Lettera
124
Luglio
2007
di Ettore Masina
La
lingua dei vincitori
1
Dal suo letto d'ospedale,
una mattina del febbraio 1975, Gigi Ghirotti vide che
nella notte era completamente fiorito un albero che egli aveva adottato come
amico. Quel tripudio di colori in un inverno non ancora concluso
lo estasiò: lui, uno dei migliori giornalisti italiani, stava morendo, di
cancro, ma quella mattina sentì che la sua vicenda, incomprensibile e dolorosa,
era inserita nel mistero di una vita che ostinatamente si esprime oltre ogni
limite. Forse pensò al verso di Quasimodo in cui Dio viene
chiamato “Dio del cancro e Dio del fiore rosso”, certo, come narrò egli stesso,
desiderò di poter cantare l'immensità e la forza del processo creativo. Dai
ricordi dell'adolescenza sentì emergere la bellezza di un inno latino
medievale, il “Veni, Creator Spiritus (Vieni, o
Spirito Creatore)”, e si accinse a recitarlo accanto a
quella finestra; ma tristemente si accorse di non ricordarne più le parole.
Gigi poteva ancora scendere dal letto e lo fece; e cominciò a domandare a
pazienti, medici, suore e visitatori se qualcuno di loro poteva aiutarlo, ma
tutti, un po' sorpresi, scuotevano la testa. Soltanto a fine mattina incontrò
un seminarista americano, studente a Roma, che visitava i malati per non
dimenticare le sofferenze dell'uomo. Alla domanda del giornalista sorrise e
disse che sì, quell'inno lui lo aveva studiato a memoria, in ginnasio e, sì, lo
ricordava ancora; ma aggiunse, arrossendo un poco, che non ne comprendeva più
il significato: la sua conoscenza del latino era ormai svanita. Allora,
insieme, l'uomo che comprendeva la sostanza del messaggio
ma non poteva leggerlo nella sua autenticità e quello che ne conosceva soltanto
la formulazione pregarono, quasi aiutandosi l'un l'altro a decifrare un antico
manoscritto.
2
Ho
ripensato a quest'episodio quando ho letto il motu
proprio con il quale Benedetto XVI concede, di fatto, a chi vuole, il
diritto (non il permesso) di celebrare la Messa secondo il rito di Pio V, in
vigore dal 1570 sino alla riforma liturgica del 1963. E ho pensato che sarebbe
bello che i nostalgici del latino e coloro che vivono
il vangelo senza avere una cultura classica si aiutassero fra loro per una
maggiore pienezza di vita ecclesiale; ma so bene, purtroppo, che non a questo
provvede il documento papale; e so anche meglio perché e per chi
papa Ratzinger ha sancito il diritto a celebrare la Messa pre-conciliare.
Questo “perchè” e questo “per chi” stanno
non già nel fatto che vi sono persone le quali vedono nel latino una lingua
tradizionalmente “cattolica”, segno di unità fra i credenti di tutte le
nazioni, ma nel fatto che alcune centinaia di migliaia di individui (dunque una
men che minima parte di quel miliardo e 200 milioni
di persone che gli statistici calcolano battezzate nella Chiesa cattolica) dietro
questo sentimento mascherano (ma neppure troppo) l'odio per la primavera
conciliare e il desiderio di perpetuare una serie di privilegi personali e di
classe. E' un vecchio clericalismo quello cui Benedetto XVI concede ora la
vittoria: il clericalismo del prete solo all'altare, avanti a tutti come un
generale, intento a pronunziare formule incomprensibili a chi lo ascolta (e
dunque magiche) in una lingua che soltanto pochi “signori” conoscono; e in
quella lingua misteriosa proclama persino le Scritture rendendole messaggio castale; un celebrante separato,
nelle antiche basiliche, da un'area vuota e soprelevata chiamata presbiterio:
la quale sembra oggi, dove non è stata “corretta”, una profonda ferita inferta
all'unità dell'assemblea eucaristica. E la messa, “quella” messa, è infatti legata al singolo sacerdote, per cui la stessa idea
di “concelebrazione” appare negata, con risultati che oggi appaiono persino
comici. Ricordo la chiesa di un collegio straniero a Roma, visitata prima del
Concilio: una grande sala circolare con una dozzina di cappelle laterali, in
ciascuna delle quali un prete celebrava la “sua” messa mentre due poveri
chierichetti si affannavano a correre dall'uno all'altro altare, qui porgendo
ampolline e là rialzando pianete, a pochi metri di distanza scampanellando per
annunziare la Consacrazione o recitando ad alta voce il confiteor... .
