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  Racconti  »  Narrativa generica  »  Solo due parole 16/09/2009
 

Solo due parole

di

Renzo Montagnoli

 

 

Da quando era rimasto vedovo ed era andato ad abitare con la figlia maritata a un insegnante di liceo le giornate gli sembravano vuote. Con la pensione aveva tanto, troppo tempo a disposizione, e allora lui cercava di rendersi utile in casa, ma vuoi perché non era abituato alle faccende domestiche, vuoi perché una donna si sente in tutto padrona dell'abitazione in cui vive, finiva con il combinare solo pasticci. Fu così che si rassegnò a provvedere alla spesa quotidiana, passando ore intere al supermercato, a osservare, a valutare e infine a scegliere i prodotti. Tutto sommato era una vita monotona che non poteva appagarlo e spesso, fra sé e sé, si diceva che doveva trovare qualche cosa, come una passione, per continuare a vivere e a non vegetare.

- , prendi Gualtiero, che va a pescare tutto il giorno.

Lui la guardava, scuotendo la testa e mormorava: - Sarà, ma non mi ci vedo seduto in riva a un fiume con una canna in mano ad aspettare qualche incauto pesciolino. Tu non mi capisci, ma io voglio sentirmi utile.

Il discorso finiva lì e ogni tanto si ripresentava, e se non era Gualtiero che pescava, era Giorgio che collezionava farfalle, oppure Sergio che andava a funghi. Inutile dire che la risposta era più o meno la stessa e in cuor suo la figlia comprendeva questa necessità di essere utile, di avere ancora un po' di importanza nella società, sia pure nell'ambito più ristretto di una famiglia. Forse si trattava di approfittare di un'occasione, di saperla cogliere, di non tirarsi indietro, ma quasi di osare.

E l'occasione venne.

- , sono incinta, diventerai nonno.

Non rispose, ma sorrise, perché oltre a essere nonno avrebbe fatto il nonno.

Già si immaginava portare a spasso il nipotino, magari ai giardini pubblici, oppure raccontargli una bella favola. Una favola? Lui non se le ricordava, o meglio ancora non ne sapeva, ma provvide subito e per tempo, saccheggiando qualche libreria e così Andersen, i fratelli Grimm, Perrault, nomi che prima non gli avrebbero detto nulla, divennero familiari e imparò quasi a memoria le loro fiabe ancor prima che nascesse il bimbo.

E bimbo fu, un bel maschietto che venne alla luce in una luminosa giornata di primavera e a cui fu imposto il nome di Gianfrancesco Maria, lungo, troppo lungo, come il nonno ebbe a dire, ma fu subito zittito. Ai genitori piaceva anche perché dava corpo al cognome troppo corto del padre, uno Zin che nelle presentazioni quasi non si notava.

E va bene per Gianfrancesco Maria, si disse il nonno, ma io lo chiamerò solo Gian, almeno quando non sono presenti i suoi.

La vita cambiò di colpo: niente più giornate noiose, o vuote, ma sempre a dare una mano per accudire il bambino.

- , mi passi il borotalco? , mi passi i pannolini? mi  scaldi la pappetta?

E correva, si dava da fare, e non poche volte si sostituì alla mamma, quando lei non c'era e Gian se la faceva addosso.

Era diventato talmente bravo che la figlia, in previsione di acquistare un nuovo appartamento, si era messa a lavorare, non a tempo pieno, ma tutte le mattine. Sapeva perfettamente che il piccolo era in buone mani ed era anche contenta che suo padre avesse ritrovato il piacere di vivere.

- Adesso Gian andiamo ai giardini, ti metto in carrozzina e ti porto là, così ti diverti tanto.

Non era l'unico frequentatore maschile con i nipotini, ma era senz'altro l'unico che parlava sempre con il suo piccolo.

- Quella che vola, tutta colorata, è una farfalla.

- Fafala.

- No, ripeti con me…far…fal..la.

- Fafala.

- No, no, sa attento: far…fal…la.

- Fafalla.

Un po' per volta imparò a dire il nome esatto, così come altri, anzi si può dire che il suo primo vocabolario fu tutto quanto concerneva i giardini.

Uccelli, uccel…li, erba, erba, fiore, fio…re.

A tre anni già sapeva distinguere, e chiamarle con il giusto nome, una rosa da una violetta, si entusiasmava con le lucertole. Lucetole! gridava forte il nome ed evidenziava quella erre moscia, anzi proprio monca, che il nonno, per quanti sforzi facesse, non riusciva a fargli pronunciare come si doveva. Poco male, si diceva, perché è intelligente e l'unico peccato è che non riuscirà mai a pronunciare esattamente il suo nome. Ma perché proprio chiamarlo Gianfrancesco Maria?

