Una
riforma della scuola per una democrazia del post- moderno
di Mela
Mondì Sanò
Capitolo
primo: Democrazia: diritto di sbagliare a proprio danno?
L'Italia delle riforme
ha riproposto all'attenzione il
problema della democrazia.
Con le riforme in tutti i campi ( nel welfare, nella
Costituzione, in geo-politica, negli istituti di partecipazione, nella scuola….. ) il nostro Paese cambia volto e si interroga se il nuovo
sia il volto della democrazia.
Se
guardiamo ai processi di localizzazione che si vanno verificando
in tutto il mondo, non possiamo non ammettere che la sfida democratica del
futuro è l'educazione allo sviluppo in funzione della quale l'agire democratico
diventa la condizione “sine qua non”.
E' infatti all'interno del gioco
democratico che bisogna riflettere sullo “sviluppo” a cui l'impianto educativo
ed organizzativo si dovrebbe ispirare. Solo in tal modo si può pensare alla
scuola per riumanizzarla e ricentrare
le sue finalità dopo l'uragano metodologico-didattico
americano e la tempesta pedagogica sovietica con cui si è imbattuta dal dopo
guerra ad oggi con l'obiettivo di ridurre le disuguaglianze, combattere le
discriminazioni, liberare l'uomo dalla servitù, renderlo capace di divenire lui
stesso attore responsabile del suo miglioramento materiale, del suo progresso
morale …
Invece è sotto gli occhi di tutti che l'obiettivo non è
mai stato raggiunto, ansi ci siamo trovati davanti ad una qualità della scuola
italiana così scadente da vederla sprofondare agli ultimi posti della
classifica europea.
Le metodologie americane della prova-errore e le tecniche
pedagogiche collettivo- riabilitative sovietiche la pseudo-democrazia degli organi collegiali non hanno
funzionato con il risultato che l'analfabetismo strumentale e culturale ha
avuto il soppravvento producendo sfiducia e disaffezione nella scuola e
delinquenza nella società, quello cioè che eufemisticamente i mezzi di
comunicazione di massa chiamano bullismo.
Se educazione allo sviluppo significa educazione alla
convivenza, al pluralismo, alla partecipazione, alla pace, alla non violenza,
alla collaborazione, alla responsabilità, alla gratuità, alla cooperazione,
alla giustizia, alla solidarietà, come può tutto ciò verificarsi al di fuori
del giuoco democratico in cui tutti gli attori, ognuno nella competenza
specifica, sono coinvolti? Come coscientizzare i
giovani ai problemi ed alle tematiche dello sviluppo? Come sensibilizzare le
componenti che operano nella scuola che lo sviluppo è un diritto umano e che
come tale va difeso ed efficacemente promosso? Come mentalizzare
i cittadini di oggi e di domani all'impiego dello sviluppo?
Se guardiamo oggi alla scuola così come essa
è, improntata ancora, nonostante i decreti delegati, allo spirito autocratico,
burocratico, individualistico, abbiamo poco da sperare anche dalla riforma
autonomistica.
Da ogni parte ci viene detto che per l'instaurazione
dell'ordine sociale e la stabilità, per consolidare iniziative intraprese, due
cose sono soprattutto urgenti: la riforma delle istituzioni e la riforma dei
costumi.
Il problema è, quindi, di capire qualcosa di democrazia
mettendo da parte gli stereotipi che in questi anni ci siamo formati.
La democrazia ha una definizione che dura dal tempo di
Erodoto, ossia governo del popolo ( demos - kratia ), ma i politologi dicono che essa ha una
definizione descrittiva e prescrittiva ( pratica ), cioè esiste un essere ed un dover
essere. La democrazia si sviluppa lungo
questa traiettoria segnata da aspirazioni ideali che sempre sopravanzano le
condizioni reali. Dice Sartori: “ Senza l'accertamento, la prescrizione, ( Le
regole - le leggi ) la democrazia non è “.
Si tratta, però, di due piani diversi: il piano degli
ideali ( la tensione progettuale ) ed il piano dei fatti. Ed ogni confronto si
articola su questi due piani.
La dimostrazione fasulla è quella che incrocia ideali e
fatti, poiché, a questo modo, si vince sempre ma solo
nelle parole ( basti ricordare quel che avveniva tra comunismo e capitalismo ).
