Cara TV,
confessione di un teleutente fallito
di Renzo Montagnoli
Cara TV,
mi devi scusare, ma ho da dirti qualcosa. E' un tarlo che mi
rode dentro, che fra crik crik,
e che se non lo faccio uscire, continua a perseguitarmi. Confesso, confesso che
sono un teleutente fallito, fatto gravissimo per te, ma positivo per me.
Come è potuto accadere? E' una lunga storia, che si seguito
espongo, cercando di essere il più sintetico possibile.
Sono nato nel 1947, cioè sono uno dei figli dell'immediato
dopoguerra, in un'Italia distrutta, povera, se non addirittura misera. Eppure,
nonostante le difficoltà, gli italiani si diedero da fare e, pur fra mille
privazioni, riuscirono a ricostruire, dimostrandosi un popolo migliore di
quanto non si supponesse.
Il 3 gennaio 1954 partì ufficialmente la televisione, una forma di
comunicazione che i più nemmeno immaginavano. Gli apparecchi di ricezione, in
origine quasi tutti americani, erano grossi scatoloni con uno schermo di
visione piuttosto piccolo rispetto alle dimensioni complessive. Costavano fior
di quattrini e agli inizi furono acquistati solo dai ricchi, pochi ovviamente
rispetto ai potenziali fruitori. Il
nuovo mezzo stentò a trovare successo, anche perché i programmi erano limitati
e modesti. Ma alla fine del novembre del 1955 accadde un evento trascinante, un
programma a quiz condotto da un italo-americano di nome Mike Bongiorno e
intitolato “Lascia o raddoppia”.
Quel gioco sconvolse le abitudini degli italiani e i pochi bar che
disponevano di un apparecchio televisivo si riempirono di gente estasiata nel
vedere concorrenti rispondere a domande spesso assai difficili. Ben presto
tutti i locali pubblici, quali osterie e caffè, si dotarono di un televisore,
per evitare una fuga dei clienti verso quei concorrenti che già ne disponevano.
Perfino i cinema si interessarono alla cosa e nelle serate di “Lascia o
raddoppia” il film veniva sostituito dalla trasmissione.
Cambiarono le abitudini, nel senso che la gente prese a uscire per
andare al bar a vedere la televisione, un fenomeno a prima vista positivo, se
si guarda alle tante persone che, vicine, dialogavano sui temi dei programmi.
Intanto, ci si avviava verso un periodo di relativo benessere e i
televisori cominciarono a entrare nelle case degli italiani, i bar si
svuotarono, i dialoghi cessarono.
Io ebbi la fortuna di avere la televisione nel 1960, un
apparecchio tedesco di 21
pollici, che letteralmente m'incantò. Quando non
studiavo guardavo di tutto, da Angelo Lombardi l'amico degli animali a Rin Tin Tin, dal maestro Manzi il
conduttore di Non è mai troppo tardi al prof. Cutolo, che svelava la bellezza e
le regole della nostra lingua.
Insomma mi accingevo a diventare un teledipendente a tutti gli
effetti.
Quando poi le reti divennero due e poi tre intervenne l'imbarazzo
della scelta e così cominciai a spaziare dagli sceneggiati agli avvenimenti
sportivi, dai film, soprattutto americani che davano l'immagine di un paese
dove tutti erano ricchi, essenziale in periodo di guerra fredda, ai primi
spettacoli di intrattenimento comico e musicale.
Compravo il radio corriere TV e programmavo le giornate in base al
palinsesto, da bravo teledipendente.
Un po' ovunque sorgevano televisioni locali, cose alla buona, in
cui imperava soprattutto la “bagola”.
Tutto bene, dunque, o no?
Io crescevo a pane e televisione, ma cominciò a serpeggiare un
dubbio: mica la mia vita sarà quella di stare davanti
a un televisore?
Dubbio forse eccessivo, ma il tempo trascorreva, arrivavano nuovi
programmi, come Beatiful, una serie infinita di
puntate, di nessun interesse e che sembravano ideate come mezzo di compagnia.
Nel frattempo, un imprenditore lombardo, un palazzinaro, si affacciava su
questo mondo e, con abilità, ma anche con avidità, piano piano comprava tutte le
televisioni locali e irradiava i suoi programmi, di insostenibile leggerezza,
senza far pagare il canone, grazie agli introiti pubblicitari, che avevano
contagiato anche la TV
di stato e che piazzava ovunque.
