Il sogno di Felicita
di Renzo Montagnoli
Quando nacque, il padre, uomo d'armi,
ufficiale dell'allora Regio Esercito e appena promosso al grado superiore, non
trovò di meglio di dichiarare all'addetto dell'anagrafe che, essendo particolarmente
lieto dell'evento, avrebbe chiamato la piccola Felicità.
Forse l'impiegato non conosceva bene
gli accenti, oppure comprese male, o meglio ancora si scordò quel baffino sulla a e così finì per chiamarsi Felicita.
In ogni caso il nome fu nettamente in
contrasto con il destino di questo essere umano, votato dalle circostanze a uno
stato di perenne infelicità.
L'ascendente dei genitori, in
particolare del padre, la costrinse a un'educazione rigida, in cui nulla era
lasciato al caso ed erano perfino scelte le eventuali amichette compagne di
giochi.
Se poi si considerano i frequenti
trasferimenti legati alla carriera del genitore, fu inevitabile che le
conoscenze di Felicita fossero solo temporanee, cosicché al raggiungimento
della maggiore età il concetto di un'autentica amicizia non era ancora innato
nella fanciulla.
Al compimento dei 18 anni il padre era
già generale di divisione, una posizione di prestigio che imponeva un
matrimonio altolocato per quell'unica figlia.
La giovinetta non era né bella né
brutta, altezza media, capelli neri, occhi scuri vivacissimi e che sembravano
alla perenne ricerca di qualche cosa, forse di quella libertà che tanto le
mancava.
Come era d'uso fece il suo ingresso in
società al ballo delle debuttanti, una serata di galateo schizofrenico in cui
dovette mostrare l'educazione ricevuta e poiché questa era stata rigida e
inflessibile finì con il comportarsi come un soldato prussiano, con il
risultato che scoraggiò tutti i cavalieri, tutti meno uno.
Il tenente Bruno Arvati,
bello, alto, slanciato era la preda più ambita della serata, ma questi non
aveva occhi che per Felicita e finì con il danzare con lei fino alla
mezzanotte. Fu un
colpo di fulmine e lei se ne innamorò subito, desiderando ardentemente di
essere ricambiata.
- Signorina Felicita, lei balla
divinamente.
Arrossì, abbassò gli occhi, mentre il
petto le scoppiava.
- Se…se è d'accordo, chiederò al suo
signor padre il permesso di incontrarmi ancora con lei.
La risposta fu un sì sommesso, come si
conveniva a una fanciulla di buona famiglia.
Il generale non risultò per nulla
d'accordo, ben conoscendo il carattere del tenente, gran donnaiolo e
impenitente giocatore d'azzardo indebitato fino al collo, uomo più di apparenza
che di sostanza.
Felicita pianse, si disperò, supplicò
il padre, ma fu tutto vano e conobbe il primo rifiuto, il primo di tanti che
l'accompagnarono nella sua breve vita.
Dapprima furono frequenti e le scuse
del genitore le più varie (non è degno di te, non ha una posizione pari alla
nostra, è uno scapestrato, andrebbe bene, ma non ha un soldo), poi cominciarono
a diradarsi mano a mano che Felicita invecchiava. Lei finì con l'incupirsi e
quando arrivò a compiere trent'anni sembrava già una donna matura, spenta e
senza futuro.
La scomparsa prima del padre, poi
quella della madre, anziché farle ritrovare la libertà che aveva persa,
sembrarono rinchiuderla ancora di più in una vita di steccati, fra pareti senza
finestre.
Così diceva all'unica amica: - Sono
vecchia, il mio tempo ormai è passato.
E quella rispondeva: - Non è vero, sei ancora giovane, puoi ancora trovare l'amore.
Felicita si schermiva più per
convenienza che per una nascosta speranza, ben sapendo come un cuore inaridito
non possa più offrire nulla.
Così i giorni passavano, monotoni,
grigi, senza primavere, solo lunghi desolanti autunni.
Fu l'anno in cui ne compì trentuno che
si accorse di quello strano malessere, di quella tosse stizzosa che andava
crescendo e che ogni tanto provocava sbocchi di sangue.
Andò dal medico, la visitò e fu ricoverata
immediatamente all'ospedale, con un verdetto che all'epoca (fra le due guerre)
era una sentenza senza appello: tubercolosi.
Lì la curarono un po', ma poi le
consigliarono vivamente di cambiare aria, di andare dove questa era più sana e
leggera e così si trasferì in un paesino del trentino, un borgo incantevole fra
le Dolomiti.
La notizia dell'incurabilità della
malattia non l'aveva di fatto sconvolta, tanto ormai
da tempo era morta dentro. Fu quindi un ripetersi della solita vita anche nella
nuova località, quasi sempre chiusa nella camera della pensione che l'ospitava,
con rarissime uscite solo per andare in farmacia.
Durante una di queste, mentre chiedeva
un prodotto vitaminico, chissà per quale segreto meccanismo le parve all'improvviso che l'uomo
dall'altra parte del banco assomigliasse al tenente Arvati.
- Ecco signora, ecco il suo prodotto.
- Grazie, dottore.
E fece per uscire, ma poi sulla porta
si fermò e si voltò a fissare l'uomo.
- Ha dimenticato qualcosa?
- No, è che lei assomiglia a una
persona che ho conosciuto tanto tempo fa.
- Spero sia stata una conoscenza
piacevole.
- Sì. – e corse fuori.
