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  Editoriali  »  Democrazia: diritto di sbagliare a proprio danno . di Mela Mondì Sanò 15/01/2009
 

 

Una riforma della scuola per una democrazia del post- moderno

                                   di Mela Mondì Sanò      

 

Capitolo primo: Democrazia: diritto di sbagliare a proprio danno?

 

L'Italia delle riforme ha riproposto all'attenzione il problema della democrazia.

Con le riforme in tutti i campi ( nel welfare, nella Costituzione, in geo-politica, negli istituti di partecipazione, nella scuola….. ) il nostro Paese cambia volto e si interroga se il nuovo sia il volto della democrazia.

Se  guardiamo ai processi di localizzazione che si vanno verificando in tutto il mondo, non possiamo non ammettere che la sfida democratica del futuro è l'educazione allo sviluppo in funzione della quale l'agire democratico diventa la condizione “sine qua non”.

E' infatti all'interno del gioco democratico che bisogna riflettere sullo “sviluppo” a cui l'impianto educativo ed organizzativo si dovrebbe ispirare. Solo in tal modo si può pensare alla scuola per riumanizzarla e ricentrare le sue finalità dopo l'uragano metodologico-didattico americano e la tempesta pedagogica sovietica con cui si è imbattuta dal dopo guerra ad oggi con l'obiettivo di ridurre le disuguaglianze, combattere le discriminazioni, liberare l'uomo dalla servitù, renderlo capace di divenire lui stesso attore responsabile del suo miglioramento materiale, del suo progresso morale …

Invece è sotto gli occhi di tutti che l'obiettivo non è mai stato raggiunto, ansi ci siamo trovati davanti ad una qualità della scuola italiana così scadente da vederla sprofondare agli ultimi posti della classifica europea.

Le metodologie americane della prova-errore e le tecniche pedagogiche collettivo- riabilitative sovietiche la pseudo-democrazia degli organi collegiali non hanno funzionato con il risultato che l'analfabetismo strumentale e culturale ha avuto il soppravvento producendo sfiducia e disaffezione nella scuola e delinquenza nella società, quello cioè che eufemisticamente i mezzi di comunicazione di massa chiamano bullismo.

 

Se educazione allo sviluppo significa educazione alla convivenza, al pluralismo, alla partecipazione, alla pace, alla non violenza, alla collaborazione, alla responsabilità, alla gratuità, alla cooperazione, alla giustizia, alla solidarietà, come può tutto ciò verificarsi al di fuori del giuoco democratico in cui tutti gli attori, ognuno nella competenza specifica, sono coinvolti? Come coscientizzare i giovani ai problemi ed alle tematiche dello sviluppo? Come sensibilizzare le componenti che operano nella scuola che lo sviluppo è un diritto umano e che come tale va difeso ed efficacemente promosso? Come mentalizzare i cittadini di oggi e di domani all'impiego dello sviluppo?

Se guardiamo oggi alla scuola così come essa è, improntata ancora, nonostante i decreti delegati, allo spirito autocratico, burocratico, individualistico, abbiamo poco da sperare anche dalla riforma autonomistica.

Da ogni parte ci viene detto che per l'instaurazione dell'ordine sociale e la stabilità, per consolidare iniziative intraprese, due cose sono soprattutto urgenti: la riforma delle istituzioni e la riforma dei costumi.

Il problema è, quindi, di capire qualcosa di democrazia mettendo da parte gli stereotipi che in questi anni ci siamo formati.

La democrazia ha una definizione che dura dal tempo di Erodoto, ossia governo del popolo ( demos - kratia ), ma i politologi dicono che essa ha una definizione descrittiva e prescrittiva ( pratica ), cioè esiste un essere  ed un dover essere.  La democrazia si sviluppa lungo questa traiettoria segnata da aspirazioni ideali che sempre sopravanzano le condizioni reali. Dice Sartori: “ Senza l'accertamento, la prescrizione, ( Le regole - le leggi ) la democrazia non è “.

Si tratta, però, di due piani diversi: il piano degli ideali ( la tensione progettuale ) ed il piano dei fatti. Ed ogni confronto si articola su questi due piani.

La dimostrazione fasulla è quella che incrocia ideali e fatti, poiché, a questo modo, si vince sempre ma solo nelle parole ( basti ricordare quel che avveniva tra comunismo e capitalismo ).

