Diceria dell'untore
di Gesualdo
Bufalino
Nota dell'editore
In copertina
La donna della scodella
di Felice Casorati
Sellerio editore Palermo
Collana La rosa dei venti
Narrativa romanzo
Pagg. 213
ISBN 8838924015
Prezzo € 8,00
E questo era bello:
andarsene così a spasso con passi d'aria per montagne e pianure, clandestini
senza biglietto, contrabbandieri di vita.
Ci sono romanzi che iniziano in sordina, quasi che l'autore sia
timoroso di offendere il lettore travolgendolo da subito, ma che poi pagina
dopo pagina, riga dopo riga si intrufolano, ma sempre in punta di piedi,
nell'animo di chi dapprima scettico sente crescere in sé un entusiasmo che non
lo lascerà fino alla fine.
C'è una narrativa che, pur non cercando di indulgere alla
commozione, poco a poco insinua nel cuore una vena di malinconia, mettendo a
nudo e alla prova la capacità di sentire e di umanamente comprendere.
C'era un vecchio insegnante che ha voluto parlare della vita di
uomini vicini alla morte e in tal modo è riuscito a far comprendere quanto, in
quell'attesa, si possa ancora essere uomini.
Ecco, Diceria dell'untore
di Gesualdo Bufalino è tutto
questo.
Pubblicato per la prima volta nel 1981 ottenne subito un grande
successo di critica e di pubblico, vincendo il Campiello lo stesso anno.
E' stato, quindi, un debutto clamoroso, sia per la qualità
dell'opera che per l'età dell'autore, che all'epoca aveva sessant'anni.
Bufalino racconta l'esperienza autobiografica
della degenza nel sanatorio della “Rocca” di Palermo, un percorso della memoria
che dapprima lo portò ad abbozzare il testo verso il 1950, scrivendolo poi nel
1971 e dedicando i successivi dieci anni a continue revisioni.
La trama in sé, che potremmo definire “una tresca d'amore e di
morte”, si può
ben riassumere, senza per questo togliere il piacere della lettura, in quel che
al riguardo dice Bufalino:
“Si racconta la convivenza di alcuni reduci di guerra moribondi in
un sanatorio della Conca d'Oro, nel '46. Fra il protagonista e una paziente dai
trascorsi ambigui (Marta) nasce un amore, puerile e condannato in partenza, più di
parole che d'atti, il cui sbocco è una fuga a due senza senso, e, subito dopo, la
morte di lei in un alberghetto sul mare. Egli, invece, guarisce,
inaspettatamente, e rientrando nella vita di tutti, vi porta un'educazione alla
catastrofe di cui probabilmente non saprà servirsi, ma anche la ricchezza di un
noviziato indimenticabile nel reame delle ombre.”
E' una interpretazione dell'eterno
connubio di eros e thanatos, in cui nulla è lasciato al caso, tanto che Marta,
amante dell'io narrante, ha le stesse consonanti della morte.
Fra l'altro, in questo romanzo stupiscono lo stile e l'abbondanza
del linguaggio, che a tratti presenta caratteristiche baroccheggianti,
soprattutto prima di introdurre profonde riflessioni, quasi che il ricorso a
parole inconsuete, anche se nel passato utilizzate da letterati, servisse a
procedere con maggior lentezza, predisponendosi così a una pausa meditativa.
Resta il fatto che sovente ci si trova di fronte a ampi laghi di
parole, messe in bocca anche a personaggi che per le loro caratteristiche
dovrebbero avere invece un lessico più modesto, il che dapprima mi ha indotto a
pensare che in tal modo Bufalino volesse dare dimostrazione della sua
erudizione, ma poi riflettendo, accostando le parti dell'opera fra di loro, credo d'aver capito i motivi e cioè evidenziare
la forza dirompente del verbo in un ambiente immobile quale quello di individui
che si trascinano alla fine, dove i suoni normalmente dovrebbero essere solo i
frequenti colpi di tosse, e che invece danno un senso di intensa vitalità -
potremmo quasi pensare agli ultimi fuochi – in chi è solo in attesa.
I personaggi, che potremmo chiamare i morituri, non sono mai
semplici comparse, perché ognuno ha la sua storia nella storia comune
dell'imminente fine, un residuo di vita che ogni giorno si spegne e che è retta
da un patto tacito di non sopravvivere gli uni agli altri.
Compagni di sventura, emblemi di un'umanità che è parte del ciclo
generale della vita, un cerchio infinito di nascite e morti che Bufalino ben tratteggia nel corso della fuga dei due
protagonisti principali con l'immagine dell'agave, a cui occorrono dieci anni
per fiorire, ma che, subito dopo, muore, una metafora per dire che la vita
necessariamente salda con
la morte il debito contratto per esistere.
Del resto, nell'opera sono contenuti diversi messaggi, anche se elementi
salienti sono certamente il sentimento della morte, il sanatorio visto come
luogo di sicurezza, più dalla vita che dalla morte, e addirittura quasi
incantato, nonché l'imprevista guarigione considerata come un tradimento nei
confronti dei compagni di sventura, quasi una diserzione da un destino che si è
comunemente accettato.
Diceria dell'untore è sicuramente un romanzo stupendo.
Gesualdo Bufalino (Comiso, 15 novembre 1920 – Comiso, 14 giugno 1996).
Ha scritto, fra l'altro, Diceria dell'untore (Sellerio, 1981),
Argo il cieco ovvero i sogni della memoria (Sellerio, 1984), La luce e il lutto
(Sellerio, 1988), Saldi d'autunno (Bompiani, 1990), Qui pro quo (Bompiani,
1991).
Renzo
Montagnoli