Area riservata

Ricerca  
 
Siti amici  
 
Cookies Policy  
 
Diritti d'autore  
 
Biografia  
 
Canti celtici  
 
Il cerchio infinito  
 
News  
 
Bell'Italia  
 
Poesie  
 
Racconti  
 
Scritti di altri autori  
 
Editoriali  
 
Recensioni  
 
Letteratura  
 
Freschi di stampa  
 
Intervista all'autore  
 
Libri e interviste  
 
Il mondo dell'editoria  
 
Fotografie  
 
 
  Narrativa generica  Noir  Storie di paese Prima Serie  I racconti del nonno  Fiabe  Horror  Storie di paese Seconda Serie  C'era una volta  Racconti di Natale 

  Racconti  »  Narrativa generica  »  Per non dimenticare 12/05/2006
 

Sergio Levi guardò a lungo il soffitto candido come la neve, verso il quale saliva il fumo della sigaretta in cerchi grigiastri, sempre più larghi mano a mano che s'allontanavano da lui, fino a spezzarsi diventando evanescenti.

Altri colori avevano segnato la sua vita, un insieme di tinte sbiadite che ricorrevano spesso nei suoi pensieri: il bianco sporco della neve, segnato dal rosso opaco del sangue rappreso, il grigio di un cielo sempre opprimente.

E poi c'erano gli odori, puzze che sembravano radicate nelle sue narici: olezzi di corpi rivestiti di stracci, tanfi di escrementi e quel fetore, così acre, di carne bruciata.

Guardò il tatuaggio al polso: quante volte aveva cercato di toglierlo, usando persino una spazzola dalle setole dure! Di una cosa era ormai certo: quel numero scritto con inchiostro indelebile era sceso sempre più in profondità ed era ormai radicato nel suo animo.

Prese carta e penna e cominciò a scrivere.

 

                              

 

C'è stato un tempo felice, in cui gli uomini erano uomini e la vita scorreva tranquilla e serena, un tempo di cui la memoria ha una presenza ormai di sensazione, senza nitidezze, perché quello che accadde dopo ha cancellato anche il passato. Rivedo invece nitido, come fosse oggi, in ogni suo istante un'epoca durata quasi due anni, che sembrano pochi, ma che, per chi l'ha vissuta, sono un'eternità.

Una tradotta militare in un giorno di ottobre del 1943 arranca sferragliando. Gente ammassata nei vagoni, senza cibo, senza acqua, in un fetore opprimente di feci e di urina, qualcuno che, morto, si va già decomponendo; la disperazione è palpabile, fra urla che poco a poco si esauriscono in un rantolo.

-          Dove pensi che ci portino, Sergio?

-          Dicono in un campo di lavoro, forse in Germania.

-          Ma perché?

-          Perché siamo ebrei, ma non è questa la risposta giusta; un uomo  può forse odiare un altro uomo che conosce, ma non una razza; il motivo deve essere ben più profondo e non può nemmeno essere il timore, visto che siamo inermi.

-          E allora cos'è?

-          Adesso non lo so e forse un giorno avrò la risposta, ammesso che ci sia.

 

Il treno si ferma davanti a un cancello che porta un'insegna “Arbeit macht  frei” , il lavoro rende liberi, un'idiozia come mai ho avuto occasione di leggere, perché noi eravamo liberi, liberi di vivere, di sognare, e ora invece siamo prigionieri delle nostre paure, dei timori di un futuro senza sogni.

All'intorno, una recinzione di reticolati, intervallata da torrette occupate da sentinelle,  e dentro tanti vecchi capannoni, tutti uguali, grigi tanto che si confondono con il cielo.

La neve, sporca, crepita sotto i nostri passi e ovunque guardie che urlano, cenciosi che si trascinano osservandoci con occhi vuoti: più che in un campo di lavoro mi sembra di essere precipitato nell'inferno.

 

 

 

  

Sergio Levi si fermò un attimo, appoggiò la penna e si prese la testa fra le mani, perché quello che aveva appena scritto non era un ricordo riaffiorato, ma solo uno dei tanti incubi che accompagnavano le sue giornate. Ci sono cose che non solo non si possono dimenticare, ma che prepotenti riaffiorano in ogni momento, tanto hanno segnato la vita di un essere umano.

Riappoggiò le mani sul tavolo, riprese la penna e tornò a scrivere.

 

Il lavoro? Quanto più di massacrante ci possa essere, con le guardie sempre pronte a frustarti per un niente, quando non accade di peggio.

C'è stato un giorno che ci hanno portato a far legna in un bosco; uno sventurato come me, un ometto quasi scheletrito, si è fermato un attimo per raccogliere due o tre more, ma non ha fatto in tempo a portarsele alla bocca che una guardia lo ha afferrato, l'ha sbattuto per terra e gli ha schiacciato la testa saltandole sopra. Abbiamo guardato appena, con l'angoscia di fare la stessa fine, e quando abbiamo terminato il lavoro siamo tornati al campo, abbiamo lasciato in mezzo alla neve quei poveri stracci, niente di più di un oggetto buttato via.