Oggi gli studi sulla democrazia si sono fatti parcellari e particolari, tant'è che si parla di democrazia politica, di democrazia sociale, di democrazia economica; ma anche di democrazia americana, europea, democrazia africana, medio- orientale…… 

Della nozione di democrazia politica parleremo in seguito, chiariamo, invece, la nozione di democrazia sociale, nozione che nasce in America con Tocqueville con la sua opera “ Democrazia in America “.

Tocqueville percepì la democrazia americana in chiave sociologica, come una società caratterizzata da eguaglianza di condizioni e prepotentemente guidata da uno spirito egualitario. Democrazia, quindi  per Tocqueville, non è il contrario di regime oppressivo, di tirannide, ma di aristocrazia: è una struttura sociale orizzontale al posto di una struttura verticale, quale si ritrova, viceversa, nella nostra cultura e nella nostra tradizione piramidale, per cui, forse, ci ritroviamo culturalmente penetrati dalla teoria di Bryce  (Democrazie moderne - Mondadori) che raffigura la democrazia come “ ethos “, un modo di vivere e di convivere come generale condizione della società.

Bryce, infatti, riconosce il carattere egualitario della Democrazia alla maniera del nostro personalismo e attribuisce uguale valore alle persone che si riconoscono l'un l'altro, mentre democrazia sociale, in effetti, denota una società il cui ethos richiede ai propri di vedersi e trattarsi come socialmente eguali.

Il problema critico che nasce da questa diversa concezione del diritto all'uguaglianza è quello di come conciliare in un mondo globalizzato le preferenze individuali con le scelte pubbliche e ci fa interrogare sul ruolo della politica oggi.

Giovanni Sartori vede il ruolo della politica legato al modo con cui si struttureranno le varie identità collettive nella società complessa. Egli teorizza la democrazia sociale come “ l'insieme delle democrazie primarie, piccole comunità ed associazioni volontarie concrete che innervano ed alimentano la democrazia a livello base ed a livello di società civile “. ( Op. cit. pag 13 ) Si tratta di “ società multigruppo “, strutturata a gruppi di volontari che si autogovernano.

Per Sartori democrazia sociale sta per infrastruttura di micro-democrazie che fanno da supporto alla macro-democrazia d'insieme e quindi alla sovrastruttura politica .D'altro canto questo principio permea la nostra Costituzione, la quale accetta il fatto storico di una moltitudine di comunistiche che hanno una propria caratterizzazione geografica, socio-politica e culturale, nonché linguistica e fortemente differenziata.

In tale contesto emerge la politica come formatrice di decisioni ed elaboratrice di regole capace di organizzare e gestire, coordinare le soggettività individuali e gli interessi collettivi, ossia il bene comune.

 Da noi,nonostante il progetto federalista, la gestione primaria della politica resta ancora quella dei rapporti tra potere centrale, che esiste nel modello piramidale statuale, e un potere locale che di fatto si muove con andamento centrifugo a causa delle attuali modalità dello sviluppo informatico, economico, sociale ed in un quadro culturale e politico multietnico e sovranazionale.

Per quanto riguarda la democrazia economica c'è da dire che, se la democrazia politica fa perno sull'uguaglianza giuridico-politica e la democrazia sociale sull'uguaglianza di status, la democrazia economica dovrebbe pareggiare sull'uguaglianza economica, dovrebbe agire sulla distribuzione del benessere, ma noi ci accorgiamo che non è così! Infatti, la democrazia economica acquista un significato preciso e caratterizzante sub-specie di democrazia industriale e imprenditoriale.  Il concetto risale a Sidney e Beatrice Webb che, nel 1897, scrivevano  “Democrazia industriale”, ove il concetto è chiaro: democrazia economica è democrazia nel posto di lavoro e nell'organizzazione e gestione del lavoro e dell'impresa.

Il lavoratore,nell'ambiente di lavoro, non è, per un verso, il “ polities “, ossia il membro della società politica, ma il membro di una concreta comunità economica, ove la democrazia si configura come l'autogoverno del lavoratore, nella propria sede di lavoro.  Si tratta di un autogoverno locale che a livello nazionale dovrebbe essere integrato da una democrazia funzionale, cioè da un sistema politico fondato su criteri di rappresentanza funzionale .