Già lo immaginava da grande, plurilaureato che si presentava cosi: Dottoe Gianfancesco Maia Zin. Non si può aver tutto nella vita, andava ripetendosi, l'importante è che sia bravo, e lo è, e che sia  sano, e lo è.

Poi iniziò ad andare a scuola e chi l'accompagnava? Il nonno. Chi lo andava a riprendere?  Sempre il nonno, che se lo coccolava, e leggeva per primo la pagella, sempre bella.

Dalle elementari alle medie e da queste al primo anno di liceo, e il nonno c'era sempre, più vecchio, ma comunque presente in ogni occasione, un amico più che un parente, il miglior amico di Gian.

Tutto sembrava andare per il meglio, ma una giornata, all'uscita della scuola, il ragazzo non trovò il nonno ad aspettarlo, come faceva sempre. Andò a casa e lo trovò che guardava fuori dalla finestra.

- Nonno, come mai non sei venuto oggi?

Si volse, aveva un'aria stanca e sul suo volto si dipinse un'interrogazione.

- Dove dovevo venire?

- A scuola.

- A scuola…ah,  sì, ricordo ora, ma…

- Ma?

Il vecchio si guardò intorno disperatamente per cercare una scusa, poi gli venne un'idea: - Sono scivolato e mi duole un piede.

- Hai chiamato il medico?

- No, vedrai che andando a sera passa.

La faccenda sembrò finita lì, ma il nonno rimase assorto, a rimuginare quei vuoti di memoria che da qualche tempo lo coglievano e che si andavano infittendo.

Bisognava provvedere, magari con una cura ricostituente, ed era per questo che l'indomani sarebbe andato dal medico, come appunto fece.

La visita fu minuziosa, le domande numerose e alla fine il dottor Sarti, il medico di famiglia, gli disse:

- Vede, il suo è un problema dell'età.

- E' serio? Ci sono cure?

- Andrà peggiorando e al massimo possiamo cercare di rallentarlo.

- Il decorso?

- La memoria calerà sempre più rapidamente fino a quando…

- Fino a quando?

- Fino a quando lei non saprà riconoscere i suoi familiari e addirittura se stesso. Lei ha il morbo di Alzheimer.

Era entrato preoccupato, ma speranzoso, e ne uscì disperato.

Pensò a sua figlia, al suo Gian: non li avrebbe più riconosciuti.

Come fare, come dirglielo? Era inutile angosciarli prima del fatto, ma per giustificare le sue stranezze non c'erano rimedi possibili, a meno di non far credere loro che accusava alcuni temporanei disturbi circolatori che influivano sulla memoria.

Lungo la strada pensò a quando aveva cercato di immaginarsi la laurea di Gian, il suo matrimonio, tutti eventi che si sarebbero verificati magari con lui ancora vivo, ma non in grado di comprenderli.

Prima di rientrare si fermò ai giardini e gli venne spontaneo sussurrare: Far…fal…la. Fafalla. Rivide un nonno con il suo nipotino in carrozzina, il volto del bimbo che si apriva in un sorriso, i suoi occhi increduli, le braccia aperte come a voler accogliere il mondo.

Ecco, doveva ricordare, tutto, prima di dimenticare tutto: le ore liete, un po' della sua infanzia che aveva rivissuto con Gian, un ultimo sguardo prima che la lampada della mente si spegnesse.

E così fece, riuscendo abbastanza bene a nascondere il suo disagio per circa un paio di mesi.

Ma una mattina di primavera, mentre tutti erano al lavoro e Gian a scuola, gli sembrò all'improvviso di vivere in una casa sconosciuta. Come mai c'era un armadio lì? E che cos'era quel quadro? Poi si riprese, ma ebbe la certezza che il momento era arrivato.

Lui, però, voleva spiegare al suo Gian perché sarebbe cambiato, perché non l'avrebbe più riconosciuto, doveva farlo, perché capisse che non era perché non gli voleva più bene, ma perché era malato.

Prese un foglio e una penna, le mani gli tremavano, ma cominciò a scrivere. Non riusciva a pensare, la penna gli sembrava un macigno e con grande fatica iniziò: Caro Gian…

Non andò oltre quelle due parole e crollò sul tavolo.

Sì risvegliò in un letto d'ospedale; intorno a lui c'erano tre persone sconosciute: un uomo preoccupato, una donna che piangeva e un ragazzo con un foglio in mano.

Chissà chi erano, ma quando si chiese chi fosse lui, non arrivò nessuna risposta.    

 

 

    

 

 

  

 

 

 

 

 
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