Andare
su Venere con un sibilo
di Ferdinando Camon
"La Stampa" 5 giugno
2012
Mi preparo a vedere domattina il transito di Venere
davanti al Sole, con la nipotina di 12 anni. I bambini
si pongono le stesse domande che ci poniamo noi, solo che noi non abbiamo il coraggio di pronunciarle. La nipotina esclamerà:
ma com'è piccola Venere!, siamo così lontani? Sì,
siamo lontanissimi. E non si potrebbe andar più vicini? È il desiderio degli
scienziati: avvicinarsi, toccare. La Luna l'abbiamo toccata? Sì, anzi
calpestata. E toccare Venere? Toccare Marte? Vedere se ci sono uomini come noi,
dargli la mano? Quello sarebbe il vero incontro. Abbiamo inventato la stretta
di mano per far sentire all'amico che non siamo armati: la stretta di mano è
una reciproca perquisizione. Incontrare gli alieni, lasciarci perquisire e
perquisirli, è il presupposto per un'amicizia cosmica.
Poter cominciare domattina, con questa Venere che passa tra la Terra e il Sole!
Ma come si fa ad andar là? Il barone di Münchhausen credeva che il mezzo più veloce per andare
nello spazio fosse la cannonata: tu monti sulla palla di cannone e in un attimo
scavalchi l'orizzonte. Per il barone, uno sparo potente ci potrebbe lanciare
fino a Venere. Era anche la nostra idea, quand'eravamo piccoli: velocità-distanza-sparo. L'idea
della nipotina, e dei bambini della sua età, è un'altra: il rumore che ti porta
lontanissimo è il sibilo. La “s” è una consonante detta “sibilante”. Nei
fumetti, il sibilo è indicato da una scia di “s” seguìta
da un'h: sssh. Il suono sssh ti porta nell'immenso, il suono bùm
ti fa fare un salto e poi cadi. Il viaggio
nell'immenso non fa rumore: Venere transita in silenzio. In “2001 Odissea nello
spazio” non si sente mai un fruscìo, i bambini si
domandano se i motori siano accesi o no. Fino al Leopardi, “infinità” ed “immensità” erano sinonimi, più tardi l'uomo ha cominciato
a sentire che “immensità” è più vasto di “infinità”. Leopardi ha oscillato tra
la prima parola e la seconda. “L'Infinito” è il titolo di un suo canto,
familiare a tutta l'umanità, “M'illumino d'immenso” è la risposta di Ungaretti.
Nella casa del Leopardi, a Recanati, il manoscritto di quel canto sta esposto
in cornice come una fotografia, e il penultimo verso dice: “Così tra questa /
immensità s'annega il pensier
mio”. Ma nella casa di Pablo Neruda, in Cile, sulla riva del Pacifico, sta
esposta una fotocopia dello stesso manoscritto, e la parola “immensità” è
cancellata da uno striscio orizzontale e sostituita
con “infinità”. Dunque Leopardi s'era pentito di
“immensità”. Più tardi si pentì del pentimento e ristabilì “immensità”, che è
la parola che noi leggiamo oggi. Il poeta aveva avvertito in maniera definitiva
il bisogno di quella sibilante: come se avesse pre-sentito, con secoli
d'anticipo, che il suono con cui l'uomo entra nel
cosmo non è il rombo, non è il tuono, non è lo sparo, ma è il sibilo. Ci sono
autori italiani, l'ultimo fu Raboni, i quali pensano
che la poesia più bella di tutta la nostra letteratura sia la prima, “Il
cantico di frate Sole” di Francesco d'Assisi: la
nostra letteratura s'è aperta con un vertice, mai più raggiunto dopo. La prima
parola del “Cantico” è: “Altissimu”, in dialetto
umbro. Francesco inventò quel canto all'alba di una notte insonne, tormentata
da assalti di topi. Spunta il Sole, i topi scappano, Francesco alza le braccia
e comincia: “Altissimu, onnipotente, bon Signore…”.
Quella parola con la doppia “s” colloca il destinatario a una distanza
vertiginosa, e umilia il parlante schiacciandolo sulla Terra. A quella altezza è il Tutto, a questa bassezza il Nulla. Lassù
transita Venere, quaggiù si festeggia una regina. Ma Venere ripasserà identica
l'11 dicembre 2117, e chi sarà allora sul trono della
regina nessuno lo sa e nessuno se lo chiede.
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