Era,
quella di Pio V, una Messa resa affascinante nella solennità delle cattedrali,
dallo sfolgorio di paramenti, dalla virtuosità di superbi cori, di musiche
sconvolgenti (non sempre il gregoriano, anzi, ben più spesso, il barocco del
dopo-Riforma); spettacolo talvolta indimenticabile nella sua teatralità ma sempredifficile da seguire con la preghiera; e ridotto
spesso, nella pratica feriale delle più modeste parrocchie, a una sorta di borbottìo di un prete raggelato dalla sua anche simbolica
solitudine. I fedeli, del resto venivano esortati ad
“assistere “ alla Messa ed era normale sentirli dire: “Ho preso la Messa”, come
qualcosa che era soltanto dono da ricevere e non atto consapevole.
3
Ma c'è anche di peggio ed è
la composizione “sociale” dei gruppi cui Benedetto XVI ha steso la sua mano improvvisamente prodiga. Per quarant'anni Lèfebvre e i suoi fedelissimi hanno apertamente e
fieramente avversato i documenti (e più lo spirito) del Concilio (che, non lo si dimentichi, è lamassima
espressione ecclesiale: i vescovi di tutta la Terra riuniti intorno al Papa),
Attribuendo all'assise ecumenica le cause dello sfacelo del mondo e della
Chiesa, i lefebvriani sono contro la libertà
religiosa, contro l'ecumenismo, contro la democrazia, contro lo Stato di
diritto, contro la laicità dello Stato e perciò hanno offerto e offrono una
sponda religiosa alle peggiori formazioni politiche del nostro tempo.
Basterebbe ricordare un altro vescovo che fu accanto al francese, il brasiliano
Proença Sigaud: fondatore
di un'associazione chiamata “Tradi-zione, Famiglia, Proprietà”, di fatto una
specie di cappellania per latifondisti persecutori dei poveri e per generali
delle dittature latino-americane. Non per niente i lefebvriani
celebrano Pio V come il Santo della vittoria dei cristiani sull'Islam, quella
battaglia di Lepanto che secondo loro andrebbe ripresa, non soltanto contro i
musulmani ma contro tutto il mondo moderno. Per loro il latino è la lingua dei
vincitori.
4
Raggelanti mi paiono anche
le motivazioni portate da papa Ratzinger sulla sua decisione, notoriamente in
contrasto con il parere della maggior parte dell'episcopato. La sua decisione
sarebbe nata, egli dice, dalla preoccupazione per un eccesso di creatività
(disordinata) da parte dei fedeli conciliari e dalla sofferenza che da esso
scaturirebbe per molti, anche giovani, che hanno imparato ad amare i sacri
misteri nella celebrazione che ne fa la liturgia tridentina. Argomento, a me
pare, stupefacente: invece di invitare queste brave persone, questa èlite tanto
sensibile a partecipare attivamente alla elaborazione
di una liturgia più fedele ai dettami e allo spirito della riflessione del
Concilio, si concede loro di mantenersi in una bolla di vetro, al riparo dei
rischi della testimonianza cristiana nella storia, cioè a non tenere conto
della riforma varata dall'insieme dei vescovi convocati da due pontefici. Per
non tradire la riforma gli si concede di ignorarla!
La seconda motivazione del motu proprio papale è quello della
volontà di riconciliazione nella Chiesa. Ora a me sembra che vi sia qui
un'altra prova della cultura eurocentrica e classicheggiante dell'attuale
pontefice e della sua scarsa, scarsissima e solo libresca conoscenza del mondo
d'oggi. Gli pare doloroso (ed è ben giusto che così sia) uno scisma, anche se
fortunatamente limitato nelle sue dimensioni perché coinvolge borghesi laureati
francesi, svizzeri e italiani, e cerca di ricondurlo nell'alveo dell'ortodossia,
ma sembra del tutto inconsapevole della sofferenza di
grandi masse di povera gente prodotta da certe sue scelte prudenziali. Non ha
detto, in occasione del tristissimo viaggio in Brasile, che la beatificazione
di monsignor Romero sollecitata da milioni di campesinos, è rinviata a chissà quando per ragioni di
opportunità? Queste opportunità sembrano esistere soltanto ai margini delle
favelas o dei laboratori teologici segnati dal sangue dei nuovi martiri, come
quello di Sobrino; e intanto in tutto il cosiddetto
Terzo Mondo continua, e si ingrossa, l'esodo da una
Chiesa che sembra incom-prensibile e incapace di comprendere.
Non basta
moltiplicare, secondo una recente ripresa dello stile di Giovanni Paolo II, la
santificazione di preti e di suore d'antico stampo, né calcolare con la
bilancia dei cortigiani le folle che si addensano in piazza San Pietro: la
Chiesa di Cristo o è speranza alta, forza rinnovatrice della storia dei poveri,
o continua a parlare la lingua dei vincitori.
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