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  Racconti  »  Storie di paese Seconda Serie  »  Le apparenze 01/08/2007
 

Le apparenze

di Renzo Montagnoli

 

Ci sono uomini che vivono con la massima naturalezza nella loro umiltà, mai un volo, mai un acuto, e altri invece che bramano essere sempre sulla bocca di tutti, protagonisti indiscussi del loro tempo, spugne che prosperano fino a quando possono assorbire la notorietà, ma che, una volta ritornati nell'anonimato da cui erano venuti, si seccano, si distruggono da sé.

Di uno di questi ultimi mi parlò un paio di volte il Guercio, non con toni di giudizio, ma per avvisare un giovane quale ero che il successo a qualsiasi costo alla fine brucia chi lo ha perseguito.

- Non puoi averlo conosciuto, perché quando arrivò in paese dovevi ancora nascere e poi rimase in tutto non più di una decina d'anni, una cometa senza coda.

Così mi raccontava, con termini che al momento non riuscivo a comprendere, ma che poi mi sarebbero stati del tutto chiari.

- Ero già tornato dagli Appennini e la guerra era finita da un paio di giorni quando in paese fece la sua comparsa un uomo sulla quarantina, alto, snello, di bell'aspetto e che si presentò a tutti come l'avvocato Girolamo Lamattina, nativo del potentino, laureato in giurisprudenza con il massimo dei voti e la lode, collaboratore dell'esercito americano in qualità di interprete.

Detto fra noi, destò un'immediata simpatia, grazie al suo modo affabile e anche perché lasciò subito intendere che, grazie alle sue buone conoscenze con gli alti gradi delle truppe occupanti, sarebbe stato possibile trovare quella merce che all'epoca era del tutto irreperibile.

In tal modo cominciarono a circolare sigarette americane, cioccolata, zucchero, beninteso non a gratis, anche se l'avvocato spiegava a tutti che lui non ci guadagnava niente e che le somme richieste erano solo il prezzo della merce.

In breve divenne un personaggio assai conosciuto e lui faceva di tutto per accrescere questa notorietà.

Si iscrisse subito alla Democrazia Cristiana, di cui divenne uno dei capi se pur a livello locale, fece domanda, che fu accolta, di essere iscritto all'ordine forense della provincia, si impegnò attivamente a riorganizzare l'ospedale cittadino, cominciò a rilasciare interviste un giorno sì e un giorno no al quotidiano locale.

Insomma, ormai, non solo in paese, ma anche in città, per qualsiasi problema ci si rivolgeva a Lamattina e lui prometteva il suo fattivo interessamento, si faceva dare somme di denaro, anche consistenti, per ungere le ruote, come lui giustificava la richiesta.

Tuttavia, di che campasse non riusciva a capacitarsi nessuno, visto che come avvocato, benché iscritto all'ordine, di fatto non lavorava e anzi respingeva le richieste anche di ottimi clienti adducendo pressanti impegni di lavoro.

Aggiungo che il suo colpo da maestro, l'apice della sua carriera venne raggiunto quando, dopo un nemmeno tanto pressante corteggiamento, impalmò la contessa Giuditta Mecenero, nobildonna di antico lignaggio, brutta come un rospo, ormai rassegnata a una grigia vita da zitella, ma proprietaria di fondi agricoli per complessivi 500 ettari, un'autentica fortuna.

Il matrimonio fu degno di un re, con la strada del paese che portava alla chiesa letteralmente inghirlandata, con una messa solenne, un pranzo riservato a pochi intimi, come dissero gli sposi, benché corresse poi voce che i commensali fossero all'incirca un centinaio.   

Ormai era fatta: famoso, potente e ora anche ricco, grazie alla moglie.

C'era bisogno di qualche cosa? Serviva una licenza, un documento? Nessun problema, perché bastava rivolgersi a Lamattina, dare in contributo per rendere untuose le ruote e si raggiungeva subito lo scopo.

A parte tutti questi intrallazzi, Lamattina sembrava una persona immune da vizi, anche se in verità uno c'era e gli veniva perdonato per la bruttezza della moglie, invero gelosa e ignara di tutto.

Mi riferisco alla vocazione cornificatoria, a cui nessuna femmina sembrava sfuggire, perché giovani o vecchie, belle o brutte, lui con tutte ci provava, riuscendo non poche volte a raggiungere lo scopo.

Amante fissa era la Ginetta Mastroni, una bella mora di non più di 25 anni, sposata con un disoccupato che l'avvocato assunse subito come giovane di studio, un lavoro per nulla faticoso, visto che non c'era clientela, ma senz'altro utilissimo.

Quando voleva appartarsi con l'amante, andava direttamente alla casa dove lei abitava, mandava il marito allo studio con il preciso incarico di rispondere alle eventuali telefonate della contessa sua consorte dicendo che l'avvocato era impegnatissimo in una causa a porte chiuse.

Poi non si contavano le altre: si andava dalla cameriera della trattoria La ciliegia alla moglie del procuratore della repubblica, in un baillame di alcove di cui nemmeno lui riusciva più a tenere il conto.

