Rinascere nei figli
di Ferdinando Camon
"Avvenire 29 ottobre 2010
Una madre italiana, divorziata da un tedesco, s'è presa di nascosto i due figli
in Germania e li ha portati in Italia, e adesso viene accusata dalla Giustizia
tedesca di “sottrazione di minori”. Un fax dalla Germania ha chiesto e ottenuto
il suo arresto. La Giustizia tedesca fa uso di una legge che risale nientemeno
che a Himmler, e in queste controversie internazionali privilegia la germanicità. Perciò
questo è un caso complicato, ricco di elementi che lo differenziano dal caso
tipico, ed è del caso tipico che qui vorremmo parlare: madre o padre separato,
che perde i figli, e non ce la fa a vivere senza; che valore hanno i figli,
durante il matrimonio e dopo la separazione; cosa siano la paternità e la
maternità, se si possa fare il padre o la madre vedendo i figli saltuariamente
invece che sempre.
No, non si può. La paternità o maternità sono presenza. Non sono saluto,
denaro, telefonata: sono presenza. Non sono un contatto intenso (un viaggio, un
film, una vacanza…), seguito da un lungo periodo senza contatti. Non sono la
predica, seguita da lungo silenzio. Sono colloquio quotidiano. Dialogo.
Accompagnamento. Già la nostra civiltà è tale che anche quando il padre vive in
casa, in realtà non parla molto con i figli, non scende nei loro problemi, non
li guida. Ma c'è, è lì, lo vedono, e incamerano la sua figura tra le figure
interiori che li comandano. Se non c'è, se vive lontano per conto suo, al posto
di quella figura c'è il vuoto, nel mondo interiore dei bambini. Le figure
interiori di padre e madre sono così potenti, che se poi il ragazzo, cresciuto,
va in analisi, scopre che gran parte dei suoi sogni sognano il padre e la
madre, sono quelle le figure che hanno impiantato il suo essere, che lo hanno
fondato. In questo trapiantarsi nei figli c'è per i genitori la coscienza di
una continuità dopo la
morte. Posso dire: “Dell'immortalità”? Ci terrei tanto a
dirlo, a usare questo termine. Lo ritengo una parola-chiave dell'inconscio
umano. L'uomo vuole non-morire. Ha il terrore della fine e del niente. È per
questo che fa i figli. Il verso “morire senza figli vuol dire morire veramente”
è nei “Sette a Tebe” di Eschilo, e spiega che ”far figli è un modo per non
morire”. I figli ti continuano. E allora, cosa ti toglie, il tribunale che ti
toglie i figli e li dà all'altro genitore? Ti toglie “l'immortalità”. Che non
significa “ti fa morire”, ma “ti fa morire per sempre”. In Eschilo, “non fare
figli” era un ordine del dio, ma l'uomo che riceve quell'ordine non vuole
morire per sempre e allora fa un figlio, e da qui comincia l'interminabile
lotta tra la sua stirpe e il dio. Il coniuge di oggi, quando gli vengono tolti
i figli, patisce lo stesso trauma: si sente ucciso per sempre. Questo spiega le
infinite lotte e astuzie che la signora italiana, protagonista del caso che sta
sui giornali, adopera per recuperare i figli e portarli via con sé. La norma
che viene usata contro di lei, e che risale a Himmler, impone il trionfo della
germanicità sulla maternità: psicologicamente, un assurdo. Vorrei, se mi
è permesso, citare una piccola esperienza personale, sui figli come
immortalità. Ho l'abitudine, quando leggo un libro, di tracciare dei segni a
matita, sul bordo della pagina: segni diversi, a seconda che mi prema
evidenziare una frase bella, o sapiente, o esteticamente felice, o da meditare.
Ebbene, mi càpita a volte di prendere in mano un libro e di trovarci quei
segni: ma quel libro io non l'ho mai letto. Chi ha fatto quei segni? Un mio figlio,
che non ha copiato da me, ma ha inventato autonomamente lo stesso sistema di
segnare i libri. È come se un altro-io leggesse i libri che io non leggo.
Faccio un passo avanti: è la prova che un altro-io leggerà i libri che io non
leggerò, quando non ci sarò più. C'è qualcosa di consolatorio in questo. C'è
qualcosa di disperante nelle condizioni in cui questo non è possibile.
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