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  Editoriali  »  La vita del fante – una storia sconosciuta, di Pietro Zerella 04/11/2013
 

(Per il quattro novembre)

PRIMA GUERRA MONDIALE

La vita del fante - una storia sconosciuta

di Pietro Zerella

 

Per ricordare i nostri fanti che, a migliaia persero la vita, in una guerra sanguinosa per difendere la Patria.

Strappati dalla terra, i contadini partivano per terre lontane, montagne sconosciute, con un fucile antiguato che non sapevano sparare.

Il clima che si respirava nella prima guerra mondiale non era l'ideale per affrontare un nemico forte e ricco di storia militare. Nonostante tutto il fante combatté fino alla fine, i più non ritornarono al loro paese, molti tornarono mutilati e non furono accolti con benevolenza ma, quasi con fastidio.

Partivano su tradotte, stivati come animali, con tanti disaggi, e inoltre assillati dalla propaganda anarchica che sosteneva: “ La patria è un'illusione e i signori rubano il sudore dei nostri padri”.

Nel 1915, l'Italia era scesa in guerra convinta che questa sarebbe durata poco tempo. (E' stata sempre una convinzione italiana, vedi seconda guerra mondiale). L'esercito non possedeva armi moderne ed equipaggiamento adatto alle montagne. Anche i fucili scarseggiavano, per armare alcune divisioni si ricorse ai fucili di quaranta anni prima. I soldati non avevano nemmeno gli elmetti. Ogni plotone ne aveva solo due.

(Nel secondo conflitto mondiale, fu la medesima cosa, mancanza di armi efficienti e di equipaggiamento necessario).

 Il primo anno di guerra fu duro per i nostri soldati, tutti provenienti dalle campagne e da famiglie di proletari.

Le direttive e la tattica del Generale Cadorna erano quelle dell'attacco frontale alle trincee nemiche. In poche settimane morirono migliaia di soldati sotto i colpi delle mitragliatrici degli austriaci. ( i tanti morti davanti alle mitragliatrice facevano tenerezza agli stessi nemici).

 I nostri fanti non erano stati ancora forniti di cesoie per tagliare i fili spinati delle trincee avversarie. Dopo ogni attacco si vedevano penzolare sui fili di ferro delle trincee nemiche i corpi dei soldati mandati allo sbaraglio in file serrate. Ogni attacco era una strage.

  Alla vigilia della terza battaglia dell'Isonzo incominciarono a serpeggiare fra i soldati segnali di malumore e si ebbero anche casi di insubordinazione e diserzione. Cadorna prese subito drastici provvedimenti ed emanò una circolare molto dura: “ Nessuno deve ignorare che in faccia al nemico una sola via è aperta a tutti: la via dell'onore, quella che porta alla vittoria o alla morte sulle linee avversarie. Ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto, prima che s'infami, dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti o da quello dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato prima da quello dell'ufficiale. Anche per chi, vigliaccamente arrendendosi, riuscisse a cadere vivo nelle mani del nemico, seguirà immediato il processo in contumacia e la pena di morte avrà esecuzione a guerra finita”.

La circolare parlava chiaro e i carabinieri facevano sul serio. Questi erano i metodi che venivano applicati nei confronti di chi non li osservava.

Il fante anche fra mille difficoltà ambientali e materiale, in poco tempo si adattò alla situazione e imparò presto a scavare trincee e buche e al modo di ripararsi dalle pallottole dei cecchini e dal freddo. In molti di essi prevaleva la pazienza e la rassegnazione del contadino.

Le idee socialiste e anarchiche contro la guerra attecchirono anche in una parte della truppa. Molti soldati furono passati per le armi o nei casi meno gravi arrestati o trasferiti.

Nelle retrovie, in tutte le piazze e le vie italiane si respirava la delusione dell'andamento della guerra. La popolazione era quasi indifferente. La guerra era lontana. Quando il soldato, che aveva sofferto al fronte: freddo, fame, pidocchi e vissuto nel pericolo, tornava al paese per una breve licenza, dopo la gioia e l'accoglienza calorosa della famiglia trovava fra i suoi concittadini indifferenza e anzi constatava che a questi non mancava nulla, continuavano la loro vita di tutti i giorni. Nessuno accenno alla guerra e al sangue che si versava. Nessuno parlava di Patria in pericolo.

Dopo il crollo di Caporetto, il disaggio, il malcontento e la paura fra la truppa fu enorme. Ci vollero i carabinieri con le armi puntate a fermare i tanti disertori. Gettarono il fucile circa 300.000 soldati.

Gli anarchici trovarono in questo stato d'animo lo spazio dove far penetrare la loro propaganda. Il germe del “disfattismo” attecchì su molta gente.

Poi un nuovo comandante, Diaz, la riscossa del Piave e la vittoria finale, ma a quale prezzo!

Terminata la guerra, dopo la delusione del trattato di pace, il 20 giugno del 1920 ci fu anche la caduta del governo Nitti. Ritornò al governo Giolitti e il 30 agosto ci fu un grande sciopero con l'occupazione delle fabbriche di Torino, Milano e Genova. In tutte le Marche e in particolare ad Ancona, si scatenò una “settimana rossa” di scioperi e proteste di piazza guidata dall'anarchico Malatesta, uno dei capi carismatici degli anarchici italiani. Nel porto di Ancona un battaglione diretto in Albania si ammutinò. Già altri casi di diserzione si erano verificati, qualche anno prima, fra i soldati che partivano per l'Albania.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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