Oggi gli studi sulla democrazia si sono fatti parcellari e
particolari, tant'è che si parla di democrazia politica, di democrazia sociale,
di democrazia economica; ma anche di democrazia americana, europea, democrazia
africana, medio- orientale……
Della nozione di democrazia politica parleremo in seguito,
chiariamo, invece, la nozione di democrazia
sociale, nozione che nasce in America con Tocqueville con la sua opera “
Democrazia in America “.
Tocqueville percepì la democrazia americana in chiave
sociologica, come una società caratterizzata da eguaglianza di condizioni e
prepotentemente guidata da uno spirito egualitario. Democrazia, quindi per Tocqueville, non
è il contrario di regime oppressivo, di tirannide, ma di aristocrazia: è una
struttura sociale orizzontale al posto di una struttura verticale, quale si
ritrova, viceversa, nella nostra cultura e nella nostra tradizione piramidale,
per cui, forse, ci ritroviamo culturalmente penetrati dalla teoria di Bryce (Democrazie
moderne - Mondadori) che raffigura la democrazia come “ ethos “, un modo di
vivere e di convivere come generale condizione della società.
Bryce, infatti, riconosce il carattere egualitario della
Democrazia alla maniera del nostro personalismo e attribuisce uguale valore alle
persone che si riconoscono l'un l'altro, mentre democrazia sociale, in effetti,
denota una società il cui ethos richiede ai propri di vedersi e trattarsi come
socialmente eguali.
Il problema critico che nasce da questa diversa concezione
del diritto all'uguaglianza è quello di come conciliare in un mondo
globalizzato le preferenze individuali con le scelte pubbliche e ci fa
interrogare sul ruolo della politica oggi.
Giovanni Sartori vede il ruolo della politica legato al
modo con cui si struttureranno le varie identità collettive nella società
complessa. Egli teorizza la democrazia sociale come “ l'insieme delle
democrazie primarie, piccole comunità ed associazioni volontarie concrete che
innervano ed alimentano la democrazia a livello base ed a livello di società
civile “. ( Op. cit. pag 13 ) Si tratta di “ società multigruppo “, strutturata a gruppi di volontari che si
autogovernano.
Per Sartori democrazia sociale sta per infrastruttura di micro-democrazie che fanno da supporto alla
macro-democrazia d'insieme e quindi alla sovrastruttura politica .D'altro canto questo principio permea la nostra
Costituzione, la quale accetta il fatto storico di una moltitudine di
comunistiche che hanno una propria caratterizzazione geografica, socio-politica
e culturale, nonché linguistica e fortemente differenziata.
In tale contesto emerge la politica come formatrice di
decisioni ed elaboratrice di regole capace di
organizzare e gestire, coordinare le soggettività individuali e gli interessi
collettivi, ossia il bene comune.
Da noi,nonostante il progetto federalista, la gestione primaria
della politica resta ancora quella dei rapporti tra potere centrale, che esiste
nel modello piramidale statuale, e un potere locale che di fatto si muove con
andamento centrifugo a causa delle attuali modalità dello sviluppo informatico,
economico, sociale ed in un quadro culturale e politico multietnico e
sovranazionale.
Per quanto riguarda la democrazia economica c'è da dire che, se la democrazia politica fa
perno sull'uguaglianza giuridico-politica e la
democrazia sociale sull'uguaglianza di status, la democrazia economica dovrebbe
pareggiare sull'uguaglianza economica, dovrebbe agire sulla distribuzione del
benessere, ma noi ci accorgiamo che non è così! Infatti, la democrazia
economica acquista un significato preciso e caratterizzante sub-specie di democrazia industriale e imprenditoriale. Il concetto risale a Sidney e Beatrice Webb che, nel 1897, scrivevano “Democrazia industriale”, ove il
concetto è chiaro: democrazia economica è democrazia nel posto di lavoro e nell'organizzazione
e gestione del lavoro e dell'impresa.
Il lavoratore,nell'ambiente di
lavoro, non è, per un verso, il “ polities “, ossia
il membro della società politica, ma il membro di una concreta comunità
economica, ove la democrazia si configura come l'autogoverno del lavoratore,
nella propria sede di lavoro. Si tratta
di un autogoverno locale che a livello nazionale dovrebbe essere integrato da
una democrazia funzionale, cioè
da un sistema politico fondato su criteri di rappresentanza funzionale .
