Sergio
Levi guardò a lungo il soffitto candido come la neve, verso il quale saliva il
fumo della sigaretta in cerchi grigiastri, sempre più larghi mano a mano che
s'allontanavano da lui, fino a spezzarsi diventando evanescenti.
Altri colori
avevano segnato la sua vita, un insieme di tinte sbiadite che ricorrevano
spesso nei suoi pensieri: il bianco sporco della neve, segnato dal rosso opaco
del sangue rappreso, il grigio di un cielo sempre opprimente.
E poi
c'erano gli odori, puzze che sembravano radicate nelle sue narici: olezzi di
corpi rivestiti di stracci, tanfi di escrementi e quel fetore, così acre, di
carne bruciata.
Guardò il
tatuaggio al polso: quante volte aveva cercato di toglierlo, usando persino una
spazzola dalle setole dure! Di una cosa era ormai certo: quel numero scritto
con inchiostro indelebile era sceso sempre più in profondità ed era ormai
radicato nel suo animo.
Prese
carta e penna e cominciò a scrivere.
C'è stato un tempo felice, in cui gli uomini erano
uomini e la vita scorreva tranquilla e serena, un tempo di cui la memoria ha
una presenza ormai di sensazione, senza nitidezze, perché quello che accadde
dopo ha cancellato anche il passato. Rivedo invece nitido, come fosse oggi, in ogni suo istante un'epoca durata quasi due
anni, che sembrano pochi, ma che, per chi l'ha vissuta, sono un'eternità.
Una tradotta militare in un giorno di ottobre del
1943 arranca sferragliando. Gente ammassata nei vagoni, senza cibo, senza
acqua, in un fetore opprimente di feci e di urina, qualcuno che, morto, si va
già decomponendo; la disperazione è palpabile, fra
urla che poco a poco si esauriscono in un rantolo.
-
Dove pensi che ci portino, Sergio?
-
Dicono in un campo di lavoro, forse in Germania.
-
Ma perché?
-
Perché siamo ebrei, ma non è questa la risposta giusta; un uomo può forse odiare un
altro uomo che conosce, ma non una razza; il motivo deve essere ben più
profondo e non può nemmeno essere il timore, visto che siamo inermi.
-
E allora cos'è?
-
Adesso non lo so e forse un giorno avrò la risposta, ammesso che ci sia.
Il treno si ferma davanti a un cancello che porta
un'insegna “Arbeit macht frei”
, il lavoro rende liberi, un'idiozia come mai ho avuto occasione di leggere,
perché noi eravamo liberi, liberi di vivere, di sognare, e ora invece siamo
prigionieri delle nostre paure, dei timori di un futuro senza sogni.
All'intorno, una recinzione di reticolati,
intervallata da torrette occupate da sentinelle, e dentro tanti vecchi capannoni, tutti
uguali, grigi tanto che si confondono con il cielo.
La neve, sporca, crepita sotto i nostri passi e
ovunque guardie che urlano, cenciosi che si trascinano osservandoci con occhi
vuoti: più che in un campo di lavoro mi sembra di essere precipitato
nell'inferno.
Sergio
Levi si fermò un attimo, appoggiò la penna e si prese la testa fra le mani,
perché quello che aveva appena scritto non era un ricordo riaffiorato, ma solo
uno dei tanti incubi che accompagnavano le sue giornate. Ci sono cose che non
solo non si possono dimenticare, ma che prepotenti riaffiorano in ogni momento,
tanto hanno segnato la vita di un essere umano.
Riappoggiò
le mani sul tavolo, riprese la penna e tornò a scrivere.
Il lavoro? Quanto più di massacrante ci possa essere,
con le guardie sempre pronte a frustarti per un niente, quando non accade di
peggio.
C'è stato un giorno che ci hanno portato a far
legna in un bosco; uno sventurato come me, un ometto quasi scheletrito, si è
fermato un attimo per raccogliere due o tre more, ma non ha fatto in tempo a
portarsele alla bocca che una guardia lo ha afferrato, l'ha sbattuto per terra
e gli ha schiacciato la testa saltandole sopra. Abbiamo guardato appena, con
l'angoscia di fare la stessa fine, e quando abbiamo terminato il lavoro siamo
tornati al campo, abbiamo lasciato in mezzo alla neve quei poveri stracci,
niente di più di un oggetto buttato via.
Ormai la morte non fa più paura, perché siamo già
tutti morti.