 

Quando parliamo di democrazia economica è facile il fraintendimento  “marxista” e farla discendere da una interpretazione materialistica della storia mentre, in effetti, questa prima fase si ritiene superata poiché oggi si tende a rifarsi alle “ Teorie economiche della democrazia “ che esordiscono con Anthony Dowus e che sono poi state sviluppate, in chiave di “ social choise “, di teorie delle scelte sociali e si avvalgono di concetti e di analogie della scienza economica ( il concetto di impresa ).

Occorre precisare che la democrazia economica che vuole vivere senza la democrazia politica è un qualcosa di completamente diverso dalla Teoria economica della democrazia.

A questo punto dobbiamo chiederci qual è il rapporto tra democrazia politica, democrazia sociale, democrazia economica, soprattutto se andiamo a vedere che la sfera autonomistica  e quella federalistica le coinvolgono tutte.

Nella  ricerca di una coniugazione tra i tre aspetti della democrazia c'è sempre un'insidia di fondo dovuta alla complessità del sistema, che oggi si affronta con il “semplificare “ che, come diceva Lenin, “ è una malattia mortale dell'infantilismo. “ E' vero che, per quanto possibile, bisogna rendere facile l'idea di democrazia, visto che la città democratica richiede, più di ogni altra, che i propri principi e meccanismi siano generalmente capiti, ma di troppa semplificazione si può anche morire. L'unico modo per risolvere democraticamente i problemi è di conoscerli e sapere chi sono.

Il semplicismo li cancella e così li aggrava. Semplicismo è, per esempio, dire che la democrazia è la legge dei numeri.

Questa chiosa  l'ho evidenziata poiché, mai come in questo nostro tempo di crisi, il termine democrazia è stato trattato con semplicismo tant'è che due affermazioni, per un verso contrastanti, si incontrano e si scontrano anche all'interno delle istituzioni autonome, quando sono costrette a gestire la dialettica tra reale ed ideale, tra realtà di fatto e progettualità.

Per i sostenitori della democrazia reale non conta nulla l'ideale; per i sostenitori dell'ideale, ossia delle tesi perfezionistiche, bisogna andare a tutto gas dentro il reale. Così ci si interroga sul corretto rapporto tra essere e dovere essere. La democrazia, in effetti, è un incrocio di scelte. Le scelte definiscono il tipo di democrazia.

La contesa più evidente è quella tra democrazie realistiche e democrazie di ragione.

Le prime hanno come contesto una mentalità empirica  (Rivoluzione inglese 1688 - 89) che rivendicano il ripristino della Magna Charta violata dalle dinastie dei Tudor e degli Stuart; le seconde hanno come sfondo il razionalismo ma le conseguenze sono che la democrazia si ritrova, da una parte, con quelli che formulano i principi astratti e dall'altra con quelli che li amministrano.  (Francia 1789 .

Tra queste due sta la democrazia empirico-pragmatica (americana)  che rappresenta un ago della bilancia. Delle due, la prima procede dai fatti alla mente, la seconda opera al contrario.

Per Hegel il reale è razionale. Per la destra hegeliana, il razionale deve sottomettersi al reale. Per la sinistra hegeliana il reale deve sottomettersi al razionale: il metro è la razionalità ( Marx ).

Per l'empirista conta l'applicabilità, per il razionalista la coerenza. La prima procede per tentativi, la seconda cerca il definitivo. Queste matrici mentali e culturali si riflettono sul modo di concepire la democrazia e  e ci fanno interrogare su quale possibile democrazia in tempi di crisi e di tracollo finanziario.

 Con quale democrazia rispondere all'India che teneva i fili della borsa con l'88% di scoperto.

Questa apparente antinomia trova infatti nella realtà due gruppi contrapposti: i fondamentalisti e gli strumentalisti. Per i primi la democrazia deve essere tutta dispiegata a partire dalla sua essenza; per i secondi la democrazia si risolve nelle strutture e nelle tecniche che la rendono operante. In effetti le due tesi dovrebbero incrociarsi poiché essi non si escludono a vicenda e la democrazia ha bisogno di entrambi, ma, in effetti, non si  incontrano perché diverge il tipo di domanda che si pongono. Infatti i primi i primi si chiedono  “ che cosa è? “ ed i secondi “ come funziona? “ Per i primi conta la forma efficace, per i secondi una rappresentanza ragionata, ossia la efficienza.