Mi viene nostalgia a pensare ai Caroselli della mia giovinezza, dieci minuti di spot
prima del programma serale e che rappresentavano un antipasto, spesso anche
piacevole.
Ora invece la pubblicità interveniva nel corso di un film o di un
avvenimento sportivo, e spesso veniva ripetuta fin quasi allo sfinimento.
Cominciai così a chiudere gli occhi durante gli spot, ma in
effetti, secondo un altro senso, iniziai ad aprirli.
Mi venne il dubbio di essere un pollo da spennare, che
l'ossessione degli slogan nascondesse altre verità e così cominciai a nutrire
qualche sospetto sulla bontà di certe notizie durante i telegiornali.
Erano anni di piombo, con attentati e omicidi compiuti da brigate
rosse, oppure nere, componenti di un'unica strategia che i comunicati
televisivi sembravano ignorare, evidenziando invece una lotta fra opposti
estremismi.
I ministri e i parlamentari intervistati non chiarivano nulla e
parlavano e dicevano in pratica le stesse cose riportate dai telegiornali.
Aggiungo anche che nel silenzio più assoluto i programmi culturali
si ridussero enormemente, sostituiti da spettacoli per babbuini del tipo della
Fattoria o del Grande fratello.
Ci si avviava così verso un nuovo periodo “culturale”, cioè di
cultura moderna, secondo il titolo di uno spettacolo in voga, dove nulla
s'impara e tutto si disimpara.
Il linguaggio si rinnova, affossando la nostra bella lingua con
neologismi, inglesismi e gargarismi che alla fine ci si chiede se siamo ancora
in Italia o se nel frattempo il paese ha subito l'invasione di un'orda
barbarica che si esprime con grugniti e con frasi il cui senso è oscuro ai più.
Il politichese, quella non lingua, ha preso il sopravvento con discorsi
sconclusionati caratterizzati da banalità e luoghi comuni, infarciti sempre più
spesso da volgarità. Se questa è la nuova cultura, penso proprio che l'avvenire
sia a tinte fosche.
In questo baillame, lo spettatore piano piano diventa succube del mezzo televisivo, crede che sia
il solo che possa rivelargli la verità, insomma perde la sua capacità critica, quella
dote che dimostrava, anche fra persone poco alfabetizzate, quando negli anni
poveri del dopoguerra ci si sedeva fuori casa nelle afose sere d'estate,
ascoltando i vecchi che narravano il passato e facendo domande e muovendo
obiezioni.
Non è più così e se penso che questa lobotomizzazione
è iniziata nel gennaio del 1954 mi accorgo che per
molti gli anni sono trascorsi senza una crescita, ma con una progressiva
apatia, che condiziona, che fa accettare qualsiasi cosa.
Adesso abbiamo raggiunto l'optimum, o il peggio, a seconda dei
punti di vista, dell'asservimento del teleutente, con tutta la televisione
nelle mani del potere, con notizie taciute, con altre modificate e con altre
ancora inventate.
Nessuno più ricorda il passato, non solo quello più lontano, ma
anche quello del giorno prima, nessuno riesce più a riconoscere il falso dal
vero.
Cara televisione, sei sorta per questo o ti sei adattata a nuove
esigenze?
Ho detto basta, sono fallito come teleutente, preferisco leggere
un buon libro, cosa non facile a trovarsi oggi, visto che i grandi concorsi
letterari premiano i peggiori, quelli che non hanno nulla da dire perché non
hanno nulla dentro di loro. Comunque, se si cerca bene, ci sono ancora
scrittori che sono degni di chiamarsi tali, e non scribacchini.
Un'ultima cosa: perché fai pagare il canone? Sì, è una tassa, ma
questa prevede che ci sia un corrispettivo e non mi dirai che quello che offri
meriti un esborso di denaro, vero?
Ti saluto, anzi ti dico addio nel modo che più ti si adatta: un
bel “off” sul telecomando, un chiudi che vuol dire
riaprirsi alla vita e alla propria libertà.
Non ti rimpiango, stanne certa, anzi eventualmente mi compiango
per aver creduto in te per un certo periodo, un torpore da cui mi sono
risvegliato non da molto, ma, come si dice, meglio tardi che mai.