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  Editoriali  »  Andare su Venere con un sibilo, di Ferdinando Camon 14/06/2012
 

Andare su Venere con un sibilo

di Ferdinando Camon

 

 

"La Stampa" 5 giugno 2012

 



Mi preparo a vedere domattina il transito di Venere davanti al Sole, con la nipotina di 12 anni. I bambini si pongono le stesse domande che ci poniamo noi, solo che noi non abbiamo il coraggio di pronunciarle. La nipotina esclamerà: ma com'è piccola Venere!, siamo così lontani? Sì, siamo lontanissimi. E non si potrebbe andar più vicini? È il desiderio degli scienziati: avvicinarsi, toccare. La Luna l'abbiamo toccata? Sì, anzi calpestata. E toccare Venere? Toccare Marte? Vedere se ci sono uomini come noi, dargli la mano? Quello sarebbe il vero incontro. Abbiamo inventato la stretta di mano per far sentire all'amico che non siamo armati: la stretta di mano è una reciproca perquisizione. Incontrare gli alieni, lasciarci perquisire e perquisirli, è il presupposto per un'amicizia cosmica. Poter cominciare domattina, con questa Venere che passa tra la Terra e il Sole! Ma come si fa ad andar là? Il barone di Münchhausen credeva che il mezzo più veloce per andare nello spazio fosse la cannonata: tu monti sulla palla di cannone e in un attimo scavalchi l'orizzonte. Per il barone, uno sparo potente ci potrebbe lanciare fino a Venere. Era anche la nostra idea, quand'eravamo piccoli: velocità-distanza-sparo. L'idea della nipotina, e dei bambini della sua età, è un'altra: il rumore che ti porta lontanissimo è il sibilo. La “s” è una consonante detta “sibilante”. Nei fumetti, il sibilo è indicato da una scia di “s” seguìta da un'h: sssh. Il suono sssh ti porta nell'immenso, il suono bùm ti fa fare un salto e poi cadi. Il viaggio nell'immenso non fa rumore: Venere transita in silenzio. In “2001 Odissea nello spazio” non si sente mai un fruscìo, i bambini si domandano se i motori siano accesi o no. Fino al Leopardi, “infinità” ed “immensità” erano sinonimi, più tardi l'uomo ha cominciato a sentire che “immensità” è più vasto di “infinità”. Leopardi ha oscillato tra la prima parola e la seconda. “L'Infinito” è il titolo di un suo canto, familiare a tutta l'umanità, “M'illumino d'immenso” è la risposta di Ungaretti. Nella casa del Leopardi, a Recanati, il manoscritto di quel canto sta esposto in cornice come una fotografia, e il penultimo verso dice: “Così tra questa / immensità s'annega il pensier mio”. Ma nella casa di Pablo Neruda, in Cile, sulla riva del Pacifico, sta esposta una fotocopia dello stesso manoscritto, e la parola “immensità” è cancellata da uno striscio orizzontale e sostituita con “infinità”. Dunque Leopardi s'era pentito di “immensità”. Più tardi si pentì del pentimento e ristabilì “immensità”, che è la parola che noi leggiamo oggi. Il poeta aveva avvertito in maniera definitiva il bisogno di quella sibilante: come se avesse pre-sentito, con secoli d'anticipo, che il suono con cui l'uomo entra nel cosmo non è il rombo, non è il tuono, non è lo sparo, ma è il sibilo. Ci sono autori italiani, l'ultimo fu Raboni, i quali pensano che la poesia più bella di tutta la nostra letteratura sia la prima, “Il cantico di frate Sole” di Francesco d'Assisi: la nostra letteratura s'è aperta con un vertice, mai più raggiunto dopo. La prima parola del “Cantico” è: “Altissimu”, in dialetto umbro. Francesco inventò quel canto all'alba di una notte insonne, tormentata da assalti di topi. Spunta il Sole, i topi scappano, Francesco alza le braccia e comincia: “Altissimu, onnipotente, bon Signore…”. Quella parola con la doppia “s” colloca il destinatario a una distanza vertiginosa, e umilia il parlante schiacciandolo sulla Terra. A quella altezza è il Tutto, a questa bassezza il Nulla. Lassù transita Venere, quaggiù si festeggia una regina. Ma Venere ripasserà identica l'11 dicembre 2117, e chi sarà allora sul trono della regina nessuno lo sa e nessuno se lo chiede.

 

www.ferdinandocamon.it

 

 

 
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