Abbiamo dissertato sul modo di pensare alla democrazia, ma per poterne capire di più è necessario analizzare i due termini che compongono la parola democrazia:  DEMOS ( popolo ) e KRATHOS ( potere ).

Alcuni autori, per definire il concetto di popolo, si agganciano ad una particolare teoria che risulta loro congeniale. Ad esempio Barry Holden organizza la sua analisi attorno ai cinque nuclei di teorie democratiche: 1° radicale, 2° neo-radicale, 3° pluralista, 4° elitista, 5° liberal-democratica, ma esistono altre teorie, come ad esempio quella rappresentativa.

Questi nuclei storici ci obbligano a rivedere il concetto popolo.

Popolo come letteralmente tutti ( radicale );

popolo come il maggior numero ( neo-radicale );

popolo come proletariato e classi inferiori ( pluralista ed elitista );

popolo come totalità organica ed indivisibile;

popolo come principio maggioritario assoluto;     

popolo come principio maggioritario temperato.

Se volessimo fare un excursus storico ci renderemmo conto che il popolo di cui parlava Erodoto non esiste più sulle scene della polis del 2008.

Già dal 1848 ( manifesto comunista ) Marx parlava di masse ( proletari di tutto il mondo unitevi! )

Il popolo assume corporeità nell'ambito della nazionalità, nell'ambito dei privilegi dell'antico regime, ma, con il formarsi di strutture corporative e dell'ordine dei ceti, il popolo designa sempre più un aggregato amorfo agli antipodi di quel che i romantici avevano mitizzato.

Il termine popolo si è disfatto in una realtà nuova, la quale richiede un nome nuovo. Difatti da tempo si parla di masse, di uomo-massa e quindi di società di massa, definizione che in questi ultimi anni è entrata in crisi.

Nel suo libro “  La ribellione delle masse “, Ortega y Gasset mette in evidenza l'uomo massa, il quale non è l'indicatore delle classi inferiori, ma un tipo umano che vive una vita volgare e che assomiglia ad un bambino viziato.

La domanda che ci poniamo è: che cosa è che ha fatto di un popolo una massa?

Quali trasformazioni si sono verificate?

La prima trasformazione è di ordine numerico e riguarda l'aumento demografico - ad Atene i 3000 cittadini dell'agorà sono diventati 3. 000.000 -, per cui non basta più una piazza, per quanto grande sia, a contenere il popolo di una polis.

Viviamo nella “ megalopoli “, ossia nella città smisurata ove vive, diceva Reisman la folla solitaria.

Viviamo ammucchiati l'uno sull'altro, in solitudine e nella spersonalizzazione.

Un secondo elemento consiste nell'accelerazione storica, la quale produce uno sradicamento delle proprie radici. Infatti  stentiamo, a volte, a riconoscere, a distanza di pochi anni, in questo mondo in cui viviamo, lo stesso mondo della nostra adolescenza. Oggi, infatti, la richiesta più insistente è l'integrazione sociale perché forte è la necessità di aggrupparsi e di “ appartenere “ per sopperire all'alienazione che la disintegrazione sociale ha prodotto, disintegrazione dovuta, oltre al cambiamento vertiginoso, anche alla mobilità geografica che vede enormi masse spostarsi da un continente all'altro.

La modernizzazione, la delocalizzazione, così, è anche spostamento continuo di casa in casa, di città in città, spostamento che è anche perdita di amici, di vicini, di parenti e quindi perdita di radici.

Si è verificata quella che  Pierre Lèvy chiama “deterritorializzazione”.  Anche se perdere le radici è liberatorio, in questo processo di liberazione, il popolo diventa un'entità atomizzata in un infinito divenire di nuove integrazioni, un'entità sommersa e fluttuante e la società antropologica diventa società anomica che ha perduto   “l'ubi consistam”, l'appoggio dei gruppi primari.

Il terzo elemento è costituito dalle reti di comunicazione e dalle memorie digitali che costituiscono il cyberspazio, uno spazio da fantascienza entro cui il potere anonimo rende anonimo il soggetto umano schedato, sorvegliato, spiato, clonato, costretto ad agire e reagire in tempo reale nel cui contesto la politica si fa mediatica ed entra nel circolo perverso televisione- sondaggio-statistiche-elezioni.

