilità di parlare in modo da capire ed essere capito e la sua
solitudine è l'amaro risvolto di un'esistenza in cui non c'è spazio né per i
sentimenti, né per la pietà, un mondo chiuso da cui gli altri sono esclusi,
considerati di fatto un pericolo per la dorata prigione che tanto faticosamente
si è costruito.
Il romanzo è più che bello, è
splendido e credo proprio che considerarlo un capolavoro sia una valutazione appropriata.
Giovanni Verga nacque
nel 1840 a Catania, dove trascorse la giovinezza. Nel 1865 fu a Firenze e
successivamente a Milano, dove venne a contatto con gli ambienti letterari del
tardo Romanticismo. Il ritorno in Sicilia e l'incontro con la dura realtà
meridionale indirizzarono dal 1875 la sua produzione più matura all'analisi
oggettiva e alla resa narrativa di tale realtà. Morì a Catania nel 1922. Di
Verga la Newton Compton ha pubblicato I
Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, Storia di una capinera, Tutte le
novelle e Tutti
i romanzi, le novelle e il teatro.
Renzo Montagnoli