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  Editoriali  »  Settanta e sentirli tutti, di Renzo Montagnoli 18/09/2017
 

Settanta e sentirli tutti

di Renzo Montagnoli




Quest’anno, l’8 maggio, ho compiuto settant’anni. Invecchio, anche se qualcuno giustamente dirà che si invecchia ogni ora, ogni minuto, ogni istante dopo la nascita. Però, fino a una certa età, non si è consapevoli del fenomeno, le forze rimangono uguali, lo spirito dell’esistenza non muta, insomma sembra che il tempo si sia fermato. Poi accade, d’improvviso, che una mattina ci si risvegli più stanchi del solito, che non si sia riusciti eliminare la stanchezza del giorno prima; agli inizi non ci si fa caso, si incolpa il tempo, un malessere magari leggero, ma la ripetizione del fenomeno induce a pensare che qualcosa sia cambiato nel proprio corpo e allora, di colpo e anche con angoscia, ci si accorge che si sta invecchiando. Questa sensazione l’ho sperimentata una ventina di anni fa, ma abbastanza alla svelta mi ero abituato, avevo compreso che era del tutto naturale e che in fondo non era poi un gran peso. Questo fino al corrente mese di maggio, allorché, nella ricorrenza del mio compleanno, come al solito mi sono voltato all’indietro, per un’inconscia analisi del mio passato. Gli acciacchi accentuati, qualcuno nuovo, la consapevolezza di una inarrestabile decadenza mi ha portato a concludere che questi settant’anni mi pesano, e non poco. Ciò soprattutto se raffronto passato e presente, se provo a comparare giovanili ideali e situazione attuale. Nulla, nulla di ciò che speravo si è realizzato e ovunque volga gli occhi vedo guerre, ingiustizie, lacrime. E’ una società che sembra più malata di quella che esisteva alla mia nascita, una società che non cerca nemmeno di conoscere il reale significato del termine civiltà. E di questa situazione la colpa è anche mia, mia per non essere riuscito a imporre l’idea di un mondo più equo e anche più ricco solo se i suoi cittadini si ricordassero, prima di essere italiani, russi, americani ecc., di essere uomini, creature fatalmente destinate a un ciclo di vita breve, pieni di paure, di pregiudizi, poveri di speranze. Il fatto che il nostro passaggio su questa terra non sia altro che un impervio cammino dall’alba al tramonto dovrebbe farci balenare il sospetto che il comune destino dovrebbe vedere rapporti diversi, che non la prevaricazione, ma il reciproco aiuto dovrebbero ispirare la nostra esistenza. E invece no, c’è chi è un predone e tutto arraffa a danno di una moltitudine di umili figure, di cui non conosceremo mai il volto, né il nome, vittime tutte sacrificate sull’altare del potere e della ricchezza da altri uomini, voraci pescicani predatori di banchi di povere, ma più umane sardine. Ecco, più di tutto mi rattrista pensare che lascerò un mondo che non sarà migliore di quello in cui sono nato, anzi non nascondo il timore che sia peggiore, perché almeno nel primo dopo guerra c’era in tutti la voglia di ricominciare, di ricostruire, una speranza che aiutava a supplire alle non poche difficoltà economiche, quella speranza che ogni, ahimè, manca totalmente. Per me è un dolore vedere i giovani che non trovano un lavoro, che non possono permettersi di metter su famiglia, che vivono alla giornata sulle spalle dei genitori. E’ questo il mondo che si intende perpetuare? Non ci sono più ideali, aumenta la ricchezza in mano a pochi e ovviamente in cambio aumentano i poveri. Come se non bastasse, l’uomo sta distruggendo il pianeta, depauperandolo di tutte le sue ricchezze, avvelenando l’acqua, il suolo e l’aria, il tutto in nome del profitto, del pil, di questa magica sigla che nasconde un’autentica tragedia: la progressiva disumanizzazione. Vorrei un giorno andarmene vedendo un ravvedimento, scorgendo nel buio una scintilla di speranza; mi sembra un desiderio più che logico, ma la logica sembra una parola sconosciuta in un’umanità che stancamente si lascia andare.



 
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