Caporetto
24 ottobre 1917
di
Renzo Montagnoli
Fra
pochi giorni ricorre il centenario della battaglia di Caporetto,
conosciuta anche come dodicesima battaglia dell’Isonzo. Il nome
di questa località slovena, un piccolo paese di pochi abitanti
sito nell’alta valle dell’Isonzo è diventato
famoso perché, come tutti sanno anche dagli studi scolastici,
quello scontro iniziato proprio il 24 ottobre rappresenta la più
grave disfatta nella storia del nostro esercito, che di vittorie ne
ha conseguite sempre pochissime. Si trattò di un vero e
proprio disastro perché si corse il rischio che le truppe
austro-tedesche arrivassero in Lombardia, a Milano, nel cuore
industriale dell’ancora giovane Regno d’Italia. Furono
fermate, invece, sulle sponde del Piave e sulle pendici del monte
Grappa, grazie all’eroismo dei nostri soldati, tacciati,
tuttavia, nel corso della ritirata, di vigliaccheria da un comandante
in capo che di certo non meritavano.
Luigi
Cadorna, il comandante supremo, subentrò al generale Pollio
nel 1914, in seguito alla morte, in circostanze non del tutto chiare,
di questi; al riguardo basti pensare che Pollio era filo tedesco,
mentre Cadorna era decisamente avverso agli austriaci. Ma chi era
veramente Luigi Cadorna? Quale era stata la sua carriera militare?
Figlio
del generale conte Raffaele Cadorna, veterano della battaglia di San
Martino della seconda guerra di indipendenza, nonché
comandante delle truppe che nel 1870 presero Roma, il giovane Luigi
fu avviato alla carriera militare, dimostrando nel suo curriculum una
caratteristica che sarà messa in pratica nel corso della Prima
guerra mondiale: l’offensiva a oltranza. Tuttavia già si
delineavano alcuni aspetti negativi, causati dalla sua rigida
interpretazione della disciplina militare, con il facile ricorso a
dure sanzioni che provocheranno anche non poche note di biasimo dei
suoi superiori. Comunque riuscì a salire di grado, sia pure
con lentezza, diventando infine comandante di Corpo d’Armata e,
appunto nel 1914, assumendo l’incarico di capo di stato
maggiore. All’entrata in guerra dell’Italia contro
l’Austria nell’anno successivo, dopo un inspiegabile
ritardo iniziale nelle operazioni, ritardo che se non vi fosse stato
avrebbe probabilmente comportato un decorso più breve e
sicuramente favorevole del conflitto, impegnò il nemico con
una serie di sanguinose battaglie sull’Isonzo in continui
attacchi frontali e dispendio di risorse e vite, senza che tuttavia
si uscisse da una situazione di stallo, come del resto accadeva anche
sui fronti occidentali (anglo francesi contro tedeschi) e orientali
(russi contro tedeschi e austriaci). Di questa tattica non gli si può
quindi dare colpa, perché era la stessa per tutti i
belligeranti, un po’ perché si era studiato Napoleone
Bonaparte alle accademie militari e un po’ perché le
nuove armi, particolarmente efficaci, non avevano ancora influenzato
la ristretta mentalità dei comandanti. Quello che
differenziava, però, Cadorna da questi ultimi era il suo
eccessivo rigore, la convinzione che il soldato non fosse altro che
un numero, l’incapacità di coinvolgere attivamente i
subordinati alla preparazione dei piani di battaglia, la mania con la
quale sostituire di colpo, anche durante un combattimento, chiunque
dissentisse da lui. Nell’osservare oggi il suo comportamento
viene da pensare che credesse di essere un Dio e in effetti reclamò
più volte, senza ottenerla, la carica di generalissimo. Dunque
miope nella sua strategia e monocorde nella tattica, feroce, al punto
dall’essere soprannominato il macellaio, si può ben
comprendere che, se teniamo conto delle orribili condizioni in cui
viveva la truppa (cibo inadeguato, licenze pressoché
inesistenti, avvicendamenti in prima linea scarsi, tanto che non
pochi restavano nel fango delle trincee e nel lezzo dei cadaveri
insepolti anche per più settimane, insomma un vero e proprio
inferno) qualche sbandamento che si è avuto a Caporetto appare
più che giustificato; in ogni caso non si tratta di una
pavidità sediziosa, come quella che Cadorna attribuì
ai suoi soldati. Come sempre, vigeva il principio che la vittoria è
merito dei comandanti e la sconfitta è imputabile unicamente
alle truppe. Le responsabilità dei comandanti a Caporetto ci
sono e sono macroscopiche.