Quelli che vegetano in questo posto non sono altro
che ombre, divise logore che rivestono un corpo vuoto di carne e di volontà.
Il tempo non esiste più e le uniche ore sono quelle
degli appelli, lunghe, interminabili, fermi in piedi sotto il sole rovente
dell'estate, sotto la pioggia fetida dell'autunno e la neve fredda
dell'inverno.
Quello che più mi stupiva all'inizio era perché
nessuno si ribellasse. Atavica paura della morte? Autoconvinzione che
effettivamente un giorno saremmo stati di nuovo
liberi?
Il motivo di questa sorda rassegnazione non
rientrava nelle mie comprensioni, né in quelle degli altri, ma ora so. Chi ci
ha incarcerato ci ha resi prigionieri di noi stessi, ha annullato le nostre
personalità, ci ha svuotato di ogni volontà, ci ha tolto la possibilità di
sognare e di sperare. L'ambiente, le privazioni, l'assoggettamento ci hanno
ridotto a considerare la schiavitù come un fatto completamente normale e poco a
poco il passato era come se non fosse mai esistito.
Le conversazioni fra noi sono pressoché scomparse e
d'altra parte che mai avremmo da dirci?
L'imbarbarimento è avvenuto senza che ce ne
accorgessimo e il fatto che uno di noi un giorno abbia afferrato un passerottino intirizzito e che ancora vivo lo abbia
divorato non ci ha fatto nessuna impressione, perché i sentimenti sono stati da
tempo cancellati.
Ricordo un episodio del gennaio del 1945; c'era un
freddo polare e qualcuno mi ha mormorato all'orecchio – E' morto il rabbino. Ho
risposto – Ah sì. Solo queste due sillabe, senza
inflessione, senza angoscia, come se mi avessero detto che ora era.
E quando un giorno di fine aprile del 1945 le
guardie sono fuggite e sono arrivati gli americani li ho guardati con
indifferenza, ho rosicchiato le loro zollette di cioccolata come quando mettevo
sotto i denti le vecchie carote ammuffite, non ho capito che mi era stata
ridata la libertà. Loro ci hanno guardato con sgomento e noi abbiamo rivisto
dentro quelle tute mimetiche, quegli elmetti le guardie che regolavano
inesorabilmente il nostro tempo.
Ci hanno fatto visitare dai medici e abbiamo
obbedito, ma senza gioia o timore, solo perché eravamo abituati a obbedire.
Rammento Salomon, un sopravvissuto, che mi ha detto
– Non sarà una visita per selezionarci, per decidere chi può ancora vivere?- Ha detto proprio
così, senza emozione, come se avesse parlato della cosa più naturale di questo
mondo, e io non gli ho risposto, perché ormai non m'importava più di nulla.
Il ritorno a casa ha visto l'emozione dei parenti
che non hanno vissuto questo inferno, e non certo la mia.
C'è voluto un po' di tempo per rendermi conto che
qualche cosa era cambiato, che gli appelli omai c'erano solo nei miei sogni.
Sì, sogno anche ad occhi aperti e sempre le stesse cose: sono sempre là,
vestito di stracci, chino su me stesso.
Il tempo ha riempito la mia carne, ma quello che
c'è dentro no.
La vita scorre con la stessa assenza di emozioni di
allora, e una giornata finalmente ho capito il perché della nostra condizione.
Guardavo un telegiornale e parlavano di una delle
tante guerre in Africa, di eccidi incredibili; hanno mostrato un soldato
bambino che prendeva a calci uno che aveva forse la sua età, lo picchiava e
quello stava fermo, rassegnato. Le sue colpe? Quelle di appartenere a un'altra
tribù; ma in effetti è la violenza sul più debole e
che cela un essere ancor più debole, è il desiderio del più forte di dimostrare
a se stesso che lui può tutto e gli altri niente.
Che speranza può avere l'umanità se ancora ragiona
in questi termini?
La mia esistenza è ormai distrutta, lo è da quando inconsciamente ho accettato di essere parte
passiva di questo modo di intendere la vita; la mia prigionia non è finita in
quel giorno di aprile del 1945, ma è continuata implacabile in tutti questi
anni, in tutti questi incubi e in questa
realtà che un giornalista televisivo ha presentato al pubblico.
Ecco perché scrivo queste righe: per non
dimenticare, affinché chi è ancora libero dentro di sé possa non cadere in
questo tragico errore.
Per me è troppo tardi; il cerchio si chiude ogni
giorno di più.
Un colpo
di pistola rintronò nella stanza.