Breviario di italiano
di Lucio D'Arcangelo
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it
Saggistica
Collana Micromegas
Pagg. 62
ISBN: 9788889756706
Prezzo: € 7,00
Non posso fare a meno di concordare con Lucio D'Arcangelo sui
pericoli che sta correndo la nostra lingua, in una evoluzione
che assomiglia però più a un imbarbarimento che a un naturale ed equilibrato
progresso.
E' in quest'ottica che l'autore ha scritto questo breve testo, che
ha chiamato Breviario di italiano, sottotitolato “18 punti per salvare la
nostra lingua”.
Esagerazioni, timori infondati? Assolutamente no, perché purtroppo
è sotto gli occhi di tutti, ma soprattutto di chi ama il proprio paese e la
propria lingua che è in atto una progressiva spersonalizzazione che ne fa
perdere i caratteri basilari, dando luogo a un linguaggio sgrammaticato, con un
abuso ingiustificato di anglicismi.
Giustamente D'Arcangelo scrive che Dante creò una lingua per
creare una nazione; se continuamente ci allontaniamo dal vocabolario delle
nostre parole si perde così non solo l'identità linguistica, ma anche quella
nazionale, tanto più che ancor oggi l'unico elemento unificatore è il
linguaggio.
Purtroppo ci stiamo dimostrando un popolo ingrato delle nostre
origini, di cui invece dovremmo essere fieri, prono alla conquista anche
culturale degli Stati Uniti, di cui tendiamo a scimmiottare quell'inglese che è
già una derivazione e una deformazione di quella lingua che è nata in Gran
Bretagna.
Il ricorso a termini inglesi, anche storpiandoli, spesso in
sostituzione di analoghi italiani, è la chiara dimostrazione dell'asservimento,
da noi stessi voluto, a un paese che ha tradizioni culturali inferiori alle
nostre.
E' un servilismo non preteso dagli americani, ma, purtroppo, quasi
amato dagli italiani.
In particolare, l'inglese è diventato una sorta di latinorum, di pessimo gusto, adatto a tutti gli usi e le
occasioni.
Ed ecco che si scopre che sono circa 6.000 gli anglicismi in uso nella
nostra lingua, quasi sempre del tutto inutili, perché vanno a sostituire
termini già esistenti.
Che senso ha ricorrere al vocabolo share quando già, assai
più comprensibile nel significato, abbiamo il termine quota? E perché, per una
momentanea sosta nel lavoro, non diciamo più “facciamo una pausa”, ma
quasi ci ingrassiamo a dire “facciamo un break”?
Si ha l'impressione di certi parenti poveri e ignoranti che,
arricchitisi di colpo, vogliono dimostrare anche una crescita culturale
ricorrendo, nel linguaggio, a termini astrusi, a vocaboli stranieri (nel XIX
secolo faceva tanto “chic” intercalare delle parole francesi),
quasi sempre usati a sproposito o addirittura senza conoscerne esattamente il
significato.
E come sta sparendo nell'uso comune il congiuntivo, incorrendo
peraltro in grossolani errori, questo popolo di santi, di navigatori e di
storpiatori di parole si è inventato anche dei neologismi in sostituzione di
termini da sempre usati, forse per gratificare di ben altra considerazione
attività che restano sempre del tutto manuali, ma più che necessarie e
dignitose.
Il netturbino diventa così operatore ecologico, il bidello
operatore scolastico. A parte che così al posto di una parola se ne usano due,
la nuova terminologia non riesce a chiarire esattamente l'attività svolta e non
c'è nemmeno la possibilità di un'analisi etimologica per comprenderla.
L'operatore ecologico, tanto per dare un esempio, potrebbe essere non solo
l'operaio addetto alla raccolta delle immondizie, ma anche colui che si interessa
alla conservazione della qualità dell'acqua, dell'aria, ecc. Per dirla in
breve, per non far capire il tipo di lavoro svolto, ci si è inventati una
qualifica che non ha nessun senso.
Del resto, di pari passo con lo svilimento della lingua si nota
una sfilacciatura dell'unità nazionale, non più cementata da un idioma comune
che richiama a quelle tradizioni che conferiscono agli italiani una base
storica e culturale di cui tranquillamente si sono dimenticati, con il
risultato che siamo diventati un popolo incapace di costruire il presente e di
programmare il futuro.
“Ahi serva Italia, di dolore ostello”,
giusta invocazione di Dante, ma questa volta gli italiani non sono servi
d'altri, ma di se stessi, bambini non cresciuti che scimmiottano i grandi.
Lucio D'Arcangelo è stato allievo di Giuliano Bonfante all'Università di Torino, dove si è laureato in
Glottologia con una tesi su “La trascrizione dei nomi iranici in greco”.
Docente dal 1971, prima presso la Facoltà di Magistero dell'Università di
Torino e poi presso la Facoltà di Lingue dell'Università degli Studi “G.
D'Annunzio”, nel 2000 ha
lasciato l'università per dedicarsi più liberamente agli studi.
È stato il responsabile
tecnico-scientifico del disegno di legge n. 993/2001 (ora n. 354/2008), per
l'istituzione del Consiglio Superiore della Lingua Italiana.
Tra i suoi ultimi libri Difesa dell'italiano
(Roma 2003), considerato una specie di “libro bianco” sullo stato della nostra
lingua.
Già collaboratore del
quotidiano “Il Tempo”, negli ultimi anni ha scritto su “Libero” e “Il foglio”.
Nel 2006 ha
partecipato alle trasmissioni di RAI International e in particolare al
programma “Viva Dante!”.
Attualmente collabora a “Vita e pensiero” e a
“Lingua italiana d'oggi”.
Renzo
Montagnoli