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  Editoriali  »  Humanae vitae 30/03/2007
 

HUMANAE VITAE

 

            

Penso che sarà capitato anche a voi: ci sono mattine in cui ci si sveglia con domande che frullano nel cervello e non sempre riguardano argomenti piacevoli. Una volta diamo la colpa a quello che si è mangiato a cena, un'altra alle notizie del telegiornale, ma sta di fatto che sono il frutto di un lavoro della mente proprio delle ore notturne.

Ieri, giornata di pioggia e anche ventosa, nel buio della camera da letto, mi sono chiesto se sono contento di come sta andando il mondo.

La risposta, scontata, è stata un laconico no e senza esitazioni.

Inevitabile, poi, chiedermi il perché e cercare di capire le origini di quello che non va.

La conclusione, ve l'anticipo, è che non va proprio bene niente.

Ad esempio, viene da sorridere amaramente quando il Vaticano si sforza in modo così perentorio di opporsi al disegno di legge sulle unioni civili, come se da queste dipendesse il bene dell'umanità. Si dimentica, la Chiesa, o non vuole parlarne, delle guerre che divampano un po' ovunque, del fatto che c'è chi mangia troppo e c'è chi muore di fame, della folle corsa a consumare più del necessario, con inevitabili ripercussioni sull'equilibrio climatico e sulla salute degli esseri umani.

In confronto le unioni civili sono un'inezia, anzi, l'opporsi ad esse è un mero pretesto per eludere cose ben più importanti, che mettono in pericolo l'esistenza stessa della vita su questo pianeta.

 

Tutto ha inizio in Inghilterra, a metà del 1700, con la cosiddetta rivoluzione industriale. E' probabile che i suoi fautori non immaginassero lo sfracello che  tale processo avrebbe creato. Ma è proprio in quel Paese e in quell'epoca che è cominciato un autentico dramma, di cui noi siamo inconsapevoli attori.

All'inizio, con la produzione industriale, grazie alle tecnologie, la disponibilità di beni aumenta in modo sensibile, e a prezzi più ridotti, così che i bisogni possano essere soddisfatti totalmente. Mi direte che questo è un bene e lo è per i compratori. Ma per i venditori nasconde un'insidia: l'eccesso di produzione deprime l'attività. Allora inizia una seconda fase, la più pericolosa: dato che è inutile continuare a produrre un surplus di beni, se ne inventano di nuovi e si fa anche in modo che servano a soddisfare bisogni indotti allo scopo.

Questa creazione di beni comporta anche l'acquisizione di nuovi mercati, drogando di fatto il commercio mondiale. Si avvia così la globalizzazione, spacciata per la panacea di ogni male e come mezzo di riscatto dei paesi poveri.

Ma non è così, perché, a differenza del colonialismo che depredava i paesi conquistati, ora si assoggetta il mercato di quei paesi a una nuova logica, imponendo modi di vivere, prodotti e idee che sono proprie delle “opulente” civiltà  occidentali.

Questo, in un'economia arcaica e di sussistenza, provoca dei contraccolpi incredibili. Infatti, a fronte di un incremento delle importazioni, rappresentate prevalentemente da beni voluttuari, si registrano esportazioni dei loro prodotti alimentari (gli unici, a parte le materie prime, tipici di queste economie), in quanto attirati dai prezzi più remunerativi dei mercati internazionali. In tal modo, oltre ad aumentare il debito nazionale, stante l'evidente disparità di prezzi fra le merci importate ed esportate, si prosciugano le attività agricole e artigianali, portando la fame, che, in Africa, ad esempio, non esisteva fino a una sessantina di anni fa, tranne che in sporadici periodi di carestia. Inoltre, l'imposizione di nuove logiche di vita, sradica abitudini e civiltà millenarie, lasciando gente spaesata che, qualora abbia una reazione, la riversa nell'unico bene rimasto proprio: la religione. E quando si rifugia nel suo credo lo fa totalmente, affidando la ribellione al trascendentale. Così, al fondamentalismo economico, si contrappone quello religioso, dando luogo a sanguinosi conflitti che da un lato vedono impegnati eserciti moderni e dall'altro guerriglieri e terroristi.

E non è un caso se i grandi flussi migratori dall'Africa all'Europa sono cominciati una ventina di anni fa: l'applicazione integrale della globalizzazione risale infatti più o meno a quel periodo.

E così abbiamo cominciato ad assistere a un fiume in piena di poveri diavoli che fuggono in parte la fame e che in parte inseguono il desiderio di una nuova ricchezza, e che sono sempre più frequentemente  vittime di gente senza scrupoli che di fatto li schiavizza, perché uno dei malanni del grande occidente è il razzismo mascherato da paternalismo. Gli immigrati sono mucche da mungere, da far lavorare dove non vogliono più operare gli evoluti cittadini del benessere, pagandoli meno e magari nemmeno assicurandoli. Ricordate a tal riguardo l'inchiesta dell'Espresso sui raccoglitori di pomodori? Pensate sia cambiato qualche cosa? No, anzi,  forse c'è stato un peggioramento.

Qualcuno però potrebbe dire: è una chiacchierata, questa, del fico secco, perché in fondo così noi occidentali stiamo bene. Ma sarà vero?  Perché, allora, questo modo di concepire la società e l'economia non fa altro che creare degli infelici?  I dati sono evidenti: le statistiche rivelano un vertiginoso aumento del consumo di alcolici e di droghe.

Se la gente fosse soddisfatta,  che bisogno avrebbe di stordirsi?

Inoltre, ora ci si accorge che l'eccessivo consumo di risorse e l'inquinamento stanno rendendo invivibile il pianeta. Potrebbe essere, questa, la buona occasione per una riflessione generale. E invece non lo sarà. Si prenderanno contromisure, ma sempre nell'ottica del profitto; forse si rabbercerà per un po' la frattura con la natura, ma quella sorta di smania che è l'industrialismo farà ripresentare il problema da lì a poco.

In fondo la soluzione non sarebbe così difficile: basterebbe rinunciare al superfluo (e ce n'è tanto, troppo), armonizzare l'aspetto economico, facendo ritrovare all'agricoltura il suo ruolo primario, e questa bolla di illusorio benessere si sgonfierebbe senza lasciare effetti negativi.

E allora, se non ci pensano i governi al benessere dell'umanità, perché la Chiesa non si fa portavoce di questa esigenza inderogabile?

Quindi la invito ad abbandonare le lotte farneticanti nei confronti di un disegno di legge che non fa che prendere atto di una realtà che esiste da tempo e di far sentire, invece, la sua voce in difesa dell'umanità.

 

 

Ringrazio Massimo Fini perché, in assenza del suo appassionato studio socio-economico, non mi sarebbe stata possibile questa riflessione. 

 

Renzo Montagnoli

 
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