Nella
nebbia
di Renzo Montagnoli
Dubito che mi crederete,
perché nemmeno io penso che sia vero, anzi ho l'impressione che sia stato un
sogno, uno di quelli a cui partecipi così attivamente che al risveglio ti
sembra di aver ricordato un fatto accaduto molto tempo prima.
Eppure, ho l'impressione
di essere ancora presente, di udire la sua voce, di asciugarmi il volto bagnato
dalla nebbia. Non lo dico per convincere voi o me stesso, ma tutto mi sovviene
con una certezza e una lucidità come se l'avessi vissuto.
Dovete sapere che mi
piace camminare, con qualsiasi stagione, anche nel freddo dell'inverno, pure se
c'è la nebbia, anzi mi piace girovagare in mezzo alla caligine, ascoltando i
rumori che essa attutisce e che arrivano alle orecchie come soffocati, quasi un
sussurro anche quando si tratta del muggito di una vacca. E vado sempre là,
cioè lungo quella ciclabile che si snoda nelle terre di Virgilio.
E' stato così anche quel
giorno di febbraio, non particolarmente gelido, ma
calato dentro uno strato di una nebbia così fitta da scorgere appena i bordi
della strada.
Camminavo al centro di
quel viottolo scivoloso che serpeggiava fra i campi, ma non vedevo nulla e
appena riuscivo a indovinare ai lati i rami delle piante intirizzite. Sembrava
sera già inoltrata, ma era mattina, all'incirca verso il mezzogiorno, anche se
la luce era scomparsa, e fu quindi con un certo sgomento che, guardando alla
mia destra, scorsi sul suolo viscido un'ombra. Certo ebbi un moto di paura,
perché era impossibile, in assenza di sole o del benché minimo chiarore che
fossi io a generarla. Del resto, a osservarla attentamente, non denotava i miei
contorni, resi ancor più abbondanti dal giaccone pesante che indossavo. Questi,
infatti, erano più stretti, come se di colpo io fossi smagrito, ma il timore si
accrebbe quando udii la voce.
- Non sei tu, son io.
Pensai che fosse frutto
di un pensiero annidato nel cervello, ma lo sbigottimento aumentò quando la
sentii di nuovo.
- Che temi, dunque, d'una voce senza bocca, d'un suono senza corpo? Non
hai capito che son l'ombra?
Ebbi il sospetto di
parlare fra me e me, quando, schiarendomi la gola, borbottai:
- Certo, è ovvio che è l'ombra che parla.
Mi fermai trattenendo il
respiro, pronto a cogliere la risposta, ma questa non venne; però, l'ombra
cominciò a girarmi intorno fino a porsi dinanzi a me.
- Nulla vuoi ammettere di ciò che vedi, solo tu accetti quel che credi.
Sbottai e fu d'istinto:
- Senti, non farmi
diventar pazzo e dimmi tu chi sei!
- Da giovine qui pascevano le greggi, terra mia per un certo tempo fu,
qui meditai e scrissi anche dei versi, qui nacqui e magari fossi restato, fra
terre verdi, rane gracidanti, i canneti e i salici lungo il fiume, e se non
l'hai ancor capito, son Vergilius.
La testa mi rimbombava,
perché non si può credere a quel che è impossibile.
- Non ha senso! Sei morto
da più di venti secoli e quindi io con la testa non ci sto. E poi parli la mia
lingua.
L'ombra si scostò e si
pose alla mia sinistra:
- Dimentichi che accompagnai Dante in un viaggio che tu di certo hai già
studiato.
Rifiutavo un'evidente
illogicità.
- No, tu non esisti, sono
sicuro che questa mattina non sto bene, forse è stata
la colazione, forse questo freddo.
- Ascoltami, allora, e potrai capire.
Da dove io vengo non c'è più luce e solo in giorni come questo, in
cui l'oscurità si mesce, possono anche le ombre passar lo Stige,
ché il vecchio Caronte nemmen s'accorge, ma al primo chiarore lesti ci tocca ritornare.
Tu non sai com'è laggiù, un tempo senza ore, nulla si sente,
niente si vede, si è, senza essere.
- Dunque, mi dici che tu
sei risalito dagli Inferi?
- Sì.
- E allora con Dante non
hai fatto un viaggio con tanto di descrizioni di gironi, di dannati, di
condanne?
L'ombra si rannicchiò.
- Orsù, rispondi.
- Del tempo eterno, dell'altro mondo, ognun vede ciò che vuole. Lo pensa
in vita per non temere il fatale incontro. Credevo anch'io di traghettare con
Caronte, lo vedevo quando gli ultimi istanti d'una vita mi
spalancavan quella porta, e ancor lo credo, anche se
nulla ho visto o vedo.
Povera ombra, che t'aggrappi al ricordo di come pensavi l'Ade in
vita e invece forse nemmeno sei, né stai parlando con costui, perché è solo
frutto di ciò che si cela in una fantasiosa mente.
- Allora, sto sognando,
vero?