Quando parliamo di democrazia economica è facile il
fraintendimento “marxista”
e farla discendere da una interpretazione materialistica della storia mentre, in
effetti, questa prima fase si ritiene superata poiché oggi si tende a rifarsi
alle “ Teorie economiche della
democrazia “ che esordiscono con Anthony Dowus
e che sono poi state sviluppate, in chiave di “ social choise
“, di teorie delle scelte sociali e si avvalgono di concetti e di analogie
della scienza economica ( il concetto di impresa ).
Occorre precisare che la democrazia economica che vuole vivere senza la democrazia politica è un qualcosa di
completamente diverso dalla Teoria economica della democrazia.
A questo punto dobbiamo chiederci qual è il rapporto tra
democrazia politica, democrazia sociale, democrazia economica, soprattutto se
andiamo a vedere che la sfera autonomistica e quella federalistica le coinvolgono
tutte.
Nella
ricerca di una coniugazione tra i tre aspetti della democrazia
c'è sempre un'insidia di fondo dovuta alla complessità del sistema, che oggi si
affronta con il “semplificare “ che, come diceva Lenin, “ è una malattia
mortale dell'infantilismo. “ E' vero che, per quanto
possibile, bisogna rendere facile l'idea di democrazia, visto che la città
democratica richiede, più di ogni altra, che i propri principi e meccanismi
siano generalmente capiti, ma di troppa semplificazione si può anche morire.
L'unico modo per risolvere democraticamente i problemi è di conoscerli e sapere
chi sono.
Il semplicismo li cancella e così li aggrava. Semplicismo
è, per esempio, dire che la democrazia è la legge dei numeri.
Questa chiosa l'ho evidenziata poiché, mai come in
questo nostro tempo di crisi, il termine democrazia è stato trattato con
semplicismo tant'è che due affermazioni, per un verso contrastanti, si
incontrano e si scontrano anche all'interno delle istituzioni autonome, quando
sono costrette a gestire la dialettica tra reale ed ideale, tra realtà di fatto
e progettualità.
Per i sostenitori della democrazia reale non conta nulla l'ideale; per i sostenitori
dell'ideale, ossia delle tesi perfezionistiche, bisogna andare a tutto gas
dentro il reale. Così ci si interroga sul corretto rapporto tra essere e dovere
essere. La democrazia, in effetti, è un incrocio di scelte. Le scelte definiscono
il tipo di democrazia.
La contesa più evidente è quella tra democrazie realistiche e democrazie di ragione.
Le prime hanno come contesto una mentalità empirica (Rivoluzione inglese
1688 - 89) che rivendicano il ripristino della Magna Charta
violata dalle dinastie dei Tudor e degli Stuart; le seconde hanno come sfondo
il razionalismo ma le conseguenze sono che la democrazia si ritrova, da una
parte, con quelli che formulano i principi astratti e dall'altra con quelli che
li amministrano. (Francia
1789 .
Tra queste due sta la democrazia empirico-pragmatica
(americana) che
rappresenta un ago della bilancia. Delle due, la prima procede dai fatti alla
mente, la seconda opera al contrario.
Per Hegel il reale è razionale.
Per la destra hegeliana, il razionale deve sottomettersi al reale. Per la
sinistra hegeliana il reale deve sottomettersi al razionale: il metro è la
razionalità ( Marx ).
Per l'empirista conta l'applicabilità, per il razionalista
la coerenza. La prima procede per tentativi, la seconda cerca il definitivo.
Queste matrici mentali e culturali si riflettono sul modo di concepire la
democrazia e e ci fanno interrogare su quale possibile democrazia
in tempi di crisi e di tracollo finanziario.
Con quale democrazia
rispondere all'India che teneva i fili della borsa con l'88% di scoperto.
Questa apparente antinomia trova infatti
nella realtà due gruppi contrapposti: i fondamentalisti e gli strumentalisti.
Per i primi la democrazia deve essere tutta dispiegata a partire dalla sua
essenza; per i secondi la democrazia si risolve nelle strutture e nelle
tecniche che la rendono operante. In effetti le due
tesi dovrebbero incrociarsi poiché essi non si escludono a vicenda e la
democrazia ha bisogno di entrambi, ma, in effetti, non si incontrano perché diverge il tipo di domanda
che si pongono. Infatti i primi i primi si
chiedono “ che cosa è? “ ed i secondi “
come funziona? “ Per i primi conta la forma efficace, per i secondi una
rappresentanza ragionata, ossia la efficienza.
