La
banalità del male.
Eichmann
a Gerusalemme
di
Hannah Arendt
Feltrinelli
Editore
Saggistica
Pagg.
348
ISBN
9788807892974
Prezzo
Euro 12,00
Quando
il male non è avvertito come tale
Adolf
Eichmann, Obersturmbannfuhrer delle SS, l’organizzatore dei
convogli ferroviari con cui gli ebrei erano trasportati nei campi di
detenzione e di sterminio, non era in sé l’incarnazione
del male, ma era un uomo normalissimo, magari mediocre e di poca
sostanza, ma dedito al suo lavoro, del tutto incapace di porsi delle
domande sulla legittimità morale dei propri atti, un
ragioniere dello sterminio, senza coscienza, insomma non colui che
ama compiere atti efferati, ma la rappresentazione della banalità
del male. Catturato da un commando israeliano l’11 maggio 1960
in Argentina, dove viveva sotto falso nome, Eichmann fu trasferito,
non senza difficoltà, in Israele per essere sottoposto a
processo. Date le circostanze e nonostante che fosse passato più
di un decennio dal processo di Norimberga il procedimento giudiziario
ebbe enorme risonanza, con la partecipazione di giornalisti di quasi
tutto il mondo e fra questi Hannah Arendt, ebrea tedesca sfuggita
alle persecuzioni emigrando per tempo. Presente a tutte le udienze
scrisse per il suo giornale (New Yorker) molti articoli,
approfondendo le problematiche giuridiche, politiche e soprattutto
morali che non erano solo attinenti il giudizio in corso, ma che
erano alla base della figura dell’imputato e in generale di
tutta la struttura nazista.
Ne
emerge un quadro allucinante, perché i nazisti non sono
considerati l’incarnazione dei peggiori istinti dell’uomo,
ma degli individui qualunque, mediocri, in fondo anonimi, poco
consapevoli o addirittura inconsapevoli dell’aspetto morale
degli atti compiuti, ma inseriti in modo perfetto in un meccanismo
del tutto infernale. In pratica chiunque, o comunque una persona del
tutto normale, può diventare un aguzzino spietato se diventa
parte di un apparato politico o anche poliziesco che lo stimola ad
agire senza pensare. Ecco, il nazismo aveva reso i suoi cittadini del
tutto incapaci di pensare, di porsi delle domande sulla moralità
di ciò che essi facevano.
Il
libro non piacque agli ebrei, volti a una demonizzazione di Hitler e
del nazismo, anche perché la banalità del male non è
stata una prerogativa solo della Germania nazista, ma potrebbe
ripresentarsi in altri paesi, anche con ideologie diverse.
Il
saggio, che è filosofico, ben rappresenta il concetto
introdotto dalla Arendt, ma credo che più delle mie parole si
pensi a una cosa semplicissima, e cioè che sarebbe stato
lecito supporre che sparito il nazismo non dovesse più
esistere il male istituzionalizzato, ma purtroppo non è stato
così, e vi sono chiari esempi di non pochi totalitarismi in
cui questa banalità si ripresenta, e, solo per citarne alcuni,
il periodo dei khmer rossi in Cambogia, oppure la rivoluzione
culturale cinese, ma purtroppo ce ne sono altri e altri ancora ne
verranno.
Si
rimane, più che sconcertati, scossi nel venire a sapere che
“quel male”, quello con la Croce uncinata, che speravamo
fosse l’ultimo e l’unico possa avere dei seguiti, cioè
che possa ripetersi questa banalità del male, perché
avevamo sempre considerati delle eccezioni anche i casi successivi,
ma quando questi non sono più rari vuol dire che il male che è
in noi potrebbe emergere prepotente e, istituzionalizzato, diventare
lo scopo della nostra vita.
Da
leggere, indubbiamente.
Hannah
Arendt
(Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975),
filosofa tedesca.
Formatasi
nelle università di Marburgo, Friburgo e Heidelberg, ebbe come
maestri Heidegger, R. Bultmann e K. Jaspers.
Di
origini ebraiche, nel 1933 emigrò in Francia, per poi
trasferirsi negli Stati Uniti nel 1940.
I
suoi principali interessi si sono orientati sull’agire
politico, inteso come dimensione pubblica dell’esistenza
umana.
In
"Le origini del totalitarismo" (1951), la Arendt
ricostruisce il processo storico
che
ha condotto alle dittature europee e alla seconda guerra mondiale; i
momenti decisivi di tale processo (antisemitismo, imperialismo e
trasformazione plebiscitaria delle democrazie) sono interpretati come
effetti di una complessiva de-politicizzazione della cultura
moderna.
"Vita
activa" (1958) propone l’e1aborazione in termini
filosofici del contrasto tra un tipo di comunità politica - la
polis greca al tempn di Pericle - e la decadenza dell’agire
politico nel pensiero occidentale.
Benché
nella contrapposizione tra Grecia e modernità si avvertano
influssi heideggeriani, la Arendt rifiuta l’esito anti-mondano
dell’ultima filosofia di Heidegger.
L’agire,
per la Arendt, definisce l'essere umano come essere-con-gli-altri:
l'identità umana costituisce nell’intimità
della coscienza soggettiva e neppure nella società (intesa
come sfera dei bisogni, del lavoro e della riproduzione), ma
piuttosto nella sfera pubblica.
La
Arendt ha delineato quest'antropologia politica in numerosi
contributi: "Sulla rivoluzione" (1963) analizza soprattutto
gli esiti perversi delle rivoluzioni americana e francese, cioè
il passaggio dalla libertà pubblica al dominio della società
amministrata e dello Stato
"Passato
e futuro" (1961) e altri saggi estendono la critica della
modernità a problemi come la storia, l'autorità e la
tradizione; "Ebraismo e modemità" (1978, postumo),
e, soprattutto "Rahel Varnhagen" (1958), biografia di
un'eroina della Berlino romantica, interpretano l'ebraismo moderno
come scisso tra l'aspirazione all'assimilazlone sociale e la fuga
nell’interiorità, aspetto proprio di una più
ampia tendenza del moderno alla polarizzazione tra coscienza
soggettiva e sfera sociale.
Favorevole
a una cultura ebraica laica e tollerante, la Arendt si è
spesso trovata in contrasto con le comunità ebraiche
ortodosse, a partire dal controverso reportage sul caso Eichmann, "La
banalità del male" (1963).
Negli
ultimi anni della sua riflessione, ha operato una rivalutazione della
vita contemplativa; in "La vita della mente", opera rimasta
incompiuta e uscita postuma nel 1978, l'esperienza spirituale viene
articolata in tre attività fondamentali: pensare, volere e
giudicare
Senza
rinunciare al ruolo preminente dell'agire nella definizione
dell’identità umana, la Arendt esprime un certo
scetticismo nei confronti della possibilità di un'esperienza
politica autenticamente libertaria nella società di
massa.
Atteggiamento
ribadito anche nel ciclo dl lezioni sulla filosofia politica di Kant
(1982, postumo)in cui la dimensione pubblica dell'esistenza non è
più individuata nell’agire politico, ma nel giudizio,
vale a dire nella capacità di saper osservare lo "spettacolo
del mondo".
Tratto
dall'enciclopedia Garzanti della Filosofia
Renzo
Montagnoli
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