- Chi lo può dire, se non l'interessato. L'oscura caligine ti ha il dopo
richiamato, quel passo ultimo che lascia indietro gli altri senza saper se se ne faranno ancora.
La testa mi doleva,
incerto fra il credere a ciò che mi sembrava o l'accettare ciò che la mia mente
partoriva.
L'ombra c'era, io la
vedevo, ma un altro l'avrebbe scorta?
Nel dubbio stetti al
gioco e ripresi a conversare:
- Sei quindi ritornato
alla tua terra.
- Sì, mai nulla è più bello di ciò che tenevi da fanciullo, un mondo che
il ricordo sfuma e tutto fa sembrar ancor migliore.
Non c'è fama, né ricchezza che possano far tornare alla
giovinezza, di quando le corse eran nel sole, il
refrigerio nei piedi immersi nel dolce fiume e il calore nella casa che alla
sera t'accoglieva.
E la quiete di giorni senza fretta, a sonnecchiar nell'erba,
lontani i campanacci degli armenti e accostato all'orecchio il frinir d'una
cicala.
A guardare il cielo, le nubi che veloci scorrevano, per poi
sparire all'orizzonte, dove Roma, possente e altera, io sognavo. Fossi rimasto
in questa landa di villiche virtù, di semplici giornate forse non m'avrebbe
colto, pria del tempo, quel feral colpo d'un sole
maledetto, mentre alla villa di Partenope m'accingevo
a ritornare dopo un bagno di cultura nell'Ellade
asservita. Tanto imparar per nulla, per varcar la soglia infinita che mi s'aprì
per strada.
Lui parlava e io vedevo
la nebbia che s'alzava, come un sipario s'apriva in una luce che pareva dorata;
in un'atmosfera incantata greggi pascolavano quiete, cullate dal suono dello
zufolo d'un pastorello accovacciato all'ombra d'un salice. Com'era allora, io
vedevo, volgendo lo sguardo all'orizzonte, oltre il quale immaginavo una città
cinta da possenti mura, le vie animate da una moltitudine, i palazzi solenni,
pasti in case patrizie allietati dai versi declamati da un poeta che non m'era
sconosciuto e che, benché in altra foggia addobbato, aveva le mie
sembianze.
- Eran giorni felici e non sapevo; seduto in riva al fiume parlavo con le
acque e il suo dio mi rispondeva con il volo d'un airone, che sempre là
sembrava andare e della Caput Mundi la strada
m'indicava. Là voleva il fato che io
mi dirigessi, lasciando questo mondo che allor
piccolo pareva, ma che solo la lontananza me lo fece scoprir immensamente
grande. Più col tempo vuoi salire, più poi te ne dovrai pentire. Ah casa
avita, a cui mai più tornai, ebbro di gloria da pensar d'essere eterno, da
scordar il respiro della vita che i trionfi di Roma celavan
alle mie orecchie. Qui ero io, là solo il poeta.
Avvertivo il batter d'ali
sopra il mio capo, alzavo gli occhi e seguivo il volo, anzi l'affiancavo, e
mentre sparivano i quieti campi di Andes
antica davanti a me s'aprivano squarci di
selve inesplorate, di strade consolari percorse da carriaggi e da
viandanti tutti diretti là, in quella città per cui valeva forse la pena di
abbandonare l'oasi di serenità che il lento Mincio accarezzava con le sue
fresche acque.
- Mai, mai tornerà quell'età, e l'uomo corre, veloce, sapendo che un
giorno tutto finirà e allor s'inventa un mondo per il
dopo, affinché anche la notte che s'avvicina sia il rifugio d'un sogno, un
passo non voluto, ma non incerto. Nulla è più oscuro di ciò che non
comprendiamo, niente è più triste del crearsi un'illusione.
Si rialzò, allungò le
braccia, quasi stirandosi le membra.
- Anche Dante ha scritto ciò che in sogno ha sperato, ma or s'aggira
l'ombra invano, un niente di nulla che s'aggiunge al nulla. Nemmeno ombre
siamo, ma solo fummo e mai più saremo.
Sentii i singhiozzi, ma
le lacrime rigavano le mie guance, i singulti scuotevano il mio petto e quando
alfine, sempre più commosso, cercai in un impeto di pietà di stringere a me
l'ombra le braccia si chiusero nel vuoto, mentre lontano un eco si spegneva e quasi a
nenia ripeteva “Nemmeno ombre siamo, ma
solo fummo e mai più saremo”.
Cercai invano, almeno una
traccia io volevo, ma com'era apparsa l'ombra se n'era andata, lasciandomi la
testa confusa,
con gli occhi abbagliati da un po' di sole che finalmente spezzava l'uniformità
del soffocante grigiore.
Il ricordo si fa poi più
disordinato e nemmeno rammento se, tornato a casa, a qualcuno ho raccontato.
Non sempre, ma comunque
non è raro il caso che al risveglio sia colto dalla memoria di questa storia
che stento a credere vissuta, ma che è rimasta in me con il peso
dell'esperienza, una vicenda di cui non dubitare solo nel buio di una notte,
quando occhi e mente placidi riposano e cercano invano risposte con un sogno.