C'è immondizia e immondizia
di Renzo Montagnoli
In questi giorni è di moda
l'immondizia della Campania, tonnellate e tonnellate di rifiuti non smaltite e
quindi abbandonate sulle strade, davanti alle case, davanti alle scuole, tranne
che di fronte alle abitazioni dei potenti.
Verrebbe da dire che ciò costituisce
uno scandalo, cioè che chi conta non ha puzze sotto il naso, mentre la plebe
ogni giorno si deve ammorbare di miasmi pestilenziali.
Rientra, invece, tutto nella logica di un sistema
socio-economico mondiale che a definirlo criminale è una pura cortesia.
Certo, a Napoli e dintorni le
conseguenze sono più evidenti per tutta una serie di motivi di cui non parlerò,
perché non costituiscono il tema di questa riflessione, che si propone invece
di non scendere nel particolare, ma di analizzare un perverso meccanismo nel
generale.
Tutto ha origine a fine XVIII secolo
quando si crea una nuova classe sociale, gli industriali. Questi comprendono
che si possono far soldi, e non pochi, producendo beni in breve tempo, atti a
soddisfare bisogni latenti e sconosciuti agli interessati, oppure creandone di
nuovi.
Così, nel giro di pochi lustri,
l'industria finisce con il prevalere sull'agricoltura, grazie a politiche
esasperate di sfruttamento del lavoro. Infatti, poiché in natura nulla si crea
e nulla distrugge, affinché il prodotto finito sia altamente remunerativo è
necessario risparmiare sull'unico mezzo produttivo suscettibile di ricatto,
vale a dire il lavoro.
I ritmi di lavoro diventano ossessivi,
14, anche 15 ore al giorno, in ambienti malsani e insicuri, e la paga è
semplicemente da fame, tale da consentire a malapena il reintegro delle energie
spese. Non c'è bisogno di scomodare Marx per
verificare quello che ho scritto, ma è sufficiente leggersi qualche romanzo di
Dickens.
A questi neoricchi serve una
giustificazione del loro ruolo e così economisti come Adamo Smith coniano il
capitalismo, cioè quella componente della produzione che ha diritto di essere
remunerata per il capitale investito e il rischio d'impresa.
In antagonismo Carlo Marx rivendica invece come determinante l'apporto della
forza lavoro, la quale sarebbe l'unica titolata a trarre i vantaggi della
produzione.
Non è che ci sia poi molta differenza
fra le due teorie, perché si limitano solo a indicare e a giustificare due
diversi componenti prioritari dell'attività.
Entrambe sbagliano e di molto, perché
non comprendono il meccanismo perverso di un'economia basata prevalentemente
sulla produzione industriale.
I bisogni primari dell'uomo, quali il
cibo, sono soddisfatti dall'agricoltura e non di certo dall'industria, di cui
non si vuole negare però l'esistenza, a patto che sia complementare di quella
agricola.
La capitalizzazione dei profitti
gradualmente finisce con il diventare il metro di misura di un successo e in
una società in cui il lavoro acquisisce crescente conoscenza della sua
importanza finisce con il trovare ostacoli e limitazioni, superabili solo
concedendo l'ipotesi larvata di un suo affrancamento e di una
elevazione a ranghi economici più alti.
La necessità di produrre sempre di
più, lucrando dai risparmi dati dalla quantità, accresce da un lato il consumo
di materie prime e dall'altro l'inevitabile aumento di scarti, cioè di
immondizia.
Siamo arrivati così a un quasi totale
utilizzo delle risorse naturali e a crescenti montagne di spazzature,
ma a quel
che è peggio siamo arrivati a rendere del tutto infelici sia i lavoratori (che
già in buona parte lo erano anche prima) che i capitalisti.
Si creano nuovi bisogni, soddisfatti
con prodotti a costi crescenti di produzione dovuti alla carenza di materie
prime e di energia, aumentando a dismisura lo squilibrio naturale.
Si vive nella falsità, nel senso che
ci viene fatto credere che questa è l'unica vita possibile e che l'ultimo
modello di i-pod, o l'ultimo tipo di LCD, sono il
fine a cui dobbiamo aspirare.
Onde evitare che ci si accorga
facilmente dell'inganno, si addormentano i sensi, con un'istruzione canonizzata
allo scopo, con letargici spettacoli televisivi, con letteratura spazzatura,
con giornali asserviti.
Lo stato finisce con il diventare
vegetativo, senza più interessi d'affetto sincero per la famiglia, senza
un'identità forte culturalmente con la comunità e, soprattutto, ignari della
nostra originaria spiritualità.
E' una società talmente felice che il
ricorso all'alcool e alle droghe è ormai un male endemico,
di cui sono afflitti anche i capitalisti che alimentano questo colossale Moloch
che assai presto divorerà tutti.
Che fare, allora?
Le soluzioni ci sarebbero, ma abbiamo
oltrepassato il punto di non ritorno e temo proprio che ormai ci attenda solo il medioevo
prossimo futuro.