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  Racconti  »  Narrativa generica  »  Nella nebbia 08/04/2009
 

Nella nebbia

di Renzo Montagnoli

 

Dubito che mi crederete, perché nemmeno io penso che sia vero, anzi ho l'impressione che sia stato un sogno, uno di quelli a cui partecipi così attivamente che al risveglio ti sembra di aver ricordato un fatto accaduto molto tempo prima.

Eppure, ho l'impressione di essere ancora presente, di udire la sua voce, di asciugarmi il volto bagnato dalla nebbia. Non lo dico per convincere voi o me stesso, ma tutto mi sovviene con una certezza e una lucidità come se l'avessi vissuto.

Dovete sapere che mi piace camminare, con qualsiasi stagione, anche nel freddo dell'inverno, pure se c'è la nebbia, anzi mi piace girovagare in mezzo alla caligine, ascoltando i rumori che essa attutisce e che arrivano alle orecchie come soffocati, quasi un sussurro anche quando si tratta del muggito di una vacca. E vado sempre là, cioè lungo quella ciclabile che si snoda nelle terre di Virgilio.

E' stato così anche quel giorno di febbraio, non particolarmente gelido, ma calato dentro uno strato di una nebbia così fitta da scorgere appena i bordi della strada.

Camminavo al centro di quel viottolo scivoloso che serpeggiava fra i campi, ma non vedevo nulla e appena riuscivo a indovinare ai lati i rami delle piante intirizzite. Sembrava sera già inoltrata, ma era mattina, all'incirca verso il mezzogiorno, anche se la luce era scomparsa, e fu quindi con un certo sgomento che, guardando alla mia destra, scorsi sul suolo viscido un'ombra. Certo ebbi un moto di paura, perché era impossibile, in assenza di sole o del benché minimo chiarore che fossi io a generarla. Del resto, a osservarla attentamente, non denotava i miei contorni, resi ancor più abbondanti dal giaccone pesante che indossavo. Questi, infatti, erano più stretti, come se di colpo io fossi smagrito, ma il timore si accrebbe quando udii la voce.

- Non sei tu, son io.

Pensai che fosse frutto di un pensiero annidato nel cervello, ma lo sbigottimento aumentò quando la sentii di nuovo.

- Che temi, dunque, d'una voce senza bocca, d'un suono senza corpo? Non hai capito che son l'ombra?

Ebbi il sospetto di parlare fra me e me, quando, schiarendomi la gola, borbottai:

- Certo, è ovvio che è l'ombra che parla.

Mi fermai trattenendo il respiro, pronto a cogliere la risposta, ma questa non venne; però, l'ombra cominciò a girarmi intorno fino a porsi dinanzi a me.

- Nulla vuoi ammettere di ciò che vedi, solo tu accetti quel che credi.

Sbottai e fu d'istinto:

- Senti, non farmi diventar pazzo e dimmi tu chi sei!

- Da giovine qui pascevano le greggi, terra mia per un certo tempo fu, qui meditai e scrissi anche dei versi, qui nacqui e magari fossi restato, fra terre verdi, rane gracidanti, i canneti e i salici lungo il fiume, e se non l'hai ancor capito, son Vergilius.

La testa mi rimbombava, perché non si può credere a quel che è impossibile. 

- Non ha senso! Sei morto da più di venti secoli e quindi io con la testa non ci sto. E poi parli la mia lingua.

L'ombra si scostò e si pose alla mia sinistra:

- Dimentichi che accompagnai Dante in un viaggio che tu di certo hai già studiato.

Rifiutavo un'evidente illogicità.

- No, tu non esisti, sono sicuro che questa mattina non sto bene, forse è stata la colazione, forse questo freddo.

- Ascoltami, allora, e potrai capire.

Da dove io vengo non c'è più luce e solo in giorni come questo, in cui l'oscurità si mesce, possono anche le ombre passar lo Stige, ché il vecchio Caronte nemmen s'accorge, ma al primo chiarore lesti ci tocca ritornare.

Tu non sai com'è laggiù, un tempo senza ore, nulla si sente, niente si vede, si è, senza essere.

- Dunque, mi dici che tu sei risalito dagli Inferi?

- Sì.

- E allora con Dante non hai fatto un viaggio con tanto di descrizioni di gironi, di dannati, di condanne?

L'ombra si rannicchiò.

- Orsù, rispondi.

- Del tempo eterno, dell'altro mondo, ognun vede ciò che vuole. Lo pensa in vita per non temere il fatale incontro. Credevo anch'io di traghettare con Caronte, lo vedevo quando gli ultimi istanti d'una vita mi spalancavan quella porta, e ancor lo credo, anche se nulla ho visto o vedo.

Povera ombra, che t'aggrappi al ricordo di come pensavi l'Ade in vita e invece forse nemmeno sei, né stai parlando con costui, perché è solo frutto di ciò che si cela in una fantasiosa mente.

- Allora, sto sognando, vero?

