Da Hiroshima
a Fukushima
di Carlo Bordoni
Il terremoto dell'11 marzo in Giappone fa tornare con
agghiacciante attualità la paura nucleare. Proprio nel paese che ha conosciuto,
per primo, la capacità distruttiva della bomba atomica. L'incubo ora è la
fusione del nucleo della centrale di Fukushima, la più danneggiata dal sisma.
Una volta perso il controllo da parte dell'uomo, il nucleare può produrre un
disastro di proporzioni immani.
L'uomo non si accontenta di trovare giustificazioni plausibili
alle catastrofi naturali. Fa di più. Provoca catastrofi artificiali, più disastrose
di quelle naturali. Da Hiroshima e Nagasaki, dove sono state sganciate le prime
bombe atomiche nel 1945, in
poi.
Già Voltaire, nel suo Poème
sur le désastre de Lisbonne aveva provato a sollevare l'uomo dalle
responsabilità delle catastrofi, attribuendole non al caso, ma a un disegno
superiore, perché il bene e il male sono parti inscindibili del mondo e
parimenti necessarie. Si tratta di un ragionamento secondo il
quale le catastrofi naturali sarebbero inviate dalla divinità per punire gli
uomini per i loro peccati, ma non spiega il sacrificio degli innocenti,
accomunati nel medesimo destino assieme ai malvagi: una distinzione morale
assai discutibile: qualcuno potrebbe obiettare che non esistono “innocenti” in
senso assoluto, e che lo sguardo divino sa spingersi oltre nel tempo, oppure,
al contrario, che nessuno è “colpevole”. Imputare al divino la
responsabilità di una catastrofe significa comprenderla come realtà necessaria
alla logica dell'esistenza sulla terra, e sopratutto escludere il presupposto
della “responsabilità” umana.
Ciò che non è imputabile al divino sono le catastrofi prodotte
dall'uomo che, con palese ipocrisia, si definiscono “morali”, tra le quali si collocano i disastri colposi, altrettanto
imprevedibili, come quello di Viareggio del 29 giugno 2009, o di Chernobyl
dell'aprile 1986, che coinvolgono la tecnologia impiantata dall'uomo, ma che si
presentano sotto la veste di un accadimento accidentale, il cui rischio di
avverarsi è talmente basso da non essere preso in considerazione. Si definisce
allora una “fatalità”, rendendola assimilabile a un fatto naturale. Perché il
caso, quando sono state osservate tutte le prescrizioni previste dai protocolli
della sicurezza – e, soprattutto, quando non c'è dolo – non può che essere
ricondotto tra gli eventi “naturali” ineluttabili.
Avrà ragione Susan Neimann a individuare nel pensiero occidentale
un qualche regresso, osservando come oggi si tenda, più che in passato, a
imputare alla natura gran parte delle responsabilità per ciò che accade nel
mondo e che non riusciamo a impedire. Una probabile conseguenza della forzata
convivenza con la paura e della sua accettazione. Il che ci porta a riflettere
che quando accadono eventi di una portata ben superiore alla comprensione
umana, siano essi determinati dalla malvagità degli
uomini, dall'errore colposo o da cause naturali, c'è la tendenza a
raccogliergli tutti sotto la comune categoria del “destino” o della “fatalità”:
che ci sia o meno, dietro tutto questo, un dio crudele e vendicativo, una
divinità complessa che distribuisce bene e male secondo una ricetta ponderata,
oppure un disegno casuale che colpisce senza senso, mietendo vittime innocenti
assieme ai colpevoli, non ha importanza. L'importante è rimuovere la paura
irrazionale e ricondurla a una forma conosciuta. Da una parte si giustificano
le catastrofi naturali, imputandole a una volontà superiore che, a differenza
dell'uomo, ne conosce le ragioni; dall'altra si riducono le catastrofi umane al
rango di quelle naturali, per sottrarsi all'orrore e all'incredulità straziante
del male. Così il cerchio si chiude in una perfetta simmetria.
Da Agenzia Abruzzopress del 7 aprile 2011