Abbiamo dissertato sul modo di pensare alla democrazia, ma
per poterne capire di più è necessario analizzare i due termini che compongono
la parola democrazia: DEMOS ( popolo ) e KRATHOS
( potere ).
Alcuni autori, per definire il concetto di popolo, si
agganciano ad una particolare teoria che risulta loro congeniale. Ad esempio
Barry Holden organizza la sua analisi attorno ai cinque nuclei di teorie
democratiche: 1° radicale, 2° neo-radicale, 3° pluralista, 4° elitista, 5° liberal-democratica, ma esistono altre teorie,
come ad esempio quella rappresentativa.
Questi nuclei storici ci obbligano a rivedere il concetto
popolo.
Popolo come letteralmente tutti ( radicale );
popolo come il
maggior numero ( neo-radicale );
popolo come
proletariato e classi inferiori ( pluralista ed elitista
);
popolo come
totalità organica ed indivisibile;
popolo come
principio maggioritario assoluto;
popolo come
principio maggioritario temperato.
Se volessimo fare un excursus storico ci renderemmo conto
che il popolo di cui parlava Erodoto non esiste più sulle scene della polis del
2008.
Già dal 1848 ( manifesto comunista ) Marx
parlava di masse ( proletari di tutto il mondo unitevi! )
Il popolo assume corporeità nell'ambito della nazionalità,
nell'ambito dei privilegi dell'antico regime, ma, con il formarsi di strutture
corporative e dell'ordine dei ceti, il popolo designa sempre più un aggregato
amorfo agli antipodi di quel che i romantici avevano mitizzato.
Il termine popolo si è disfatto in una realtà nuova, la
quale richiede un nome nuovo. Difatti da tempo si parla di masse, di uomo-massa
e quindi di società di massa, definizione che in questi ultimi anni è entrata
in crisi.
Nel suo libro “ La ribellione delle masse “, Ortega y Gasset mette in evidenza
l'uomo massa, il quale non è l'indicatore delle classi inferiori, ma un tipo
umano che vive una vita volgare e che assomiglia ad un bambino viziato.
La domanda che ci poniamo è: che cosa è che ha fatto di un
popolo una massa?
Quali trasformazioni si sono verificate?
La prima trasformazione è di ordine numerico e riguarda
l'aumento demografico - ad Atene i 3000 cittadini dell'agorà sono diventati 3.
000.000 -, per cui non basta più una piazza, per quanto grande sia, a contenere
il popolo di una polis.
Viviamo nella “ megalopoli “, ossia nella città smisurata
ove vive, diceva Reisman la folla solitaria.
Viviamo ammucchiati l'uno sull'altro, in solitudine e
nella spersonalizzazione.
Un secondo elemento consiste nell'accelerazione storica,
la quale produce uno sradicamento delle proprie radici. Infatti stentiamo, a volte, a riconoscere, a distanza
di pochi anni, in questo mondo in cui viviamo, lo stesso mondo della nostra
adolescenza. Oggi, infatti, la richiesta più insistente è l'integrazione
sociale perché forte è la necessità di aggrupparsi e di “ appartenere “ per
sopperire all'alienazione che la disintegrazione sociale ha prodotto,
disintegrazione dovuta, oltre al cambiamento vertiginoso, anche alla mobilità
geografica che vede enormi masse spostarsi da un continente all'altro.
La modernizzazione, la delocalizzazione, così, è anche
spostamento continuo di casa in casa, di città in città, spostamento che è
anche perdita di amici, di vicini, di parenti e quindi perdita di radici.
Si è verificata quella che Pierre Lèvy
chiama “deterritorializzazione”. Anche se perdere le radici è liberatorio, in
questo processo di liberazione, il popolo diventa un'entità atomizzata in un infinito
divenire di nuove integrazioni, un'entità sommersa e fluttuante e la società antropologica
diventa società anomica che ha perduto “l'ubi consistam”, l'appoggio dei gruppi primari.
Il terzo elemento è costituito dalle reti di comunicazione
e dalle memorie digitali che costituiscono il cyberspazio, uno spazio da
fantascienza entro cui il potere anonimo rende anonimo il soggetto umano
schedato, sorvegliato, spiato, clonato, costretto ad agire e reagire in tempo
reale nel cui contesto la politica si fa mediatica ed entra nel circolo
perverso televisione- sondaggio-statistiche-elezioni.