- Chi lo può dire, se non l'interessato. L'oscura caligine ti ha il dopo richiamato, quel passo ultimo che lascia indietro gli altri senza saper se se ne faranno ancora.

La testa mi doleva, incerto fra il credere a ciò che mi sembrava o l'accettare ciò che la mia mente partoriva.

L'ombra c'era, io la vedevo, ma un altro l'avrebbe scorta?

Nel dubbio stetti al gioco e ripresi a conversare:

- Sei quindi ritornato alla tua terra.

- Sì, mai nulla è più bello di ciò che tenevi da fanciullo, un mondo che il ricordo sfuma e tutto fa sembrar ancor migliore.

Non c'è fama, né ricchezza che possano far tornare alla giovinezza, di quando le corse eran nel sole, il refrigerio nei piedi immersi nel dolce fiume e il calore nella casa che alla sera t'accoglieva.

E la quiete di giorni senza fretta, a sonnecchiar nell'erba, lontani i campanacci degli armenti e accostato all'orecchio il frinir d'una cicala.

A guardare il cielo, le nubi che veloci scorrevano, per poi sparire all'orizzonte, dove Roma, possente e altera, io sognavo. Fossi rimasto in questa landa di villiche virtù, di semplici giornate forse non m'avrebbe colto, pria del tempo, quel feral colpo d'un sole maledetto, mentre alla villa di Partenope m'accingevo a ritornare dopo un bagno di cultura nell'Ellade asservita. Tanto imparar per nulla, per varcar la soglia infinita che mi s'aprì per strada.

Lui parlava e io vedevo la nebbia che s'alzava, come un sipario s'apriva in una luce che pareva dorata; in un'atmosfera incantata greggi pascolavano quiete, cullate dal suono dello zufolo d'un pastorello accovacciato all'ombra d'un salice. Com'era allora, io vedevo, volgendo lo sguardo all'orizzonte, oltre il quale immaginavo una città cinta da possenti mura, le vie animate da una moltitudine, i palazzi solenni, pasti in case patrizie allietati dai versi declamati da un poeta che non m'era sconosciuto e che, benché in altra foggia addobbato, aveva le mie sembianze.    

- Eran giorni felici e non sapevo; seduto in riva al fiume parlavo con le acque e il suo dio mi rispondeva con il volo d'un airone, che sempre là sembrava andare e della Caput Mundi la strada m'indicava. Là voleva il fato che io mi dirigessi, lasciando questo mondo che allor piccolo pareva, ma che solo la lontananza me lo fece scoprir immensamente grande. Più col tempo vuoi salire,  più poi te ne dovrai pentire. Ah casa avita, a cui mai più tornai, ebbro di gloria da pensar d'essere eterno, da scordar il respiro della vita che i trionfi di Roma celavan alle mie orecchie. Qui ero io, là solo il poeta.  

Avvertivo il batter d'ali sopra il mio capo, alzavo gli occhi e seguivo il volo, anzi l'affiancavo, e mentre sparivano i quieti campi di Andes antica davanti a me s'aprivano squarci di  selve inesplorate, di strade consolari percorse da carriaggi e da viandanti tutti diretti là, in quella città per cui valeva forse la pena di abbandonare l'oasi di serenità che il lento Mincio accarezzava con le sue fresche acque.

- Mai, mai tornerà quell'età, e l'uomo corre, veloce, sapendo che un giorno tutto finirà e allor s'inventa un mondo per il dopo, affinché anche la notte che s'avvicina sia il rifugio d'un sogno, un passo non voluto, ma non incerto. Nulla è più oscuro di ciò che non comprendiamo, niente è più triste del crearsi un'illusione.

Si rialzò, allungò le braccia, quasi stirandosi le membra.

- Anche Dante ha scritto ciò che in sogno ha sperato, ma or s'aggira l'ombra invano, un niente di nulla che s'aggiunge al nulla. Nemmeno ombre siamo, ma solo fummo e mai più saremo.

Sentii i singhiozzi, ma le lacrime rigavano le mie guance, i singulti scuotevano il mio petto e quando alfine, sempre più commosso, cercai in un impeto di pietà di stringere a me l'ombra le braccia si chiusero nel vuoto, mentre  lontano un eco si spegneva e quasi a nenia ripeteva “Nemmeno ombre siamo, ma solo fummo e mai più saremo”.

Cercai invano, almeno una traccia io volevo, ma com'era apparsa l'ombra se n'era andata, lasciandomi la testa  confusa, con gli occhi abbagliati da un po' di sole che finalmente spezzava l'uniformità del soffocante grigiore.

Il ricordo si fa poi più disordinato e nemmeno rammento se, tornato a casa, a qualcuno ho raccontato.

Non sempre, ma comunque non è raro il caso che al risveglio sia colto dalla memoria di questa storia che stento a credere vissuta, ma che è rimasta in me con il peso dell'esperienza, una vicenda di cui non dubitare solo nel buio di una notte, quando occhi e mente placidi riposano e cercano invano risposte con un sogno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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