Da allora le visite in farmacia si
intensificarono. Con tatto aveva chiesto informazioni e aveva così saputo che
l'uomo non era un né fratello, né un parente dell'Arvati,
ma anche che era considerato una brava persona, un po' sfortunata, poiché
l'anno prima gli era morta la moglie, lasciandolo
praticamente solo, non avendo prole.
- Ecco anche oggi la nostra signora. In
cosa posso servirla?
- Avrei bisogno di cachet contro
l'emicrania.
- Spero che questi gliela facciano
passare.
Ma l'emicrania diventò ricorrente e i
cachet non bastavano mai, giacché Felicita, come usciva dalla farmacia, li gettava
nel torrente che scorreva nei pressi.
I contatti più frequenti crearono una
situazione di imbarazzante complicità, perché anche l'uomo cominciò a
desiderare la visita di quella cliente.
Pur mantenendo le distanze, dalla
semplice ordinazione si passò a discorsi sul tempo, poi sulle proprie origini,
sulle scuole frequentate, insomma si venne a creare una relazione di
conoscenza.
E se mentre Felicita, una volta uscita
dal locale, provava il desiderio di rientrarvi immediatamente, lui invece
vedendola andarsene avvertiva un senso di vuoto, come se all'improvviso le
mancasse.
Quel che non fecero le parole lo
realizzarono gli sguardi, grazie ai quali entrambi compresero l'interesse
dell'uno per l'altro.
Ormai i tempi erano maturi per una
dichiarazione, per rompere quegli indugi che usi e convenienze riuscivano a
frenare.
L'occasione sarebbe stata l'invito a
visitare con lui una cascata nelle vicinanze del villaggio.
- Sembra che domani sia bello e dato
che è domenica la farmacia è chiusa. Così ho deciso di muovermi un po', di fare
quattro passi. A non più di due chilometri dal villaggio c'è un posto stupendo,
con una cascatella da cui sembrano uscire le ninfe.
- Deve essere bello, dottore.
- Io lo considero incantevole. Non c'è
nessuno di quelli che stanno qui che non l'abbia visto almeno una volta…
Felicita restò zitta, ma i suoi occhi
scuri brillarono all'improvviso.
- Perché non viene anche lei? E' solo
una passeggiata; le farebbe bene e…io sono un galantuomo, una persona seria.
Per me sarà un onore accompagnarla.
Felicita si volse e fece per uscire, ma
poi quando fu sulla porta girò il capo e disse: - A che ora?
- Alle 10. Passerò io dalla pensione.
- D'accordo. – e uscì raggiante.
Fu un giorno speciale per lei, tutta
tesa a immaginare l'indomani. Per la prima volta si sentì leggera, avvertì che
le membra si scioglievano, perdevano quella composta rigidità da soldato
prussiano. Il mondo finalmente si apriva, il cielo così cupo lasciava
intravvedere i raggi del sole.
Dimenticò tutto, il suo passato, la vita
monotona e inutile,
iniziò anche a fantasticare, a
immaginare le mani di lui sulle sue,
avvertendo un leggero brivido che, anziché turbarla, la fece sorridere.
Forse non tutto era perduto, si disse,
forse anche lei avrebbe potuto conoscere che cos'era l'amore.
I sogni hanno però vita breve e quando
già era raggiante si ricordò del motivo per cui si trovava lì e riemerse, prima
sommessamente, poi in modo prepotente, il pensiero della malattia, di quella
morte che sembrava vicina.
Arrivò a sera angosciata e dopo la cena
si coricò subito, cercando di non pensare, sperando di dormire.
E fra tanti patemi d'animo, improvvisi
ripensamenti, speranze che nascevano e subito finivano, il sonno al fine la
colse.
-
Felicita, Felicita!
-
Chi è che mi chiama? Non vedo nulla, è tutto buio, anzi no là in fondo c'è un
chiarore.
-
Felicita, Felicita, vieni da me!
-
Dove sei e chi sei?
Felicita
procedeva lungo una specie di galleria e passo dopo passo il chiarore si
avvicinava e faceva scorgere l'immagine per ora indistinta di una persona.
-
Felicita, vieni con me, dove più non si soffre.
I
contorni della figura prendevano corpo ed era evidente che si trattava di un
uomo.
-
Se lì non si soffre più, vuol dire che sono già morta.
-
Che cos'è la morte, se non la continuazione di se stessi nell'eternità.
-
Ma chi sei?
-
Non mi riconosci?
-
No, non ti vedo ancora bene.
-
Sono il tuo angelo custode.
Felicita
osservò meglio e vide le ali che sovrastavano le spalle, poi corse al viso, in
tutto e per tutto uguale a quello del farmacista.
-
L'appuntamento è domani, non oggi.
-
Che cosa conta il tempo di fronte all'eternità: oggi, ieri, domani non sono
nulla per ritrovare te stessa, per mettere quell'accento sulla a che da troppo
tempo ti manca. La felicità è anche nel ricordo di un sentimento, tu che di
ricordi ne hai avuti così pochi.
Si
accorse che stava correndo, sentì la fatica dei passi ripetuti sempre più
velocemente, avvertì l'affanno della respirazione. Fu allora che si risvegliò tossendo e
chiazzando di sangue la vestaglia da notte.
Prese fiato, ripensò al sogno,
considerò che la sua vita ormai era prossima al
termine, ma che prima aveva avuto la grazia di un desiderio ricambiato, e
poiché ormai voleva troppo bene a un uomo che aveva già sofferto per la perdita
della moglie decise che il giorno dopo avrebbe preso il torpedone delle 9 e
sarebbe tornata a casa.
Così fece e il ricordo di lui
l'accompagnò fino alla fine.