(Per
il quattro novembre)
PRIMA
GUERRA MONDIALE
La
vita del fante - una storia sconosciuta
di
Pietro Zerella
Per ricordare i nostri fanti che, a migliaia persero la vita, in
una guerra sanguinosa per difendere la Patria.
Strappati dalla terra, i contadini partivano per terre lontane, montagne sconosciute, con un fucile antiguato
che non sapevano sparare.
Il clima che si respirava nella prima guerra
mondiale non era l'ideale per affrontare un nemico forte e ricco di storia
militare. Nonostante tutto il fante combatté fino alla fine, i più non
ritornarono al loro paese, molti tornarono mutilati e non furono accolti con
benevolenza ma, quasi con fastidio.
Partivano su tradotte, stivati come animali,
con tanti disaggi, e inoltre assillati dalla propaganda anarchica che
sosteneva: “ La patria è un'illusione e i signori rubano il sudore dei nostri
padri”.
Nel 1915, l'Italia era scesa in guerra
convinta che questa sarebbe durata poco tempo. (E' stata
sempre una convinzione italiana, vedi seconda guerra mondiale). L'esercito non
possedeva armi moderne ed equipaggiamento adatto alle montagne. Anche i fucili
scarseggiavano, per armare alcune divisioni si ricorse ai fucili di quaranta
anni prima. I soldati non avevano nemmeno gli elmetti. Ogni plotone ne aveva
solo due.
(Nel secondo conflitto mondiale, fu la
medesima cosa, mancanza di armi efficienti e di equipaggiamento necessario).
Il
primo anno di guerra fu duro per i nostri soldati, tutti provenienti dalle
campagne e da famiglie di proletari.
Le direttive e la tattica del Generale Cadorna
erano quelle dell'attacco frontale alle trincee nemiche. In poche settimane
morirono migliaia di soldati sotto i colpi delle mitragliatrici degli
austriaci. ( i tanti morti davanti alle mitragliatrice
facevano tenerezza agli stessi nemici).
I
nostri fanti non erano stati ancora forniti di cesoie per tagliare i fili
spinati delle trincee avversarie. Dopo ogni attacco si vedevano penzolare sui
fili di ferro delle trincee nemiche i corpi dei soldati mandati allo sbaraglio
in file serrate. Ogni attacco era una strage.
Alla
vigilia della terza battaglia dell'Isonzo incominciarono a serpeggiare fra i
soldati segnali di malumore e si ebbero anche casi di insubordinazione
e diserzione. Cadorna prese subito drastici
provvedimenti ed emanò una circolare molto dura: “ Nessuno deve ignorare che in
faccia al nemico una sola via è aperta a tutti: la via dell'onore, quella che
porta alla vittoria o alla morte sulle linee avversarie. Ognuno deve sapere che
chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto,
prima che s'infami, dalla giustizia sommaria del
piombo delle linee retrostanti o da quello dei carabinieri incaricati di
vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato prima
da quello dell'ufficiale. Anche per chi, vigliaccamente
arrendendosi, riuscisse a cadere vivo nelle mani del nemico, seguirà immediato
il processo in contumacia e la pena di morte avrà esecuzione a guerra finita”.
La circolare parlava chiaro e i carabinieri
facevano sul serio. Questi erano i metodi che venivano
applicati nei confronti di chi non li osservava.
Il fante anche fra mille difficoltà ambientali
e materiale, in poco tempo si adattò alla situazione e imparò presto a scavare
trincee e buche e al modo di ripararsi dalle pallottole dei cecchini e dal
freddo. In molti di essi prevaleva la pazienza e la
rassegnazione del contadino.
Le idee socialiste e anarchiche contro la
guerra attecchirono anche in una parte della truppa. Molti soldati furono
passati per le armi o nei casi meno gravi arrestati o trasferiti.
Nelle retrovie, in tutte le piazze e le vie
italiane si respirava la delusione dell'andamento della guerra. La popolazione
era quasi indifferente. La guerra era lontana. Quando il soldato, che aveva
sofferto al fronte: freddo, fame, pidocchi e vissuto nel pericolo, tornava al
paese per una breve licenza, dopo la gioia e l'accoglienza calorosa della
famiglia trovava fra i suoi concittadini indifferenza
e anzi constatava che a questi non mancava nulla, continuavano la loro vita di
tutti i giorni. Nessuno accenno alla guerra e al
sangue che si versava. Nessuno parlava di Patria in pericolo.
Dopo il crollo di Caporetto, il disaggio, il
malcontento e la paura fra la truppa fu enorme. Ci
vollero i carabinieri con le armi puntate a fermare i tanti disertori.
Gettarono il fucile circa 300.000 soldati.
Gli anarchici trovarono in questo stato
d'animo lo spazio dove far penetrare la loro
propaganda. Il germe del “disfattismo” attecchì su molta gente.
Poi un nuovo comandante, Diaz, la riscossa del
Piave e la vittoria finale, ma a quale prezzo!
Terminata la guerra, dopo la delusione del
trattato di pace, il 20 giugno del 1920 ci fu anche la caduta del governo
Nitti. Ritornò al governo Giolitti e il 30 agosto ci fu un grande sciopero con
l'occupazione delle fabbriche di Torino, Milano e Genova. In tutte le Marche e
in particolare ad Ancona, si scatenò una “settimana rossa” di scioperi e
proteste di piazza guidata dall'anarchico Malatesta, uno dei capi carismatici
degli anarchici italiani. Nel porto di Ancona un battaglione diretto in Albania
si ammutinò. Già altri casi di diserzione si erano verificati, qualche anno
prima, fra i soldati che partivano per l'Albania.