Per quanto ovvio e pur con le dovute attenzioni qualcosa trapelò e giunse alle orecchie della contessa che, forte dei suoi 500 ettari, gli diede un ultimatum, a cui l'interessato si assoggettò volentieri, ma per non più di una settimana, diradando comunque in seguito le sue scappatelle e prestando più attenzione alla sicurezza.

Quell'imperativo di smetterla, quel monito della consorte avrebbe dovuto essere considerato come un segno premonitore, ma Lamattina non se ne curò più di tanto, visto che il suo nome era sempre sulla cresta dell'onda.

A volte, però,  basta poco per provocare un crollo, anche solo una piccola crepa che  incide un monolito e che si propaga poi come una ragnatela.

Il 15 marzo 1954 Lamattina si trovava al bar del tribunale, esemplarmente rispettabile di giorno, a uffici aperti, ma bisca clandestina dopo l'orario di chiusura.

Mentre centellinava un caffè, parlando della partitella serale al poker con un altro legale, entrarono il giudice Mistretta e il procuratore della Repubblica Agnello.

Fu quest'ultimo, forse non ignaro di chi aveva contribuito allo sviluppo dei rami che gli ornavano la fronte, a esordire:

- E' incredibile. C'è un processo penale e manca l'avvocato.

Il giudice, di rimando: - E' una causa semplice e poi l'imputato è reo confesso. Chi si offre come avvocato d'ufficio?

Gli altri legali scossero il capo, negandosi.

Rimase solo Lamattina, silenzioso e apparentemente assorto.

Il giudice allora gli rivolse la parola: - Forza, caro Lamattina, benché lei sia un avvocato di chiara fama non abbiamo mai avuto il piacere di pendere dalle sue labbra.

E il procuratore, di rinforzo: - Essere sconfitto da lei sarà per me un motivo d'onore.

Tutti dei gran complimenti che, uniti all'asserzione sulla semplicità della causa, indussero Lamattina a proporsi come difensore d'ufficio.

In aula iniziò così il procedimento e fin dalle prime battute prese una brutta piega, non tanto per l'imputato, ma per il suo difensore.

I richiami al codice penale dei capi d'accusa furono motivo di grande confusione, tanto che nella breve arringa Lamattina parlò del suo assistito come di un povero ladro indotto al furto per lenire la fame, quando invece l'imputazione era per truffa aggravata.

Quando poi la cosa gli fu fatta notare sia dal giudice che dal procuratore, accadde l'incredibile.

Infatti, Lamattina, con la convinzione di poter in tal modo rientrare nelle grazie dei due colleghi, anziché chiedere il minimo della pena per il suo assistito, in un impeto furibondo, con gli occhi che gli uscivano dalle orbite, s'infuriò con l'imputato, concludendo con un perentorio: - E' un colpevole, un criminale e che perciò venga condannato con la massima severità per le sue malefatte.

Lo sconcerto fu unanime, il procuratore e il giudice si scambiarono un'occhiata e quest'ultimo sospese l'udienza, convocando nel suo ufficio Lamattina.

- Ma che le è preso! Prima sbaglia il tipo di reato, poi di fatto si sostituisce al Pubblico Ministero. E' evidente che dovrò informare l'Ordine di questo suo comportamento.

Lamattina non rispose, si alzò, salutò brevemente e uscì.

La sera evitò la partita a poker perché giustamente immaginava che tutti già sapessero e preferì appartarsi con la Ginetta, ma anche questa fu un'udienza sfortunata.

Agitato, pieno di pensieri non riuscì a combinare nulla e allora andò in giro per tutta la notte, facendo ritorno a casa solo all'alba. Qui prese sonno e probabilmente avrebbe dormito a lungo se poco prima di mezzogiorno non fosse stato svegliato in malo modo dal maresciallo dei carabinieri.

Questi gli lesse un mandato, gli consentì di vestirsi e di portarsi appresso qualche cosa, indi lo condusse in manette alla locale casa circondariale.

Già tutti erano al corrente di quello che anche lui sapeva e così non batté ciglio quando quel cornuto del procuratore gli disse senza tanti preamboli che lui non era l'avvocato Lamattina, chiedendogli notizie della persona che aveva sostituito.

Non ebbe risposta. Furono successivamente chiamati dei parenti dell'autentico Lamattina; si apprese così che non ne  avevano più notizie da anni e nel confronto non riconobbero il congiunto, ravvisando solo una vaga somiglianza.

 Dalle impronte digitali infine l'ultima ferale notizia: queste appartenevano a tale Rocco Capece, di Napoli, pluripregiudicato per reati vari, fra i quali, in primis, la truffa.

Fu a lungo interrogato, ma non riuscirono a sapere nulla: l'imputato si chiuse nel più assoluto silenzio, assumendo un comportamento apatico, quasi che la cosa non lo riguardasse.

Irriso da tutti, sbeffeggiato dagli altri carcerati, un giorno si scosse dal torpore e prese l'unica decisione che ormai gli sembrava possibile.

Fu così che l'indomani, all'ora della sveglia, la guardia carceraria lo trovò impiccato alle sbarre della cella.

Il mistero sulla fine dell'autentico avvocato Lamattina non fu mai risolto.

 

         

 

(da “Storie di paese” – seconda serie)

 

 

    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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