Innanzi
tutto c’è da precisare che l’offensiva
austro-tedesca non era ignota, che si sapeva anche l’ora in cui
all’incirca sarebbe iniziata e il tratto del fronte in cui
sarebbe stata più massiccia, tanto è vero che Cadorna,
per tempo, diede l’ordine che i reparti passassero da una
sistemazione offensiva a un’altra difensiva. Per dei soldati
che da più di due anni andavano sempre all’attacco la
cosa non fu per niente semplice e anche i comandanti delle armate ci
misero del loro per complicare le cose, come Capello che assunse un
ordinamento ibrido, cioè difensivo – offensivo, vale a
dire pronti a un sicuro contrattacco. Se Cadorna avesse avuto un po’
più di acume strategico, ma niente di eccezionale, cioè
alla portata di un normale militare che non creda di essere una
divinità, avrebbe dovuto invece sfruttare l’occasione,
mantenendo l’atteggiamento offensivo, aggredendo di sorpresa
l’avversario nell’imminenza dell’ora prevista per
il suo attacco. In questo caso infatti sarebbero stati totalmente
scompaginati i piani austro tedeschi, si sarebbero colte le truppe
scoperte, cioè già in prima linea e per giunta
ammassate, insomma si sarebbe potuta ottenere una vittoria, se non
definitiva, comunque di grande portata.
Sappiamo
invece che tutti tirarono i remi in barca e in particolare il
generale Badoglio, comandante dell’artiglieria, che si arrogò
il diritto di dare l’ordine di far fuoco nel corso dell’attacco
nemico, fuoco che non ci fu perché il breve bombardamento
austriaco di preparazione sconvolse le nostre comunicazioni. A ciò
aggiungiamo che allora Badoglio decise di spostarsi nel corso del
primo giorno in diversi punti del territorio con allacciamenti
telefonici provvisori, spostamento dovuti al fatto che sembrava che i
cannoni nemici ce l’avessero in modo particolare con lui e solo
a sera gli venne il dubbio che le nostre comunicazioni potessero
essere intercettate.
Così
la sconfitta iniziale di trasformò in un disastro, con una
ritirata dalle posizioni sull’Isonzo, prima al Tagliamento e
poi al Piave; per essere onesti va detto che Cadorna riuscì a
gestire questa fuga in modo abbastanza valido, tanto che una larga
parte delle truppe riparò oltre il Piave, dove, sotto il nuovo
comandante in capo Armando Diaz, più sensibile ai rapporti
umani, i nostri soldati si opposero eroicamente dapprima alle due
offensive austriache (l’ultima nel giugno del 1918) e poi
andarono decisamente all’attacco e ottennero la vittoria
definitiva.
C’è
da aggiungere che la rimozione di Cadorna fu voluta dagli alleati
come contropartita ai massicci aiuti in uomini e armi; nonostante la
contrarietà del re vi fu la sostituzione con Armando Diaz, che
non piaceva al monarca, in quanto napoletano e non piemontese.
Vittorio Emanuele III si fidava solo dei piemontesi e infatti tanto
fece che un altro della sua regione, pure con notevoli responsabilità
nella disfatta di Caporetto, diventasse sottocapo di stato maggiore:
iniziava così il sodalizio con il generale Badoglio, un
militare in cui, per quanto si cerchino, non si riescono a trovare
pregi.
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