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  Recensioni  »  La banalità del male, di Hannah Arendt, edito da Feltrinelli 30/07/2022
 
La banalità del male.

Eichmann a Gerusalemme

di Hannah Arendt

Feltrinelli Editore

Saggistica

Pagg. 348

ISBN 9788807892974

Prezzo Euro 12,00


Quando il male non è avvertito come tale


Adolf Eichmann, Obersturmbannfuhrer delle SS, l’organizzatore dei convogli ferroviari con cui gli ebrei erano trasportati nei campi di detenzione e di sterminio, non era in sé l’incarnazione del male, ma era un uomo normalissimo, magari mediocre e di poca sostanza, ma dedito al suo lavoro, del tutto incapace di porsi delle domande sulla legittimità morale dei propri atti, un ragioniere dello sterminio, senza coscienza, insomma non colui che ama compiere atti efferati, ma la rappresentazione della banalità del male. Catturato da un commando israeliano l’11 maggio 1960 in Argentina, dove viveva sotto falso nome, Eichmann fu trasferito, non senza difficoltà, in Israele per essere sottoposto a processo. Date le circostanze e nonostante che fosse passato più di un decennio dal processo di Norimberga il procedimento giudiziario ebbe enorme risonanza, con la partecipazione di giornalisti di quasi tutto il mondo e fra questi Hannah Arendt, ebrea tedesca sfuggita alle persecuzioni emigrando per tempo. Presente a tutte le udienze scrisse per il suo giornale (New Yorker) molti articoli, approfondendo le problematiche giuridiche, politiche e soprattutto morali che non erano solo attinenti il giudizio in corso, ma che erano alla base della figura dell’imputato e in generale di tutta la struttura nazista.

Ne emerge un quadro allucinante, perché i nazisti non sono considerati l’incarnazione dei peggiori istinti dell’uomo, ma degli individui qualunque, mediocri, in fondo anonimi, poco consapevoli o addirittura inconsapevoli dell’aspetto morale degli atti compiuti, ma inseriti in modo perfetto in un meccanismo del tutto infernale. In pratica chiunque, o comunque una persona del tutto normale, può diventare un aguzzino spietato se diventa parte di un apparato politico o anche poliziesco che lo stimola ad agire senza pensare. Ecco, il nazismo aveva reso i suoi cittadini del tutto incapaci di pensare, di porsi delle domande sulla moralità di ciò che essi facevano.

Il libro non piacque agli ebrei, volti a una demonizzazione di Hitler e del nazismo, anche perché la banalità del male non è stata una prerogativa solo della Germania nazista, ma potrebbe ripresentarsi in altri paesi, anche con ideologie diverse.

Il saggio, che è filosofico, ben rappresenta il concetto introdotto dalla Arendt, ma credo che più delle mie parole si pensi a una cosa semplicissima, e cioè che sarebbe stato lecito supporre che sparito il nazismo non dovesse più esistere il male istituzionalizzato, ma purtroppo non è stato così, e vi sono chiari esempi di non pochi totalitarismi in cui questa banalità si ripresenta, e, solo per citarne alcuni, il periodo dei khmer rossi in Cambogia, oppure la rivoluzione culturale cinese, ma purtroppo ce ne sono altri e altri ancora ne verranno.

Si rimane, più che sconcertati, scossi nel venire a sapere che “quel male”, quello con la Croce uncinata, che speravamo fosse l’ultimo e l’unico possa avere dei seguiti, cioè che possa ripetersi questa banalità del male, perché avevamo sempre considerati delle eccezioni anche i casi successivi, ma quando questi non sono più rari vuol dire che il male che è in noi potrebbe emergere prepotente e, istituzionalizzato, diventare lo scopo della nostra vita.

Da leggere, indubbiamente.





Hannah Arendt (Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975), filosofa tedesca.
Formatasi nelle università di Marburgo, Friburgo e Heidelberg, ebbe come maestri Heidegger, R. Bultmann e K. Jaspers.
Di origini ebraiche, nel 1933 emigrò in Francia, per poi trasferirsi negli Stati Uniti nel 1940.
I suoi principali interessi si sono orientati sull’agire politico, inteso come dimensione pubblica dell’esistenza umana.
In "Le origini del totalitarismo" (1951), la Arendt ricostruisce il processo storico
che ha condotto alle dittature europee e alla seconda guerra mondiale; i momenti decisivi di tale processo (antisemitismo, imperialismo e trasformazione plebiscitaria delle democrazie) sono interpretati come effetti di una complessiva de-politicizzazione della cultura moderna.
"Vita activa" (1958) propone l’e1aborazione in termini filosofici del contrasto tra un tipo di comunità politica - la polis greca al tempn di Pericle - e la decadenza dell’agire politico nel pensiero occidentale.
Benché nella contrapposizione tra Grecia e modernità si avvertano influssi heideggeriani, la Arendt rifiuta l’esito anti-mondano dell’ultima filosofia di Heidegger.
L’agire, per la Arendt, definisce l'essere umano come essere-con-gli-altri: l'identità umana costituisce nell’intimità della coscienza soggettiva e neppure nella società (intesa come sfera dei bisogni, del lavoro e della riproduzione), ma piuttosto nella sfera pubblica.
La Arendt ha delineato quest'antropologia politica in numerosi contributi: "Sulla rivoluzione" (1963) analizza soprattutto gli esiti perversi delle rivoluzioni americana e francese, cioè il passaggio dalla libertà pubblica al dominio della società amministrata e dello Stato
"Passato e futuro" (1961) e altri saggi estendono la critica della modernità a problemi come la storia, l'autorità e la tradizione; "Ebraismo e modemità" (1978, postumo), e, soprattutto "Rahel Varnhagen" (1958), biografia di un'eroina della Berlino romantica, interpretano l'ebraismo moderno come scisso tra l'aspirazione all'assimilazlone sociale e la fuga nell’interiorità, aspetto proprio di una più ampia tendenza del moderno alla polarizzazione tra coscienza soggettiva e sfera sociale.
Favorevole a una cultura ebraica laica e tollerante, la Arendt si è spesso trovata in contrasto con le comunità ebraiche ortodosse, a partire dal controverso reportage sul caso Eichmann, "La banalità del male" (1963).
Negli ultimi anni della sua riflessione, ha operato una rivalutazione della vita contemplativa; in "La vita della mente", opera rimasta incompiuta e uscita postuma nel 1978, l'esperienza spirituale viene articolata in tre attività fondamentali: pensare, volere e giudicare
Senza rinunciare al ruolo preminente dell'agire nella definizione dell’identità umana, la Arendt esprime un certo scetticismo nei confronti della possibilità di un'esperienza politica autenticamente libertaria nella società di massa.
Atteggiamento ribadito anche nel ciclo dl lezioni sulla filosofia politica di Kant (1982, postumo)in cui la dimensione pubblica dell'esistenza non è più individuata nell’agire politico, ma nel giudizio, vale a dire nella capacità di saper osservare lo "spettacolo del mondo".
Tratto dall'enciclopedia Garzanti della Filosofia



Renzo Montagnoli



 
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