Su tale analisi-diagnosi, credo che tutti possiamo
trovarci d'accordo, il problema si presenta quando entriamo nella teoria
politica della società di massa ove le diagnosi sono controverse.
Nascono una serie di domande e, prima fra tutte, questa:
com'è che questo modo di essere o di malessere si riflette sul modo di operare
della città politica? E della città pedagogica?
Se prendiamo per vero quello che diceva Kornhauser che la società di massa è una società facilmente
esposta alla mobilitazione ed alla manipolazione, una scuola riformata come può
essere governata e gestita in modo democratico, ove il pensiero critico dovrebbe
essere il perno per le scelte ragionate e funzionali e aperto
alla società ed al mondo?
Sembra il cane che si morde la coda. Infatti
l'uomo massa è isolato, vulnerabile e pertanto disponibile: il suo
comportamento oscilla tra i due estremi: da un attivismo estremistico
all'apatia assoluta. Ne consegue che il tipo psicologico che caratterizza la
società di massa fornisce uno scarso sostegno ad una democrazia critica e vigile.
Vedremo in seguito le operazioni sistemiche da mettere in
atto in questa nuova realtà.
Adesso passiamo ad esaminare il “ kratos
“, il potere.
Diciamo subito che il problema del potere investe non
tanto la titolarità ( il potere è del popolo ) quanto l'esercizio.
Il potere in concreto è di chi lo esercita,
di chi sta dove si trovano le leve di comando, anche se questo potere ne deriva
dalla fictio della rappresentanza.
“ La rappresentanza “ diceva Rousseau “ spoglia il
titolare del potere e dall'esercizio del potere, poiché chi trasmette il
proprio potere lo può anche perdere ”. Ed, in effetti, è vero. L'abbiamo
sperimentato durante la prima repubblica e lo sperimentiamo ogni giorno quando
qualcuno dice: “facciamo questo e questo” senza
confrontarsi e capire che il popolo nel cedere potere alla rappresentanza è
potenzialmente sempre il detentore del potere.
Che non sia in questo impadronirsi del potere una volta
per tutte il male della democrazia?
Attraverso la
maggioranza elettorale vittoriosa si priva il “ popolo “ del potere, per cui si
viene a creare una disgiunzione tra titolarità ed esercizio del potere. Questa
dinamica, per certi versi perversa, è quel che può verificarsi in un contesto
federalistico, quando soprattutto non si conoscono i limiti del ruolo politico
territoriale, né le strategie di coordinamento tra centro e periferia , con il risultato che la massa non si trasforma in
comunità e tale rischio è forte quando il tragitto tra massa e rappresentante
non è sorvegliato da controllori; così il governo della comunità rischia di
diventare il governo sulla massa.
Infatti
elezioni e rappresentanza sono sì il corredo
strumentale, senza il quale la democrazia non si realizza ma ne sono,
allo stesso tempo, il tallone di Achille della democrazia. Le elezioni, in fin
dei conti, non sono quasi mai genuinamente libere e, pertanto, la
rappresentanza non è genuina.
Come rimediare alla spinta autocratica? Il discorso ritorna: il potere appartiene al popolo.
Il sostegno ci viene dal concetto di democrazia come legittimità, per cui il potere è legittimo solo se
è investito dal basso, se è una emanazione della volontà popolare. E' in tale
contesto che i termini leader, manager, referente, ecc. assumono senso. C'è una
democrazia in quanto si abbia una città aperta, un territorio aperto, una
scuola aperta in modo che il potere sia a servizio dei cittadini e non questi a
servizio del potere ed il governo esista per la città, per il territorio, per
la scuola e non viceversa.
A Gettysburg, nel 1863, Lincoln
ebbe a caratterizzare la democrazia con un aforisma: “ governo del popolo, dal
popolo, per il popolo “. Ma più tardi Stalin caratterizzava così anche il
comunismo.
Ma se tutti si danno da fare per riconoscere che il popolo
è il potere, allora questo popolo non sbaglia mai? Noi diciamo che il popolo ha
il diritto di sbagliare ma dobbiamo anche dire che in una democrazia il diritto
di sbagliare compete a chi sbaglia per sé individualmente e a danno proprio.
Se sbaglia un popolo ci saranno delle ragioni che
potrebbero trovarsi dalla parte di chi non crede nell'aforisma di Lincoln.
(Tratto dal saggio “Una
riforma della scuola per una democrazia del post-moderno”)