Ormai la morte non fa più paura, perché siamo già tutti morti.

Quelli che vegetano in questo posto non sono altro che ombre, divise logore che rivestono un corpo vuoto di carne e di volontà.

Il tempo non esiste più e le uniche ore sono quelle degli appelli, lunghe, interminabili, fermi in piedi sotto il sole rovente dell'estate, sotto la pioggia fetida dell'autunno e la neve fredda dell'inverno.

Quello che più mi stupiva all'inizio era perché nessuno si ribellasse. Atavica paura della morte? Autoconvinzione che effettivamente un giorno saremmo stati di nuovo liberi?

Il motivo di questa sorda rassegnazione non rientrava nelle mie comprensioni, né in quelle degli altri, ma ora so. Chi ci ha incarcerato ci ha resi prigionieri di noi stessi, ha annullato le nostre personalità, ci ha svuotato di ogni volontà, ci ha tolto la possibilità di sognare e di sperare. L'ambiente, le privazioni, l'assoggettamento ci hanno ridotto a considerare la schiavitù come un fatto completamente normale e poco a poco il passato era come se non fosse mai esistito.

Le conversazioni fra noi sono pressoché scomparse e d'altra parte che mai avremmo da dirci?

L'imbarbarimento è avvenuto senza che ce ne accorgessimo e il fatto che uno di noi un giorno abbia afferrato un passerottino intirizzito e che ancora vivo lo abbia divorato non ci ha fatto nessuna impressione, perché i sentimenti sono stati da tempo cancellati.

Ricordo un episodio del gennaio del 1945; c'era un freddo polare e qualcuno mi ha mormorato all'orecchio – E' morto il rabbino. Ho risposto – Ah sì. Solo queste due sillabe, senza inflessione, senza angoscia, come se mi avessero detto che ora era. 

E quando un giorno di fine aprile del 1945 le guardie sono fuggite e sono arrivati gli americani li ho guardati con indifferenza, ho rosicchiato le loro zollette di cioccolata come quando mettevo sotto i denti le vecchie carote ammuffite, non ho capito che mi era stata ridata la libertà. Loro ci hanno guardato con sgomento e noi abbiamo rivisto dentro quelle tute mimetiche, quegli elmetti le guardie che regolavano inesorabilmente il nostro tempo.

Ci hanno fatto visitare dai medici e abbiamo obbedito, ma senza gioia o timore, solo perché eravamo abituati a obbedire.

Rammento Salomon, un sopravvissuto, che mi ha detto – Non sarà una visita per selezionarci, per decidere chi può ancora vivere?-  Ha detto proprio così, senza emozione, come se avesse parlato della cosa più naturale di questo mondo, e io non gli ho risposto, perché ormai non m'importava più di nulla.

Il ritorno a casa ha visto l'emozione dei parenti che non hanno vissuto questo inferno, e non certo la mia.

C'è voluto un po' di tempo per rendermi conto che qualche cosa era cambiato, che gli appelli omai c'erano solo nei miei sogni. Sì, sogno anche ad occhi aperti e  sempre le stesse cose: sono sempre là, vestito di stracci, chino su me stesso.

Il tempo ha riempito la mia carne, ma quello che c'è dentro no.

La vita scorre con la stessa assenza di emozioni di allora, e una giornata finalmente ho capito il perché della nostra condizione.

Guardavo un telegiornale e parlavano di una delle tante guerre in Africa, di eccidi incredibili; hanno mostrato un soldato bambino che prendeva a calci uno che aveva forse la sua età, lo picchiava e quello stava fermo, rassegnato. Le sue colpe? Quelle di appartenere a un'altra tribù; ma in effetti è la violenza sul più debole e che cela un essere ancor più debole, è il desiderio del più forte di dimostrare a se stesso che lui può tutto e gli altri niente.

Che speranza può avere l'umanità se ancora ragiona in questi termini?

La mia esistenza è ormai distrutta, lo è da quando inconsciamente ho accettato di essere parte passiva di questo modo di intendere la vita; la mia prigionia non è finita in quel giorno di aprile del 1945, ma è continuata implacabile in tutti questi anni, in tutti questi incubi  e in questa realtà che un giornalista televisivo ha presentato al pubblico.

Ecco perché scrivo queste righe: per non dimenticare, affinché chi è ancora libero dentro di sé possa non cadere in questo tragico errore.

Per me è troppo tardi; il cerchio si chiude ogni giorno di più.

 

Un colpo di pistola rintronò nella stanza.   

   

 

 

  

 

 

 
©2006 ArteInsieme, « 014035310 »