Perché
è impossibile fermare i migranti
di
Ferdinando Camon
Quotidiani
locali del Gruppo "Espresso-Repubblica" 2 luglio 2014
La nuova strage di migranti in mare ci spaventa perché rivela qualcosa che non sospettavamo:
la crudeltà. Una trentina sono morti per asfissia, chiusi in una botola, sul
cui coperchio stavano seduti i compagni di viaggio. I prigionieri urlavano per
farsi aprire uno spiraglio, i compagni pressavano più forte per impedirgli di
venir fuori. I giornali parlano di migranti neri e migranti neri-neri. I neri
tenevano chiusi e sprangati i neri-neri. Razzismo tra uomini di colore? Più
probabile, classismo: i neri-neri sono più poveri, pagavano meno, avevano
diritto a una sistemazione più misera, giù nella botola, tra gli scarichi del
motore. All'insegna del “mors tua vita mea”. Loro, infatti, sono morti, gli altri si sono salvati.
Prima o poi alcuni si aggireranno per le nostre città. Come quello che ieri mi
ha fermato per strada, e con una mano s'è toccato più volte la bocca. Non sanno
la nostra lingua, non possono parlarci. “Ma non importa – insegnava un grande
poeta tedesco, Brecht -, se vuoi dire che hai fame, toccati la bocca o la
pancia, e tutti capiranno”. Vedendoli, una parte di noi si chiede, e chiede al
governo e all'Europa: “Ma non potrebbero restare a casa?”.
A fare che? La strage ci dice che non hanno scelta. A casa non hanno né da
mangiare né da lavorare. Vivono in paesi miserabili e dispotici, devastati
dalle guerre e dalle malattie, l'unica prospettiva che hanno è attendere la
“morte lunga” senza far niente e senza mangiare. In mare corrono il rischio
della “morte immediata”, lo sanno, ma per quanto possa sembrare assurdo,
mettendosi in viaggio scelgono il male minore: meglio rischiare di morire in
pochi minuti che morire un po' ogni giorno per tutta la vita. Come diceva un
motto sessantottesco: meglio una fine orribile che un orrore senza fine. Questa
carretta è arrivata con trenta cadaveri dentro la botola. In passato arrivavano
carrette con cadaveri sulla tolda, visibili. I carabinieri tiravano
l'imbarcazione a riva, i vivi balzavano sulla spiaggia e alcuni (li abbiamo
visti, non possiamo dimenticarli) alzavano due dita in segno di vittoria. Pur
di arrivare qui tra noi, sono disposti a passare “attraverso la morte”.
Leviamoci dalla testa l'idea che un accordo, una legge, un divieto li possa
fermare. Prendiamone atto: niente li può fermare. Nei primi sei mesi dell'anno
scorso sono arrivati qui in 8mila, nei primi sei mesi di quest'anno sono già
62mila.
Vengono da regimi falliti. La nostra concezione di Stato, di Società, di
Comunità, è otto-novecentesca: se un sistema
politico-sociale fallisce (come per esempio il Comunismo nell'Europa dell'Est e
in Albania), e i popoli che vivevano in quel sistema cadono nella miseria, noi
pensiamo di non entrarci, perché viviamo in un altro sistema. Lentamente loro
trasmigreranno dal vecchio sistema fallito al nostro sistema vincente. Nel
frattempo, chi muore muore. È la Storia. Questo
pensava l'uomo otto-novecentesco. Il Duemila ha fatto
tabula rasa di questa concezione della storia divisa per Stati, introducendo
l'idea di una storia dell'umanità. Gli organismi internazionali lavorano per
questo. Le scienze, le arti. Anche le religioni. Anche il Cattolicesimo,
specialmente con Papa Francesco. In tutti i campi si fa strada una cultura per
cui quel che è mio è degli altri se serve a farli vivere. La cosa più privata
che abbiamo è il corpo: eppure s'è fatta strada la concezione per cui, se
muoio, i miei organi sono automaticamente (senza che io lo dichiari) di chi ne
ha bisogno, il che significa che il mio corpo non è mio, è dell'umanità. Un
organismo che sembrava nato apposta per cancellare gli egoismi statalisti e
accelerare la spinta umanitaria è l'Europa. Eppure, nell'accoglienza dei
migranti l'Italia fa più di quel che può, mentre l'Europa non fa niente.
L'Italia non dovrebbe supplicare l'Europa. Dovrebbe muoverle un'accusa
d'infrazione.
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