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  Editoriali  »  C'è immondizia e immondizia 11/01/2008
 

C'è immondizia e immondizia

                            di Renzo Montagnoli

 

 

In questi giorni è di moda l'immondizia della Campania, tonnellate e tonnellate di rifiuti non smaltite e quindi abbandonate sulle strade, davanti alle case, davanti alle scuole, tranne che di fronte alle abitazioni dei potenti.

Verrebbe da dire che ciò costituisce uno scandalo, cioè che chi conta non ha puzze sotto il naso, mentre la plebe ogni giorno si deve ammorbare di miasmi pestilenziali.

Rientra, invece,  tutto nella logica di un sistema socio-economico mondiale che a definirlo criminale è una pura cortesia.

Certo, a Napoli e dintorni le conseguenze sono più evidenti per tutta una serie di motivi di cui non parlerò, perché non costituiscono il tema di questa riflessione, che si propone invece di non scendere nel particolare, ma di analizzare un perverso meccanismo nel generale.

Tutto ha origine a fine XVIII secolo quando si crea una nuova classe sociale, gli industriali. Questi comprendono che si possono far soldi, e non pochi, producendo beni in breve tempo, atti a soddisfare bisogni latenti e sconosciuti agli interessati, oppure creandone di nuovi.

Così, nel giro di pochi lustri, l'industria finisce con il prevalere sull'agricoltura, grazie a politiche esasperate di sfruttamento del lavoro. Infatti, poiché in natura nulla si crea e nulla distrugge, affinché il prodotto finito sia altamente remunerativo è necessario risparmiare sull'unico mezzo produttivo suscettibile di ricatto, vale a dire il lavoro.

I ritmi di lavoro diventano ossessivi, 14, anche 15 ore al giorno, in ambienti malsani e insicuri, e la paga è semplicemente da fame, tale da consentire a malapena il reintegro delle energie spese. Non c'è bisogno di scomodare Marx per verificare quello che ho scritto, ma è sufficiente leggersi qualche romanzo di Dickens.

A questi neoricchi serve una giustificazione del loro ruolo e così economisti come Adamo Smith coniano il capitalismo, cioè quella componente della produzione che ha diritto di essere remunerata per il capitale investito e il rischio d'impresa.

In antagonismo Carlo Marx rivendica invece come determinante l'apporto della forza lavoro, la quale sarebbe l'unica titolata a trarre i vantaggi della produzione.

Non è che ci sia poi molta differenza fra le due teorie, perché si limitano solo a indicare e a giustificare due diversi componenti prioritari dell'attività.

Entrambe sbagliano e di molto, perché non comprendono il meccanismo perverso di un'economia basata prevalentemente sulla produzione industriale.

I bisogni primari dell'uomo, quali il cibo, sono soddisfatti dall'agricoltura e non di certo dall'industria, di cui non si vuole negare però l'esistenza, a patto che sia complementare di quella agricola.

La capitalizzazione dei profitti gradualmente finisce con il diventare il metro di misura di un successo e in una società in cui il lavoro acquisisce crescente conoscenza della sua importanza finisce con il trovare ostacoli e limitazioni, superabili solo concedendo l'ipotesi larvata di un suo affrancamento e di una elevazione a ranghi economici più alti.

La necessità di produrre sempre di più, lucrando dai risparmi dati dalla quantità, accresce da un lato il consumo di materie prime e dall'altro l'inevitabile aumento di scarti, cioè di immondizia.

Siamo arrivati così a un quasi totale utilizzo delle risorse naturali e a crescenti montagne di spazzature,

ma a quel che è peggio siamo arrivati a rendere del tutto infelici sia i lavoratori (che già in buona parte lo erano anche prima) che i capitalisti.

Si creano nuovi bisogni, soddisfatti con prodotti a costi crescenti di produzione dovuti alla carenza di materie prime e di energia, aumentando a dismisura lo squilibrio naturale.

Si vive nella falsità, nel senso che ci viene fatto credere che questa è l'unica vita possibile e che l'ultimo modello di i-pod, o l'ultimo tipo di LCD, sono il fine a cui dobbiamo aspirare.

Onde evitare che ci si accorga facilmente dell'inganno, si addormentano i sensi, con un'istruzione canonizzata allo scopo, con letargici spettacoli televisivi, con letteratura spazzatura, con giornali asserviti.

Lo stato finisce con il diventare vegetativo, senza più interessi d'affetto sincero per la famiglia, senza un'identità forte culturalmente con la comunità e, soprattutto, ignari della nostra originaria spiritualità.

E' una società talmente felice che il ricorso all'alcool e alle droghe è ormai un male endemico, di cui sono afflitti anche i capitalisti che alimentano questo colossale Moloch che assai presto divorerà tutti.

Che fare, allora?

Le soluzioni ci sarebbero, ma abbiamo oltrepassato il punto di non ritorno e temo proprio che ormai ci attenda solo il medioevo prossimo futuro.            

 

 
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