Su tale analisi-diagnosi, credo che tutti possiamo trovarci d'accordo, il problema si presenta quando entriamo nella teoria politica della società di massa ove le diagnosi sono controverse.

Nascono una serie di domande e, prima fra tutte, questa: com'è che questo modo di essere o di malessere si riflette sul modo di operare della città politica? E della città pedagogica?

Se prendiamo per vero quello che diceva Kornhauser che la società di massa è una società facilmente esposta alla mobilitazione ed alla manipolazione, una scuola riformata come può essere governata e gestita in modo democratico, ove il pensiero critico dovrebbe essere il perno per le scelte ragionate e funzionali e aperto alla società ed al mondo?

Sembra il cane che si morde la coda. Infatti l'uomo massa è isolato, vulnerabile e pertanto disponibile: il suo comportamento oscilla tra i due estremi: da un attivismo estremistico all'apatia assoluta. Ne consegue che il tipo psicologico che caratterizza la società di massa fornisce uno scarso sostegno ad una  democrazia critica e vigile.

Vedremo in seguito le operazioni sistemiche da mettere in atto in questa nuova realtà.

Adesso passiamo ad esaminare il “ kratos “, il potere.

Diciamo subito che il problema del potere investe non tanto la titolarità ( il potere è del popolo ) quanto l'esercizio.

Il potere in concreto è di chi lo esercita, di chi sta dove si trovano le leve di comando, anche se questo potere ne deriva dalla fictio della rappresentanza.

“ La rappresentanza “ diceva Rousseau “ spoglia il titolare del potere e dall'esercizio del potere, poiché chi trasmette il proprio potere lo può anche perdere ”. Ed, in effetti, è vero. L'abbiamo sperimentato durante la prima repubblica e lo sperimentiamo ogni giorno quando qualcuno dice: “facciamo questo e questo” senza confrontarsi e capire che il popolo nel cedere potere alla rappresentanza è potenzialmente sempre il detentore del potere.

Che non sia in questo impadronirsi del potere una volta per tutte il male della democrazia?

 Attraverso la maggioranza elettorale vittoriosa si priva il “ popolo “ del potere, per cui si viene a creare una disgiunzione tra titolarità ed esercizio del potere. Questa dinamica, per certi versi perversa, è quel che può verificarsi in un contesto federalistico, quando soprattutto non si conoscono i limiti del ruolo politico territoriale, né le strategie di coordinamento tra centro e periferia , con il risultato che la massa non si trasforma in comunità e tale rischio è forte quando il tragitto tra massa e rappresentante non è sorvegliato da controllori; così il governo della comunità rischia di diventare il governo sulla massa.

Infatti elezioni e rappresentanza sono sì il corredo strumentale, senza il quale la democrazia non si realizza ma ne sono, allo stesso tempo, il tallone di Achille della democrazia. Le elezioni, in fin dei conti, non sono quasi mai genuinamente libere e, pertanto, la rappresentanza non è genuina.

Come rimediare alla spinta autocratica? Il discorso ritorna: il potere appartiene al popolo.

Il sostegno ci viene dal concetto di  democrazia come legittimità, per cui il potere è legittimo solo se è investito dal basso, se è una emanazione della volontà popolare. E' in tale contesto che i termini leader, manager, referente, ecc. assumono senso. C'è una democrazia in quanto si abbia una città aperta, un territorio aperto, una scuola aperta in modo che il potere sia a servizio dei cittadini e non questi a servizio del potere ed il governo esista per la città, per il territorio, per la scuola e non viceversa.

A Gettysburg, nel 1863, Lincoln ebbe a caratterizzare la democrazia con un aforisma: “ governo del popolo, dal popolo, per il popolo “. Ma più tardi  Stalin caratterizzava così anche il comunismo.

Ma se tutti si danno da fare per riconoscere che il popolo è il potere, allora questo popolo non sbaglia mai? Noi diciamo che il popolo ha il diritto di sbagliare ma dobbiamo anche dire che in una democrazia il diritto di sbagliare compete a chi sbaglia per sé individualmente e a danno proprio.

Se sbaglia un popolo ci saranno delle ragioni che potrebbero trovarsi dalla parte di chi non crede nell'aforisma di Lincoln.

                                                                                                                                                             

(Tratto dal saggio “Una riforma della scuola per una democrazia del post-moderno”)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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