La
crisi durerà un decennio
di Ferdinando Camon
Quotidiani
locali del Gruppo "Espresso-Repubblica" 11 maggio 2012
Chi dice che stiamo uscendo dalla crisi vuol lanciare
un messaggio incoraggiante: fa parte dell'arte di governare. Lo fa Monti, lo faceva Tremonti. Ma
non è vero. Dopo ogni meeting europeo, Tremonti tornava per dirci che “noi non
facciamo parte del problema, ma della soluzione del problema”:
falso, eravamo il problema, come e più di tanti altri. Ad
ogni manovra finanziaria, Tremonti e Berlusconi dichiaravano che quell'anno
avremmo pagato meno tasse dell'anno precedente: poi ci mettevamo a compilare la
dichiarazione dei redditi, e ogni anno scoprivamo che pagavamo di più. Anche
quest'anno. Gli annunci (falsi) che stiamo uscendo dalla crisi, contrastano con
le notizie (vere) dei suicidi: si ammazzano dipendenti che perdono il posto,
padroncini che chiudono l'azienda, imprenditori che non reggono lo strazio di
licenziare operai a cui son legati come a figli. Il
suicidio è un gesto disperato, ma non è il grado estremo della pericolosità
sociale. Il grado estremo è l'omicidio. Per fortuna non ci siamo arrivati, e speriamo
di non arrivarci mai. Un grande scrittore italiano,
che ragionava sul suicidio e aveva deciso di suicidarsi, Cesare Pavese, annotò:
“Il suicidio è un omicidio timido”. La nostra speranza è doppia: che non si
arrivi mai all'“omicidio coraggioso”, e che si abbandoni anche “l'omicidio
timido”. Tutti i lavoratori in crisi meritano di vivere, sono la parte migliore
della società, la più sensibile, la più sofferente. Il braccio fiscale dello
Stato ha un modo perentorio e imperativo di esigere i pagamenti, come se
incarnasse la parte buona di fronte alla parte
cattiva. Ma uno Stato che continua a non trovare gli evasori, o che se li trova
li condona, o se trova i loro capitali in altri Stati
si comporta di fatto perdonandoli, come non fanno né Germania né Francia, è uno
Stato in colpa. E questa è una delle ragioni per cui non stiamo uscendo dalla
crisi. Sull'“uscire dalla crisi” bisogna intendersi. È sbagliato intenderlo
come un ritorno a com'eravamo prima che la crisi scoppiasse. Quel passato era
carico di errori, privilegi e illegalità che sono stati la fonte della crisi, e
finché non vengono eliminati continuano ad
alimentarla. Corruzione dei partiti, evasione di aziende leader, esportazione
clandestina di somme ingenti, assenza di meritocrazia, una legge elettorale
incostituzionale, una giustizia lenta e ambigua, una criminalità che a parole vien sterminata ogni giorno ma in realtà sale ogni giorno
dal Sud al Nord, una classe docente frustrata e malpagata, scuole arretrate,
università perdenti in Europa, Rai lottizzata, culto del successo a qualunque
costo, interesse del privato al di sopra dell'interesse dello Stato, perdita
del senso del dovere nelle professioni, anche in quelle sanitarie, doppi e
tripli incarichi, stipendi mastodontici e stipendi da fame, pensioni vergognose
per l'importo stratosferico e pensioni vergognose per la fame a cui
costringono, e via elencando, è quel passato la causa della crisi, e la
permanenza di quel passato è la causa per cui non riusciamo a uscirne. Occorre una nuova cultura e una nuova etica sociale. Non
sappiamo premiare chi merita (si è svolto un convegno Acli a Roma, dove si è
sostenuta questa tesi) e non sappiamo punire chi va punito.
Questa seconda incapacità è più grave della prima, perché un popolo che deve
sacrificarsi ha bisogno di vedere che chi sgarra viene
sanzionato, e cioè che lo Stato è giusto e forte. Invece c'è in gran parte
degli italiani la visione che lo Stato è messo male, ma non fa niente per
mettersi meglio. Un giornale ha lanciato un nuovo slogan: “Casta
non mangia casta”: è questa l'opinione della gente. L'“Espresso” on-line
ha messo in Internet la previsione che l'uscita dalla crisi non richiederà un
anno o due, ma un decennio. Carlo Debenedetti lo ha
ribadito in un'intervista sul ”Corriere”: la crisi durerà almeno un decennio, e
ne usciremo molto più poveri. È plausibile. Ma un decennio a
partire da quando? Da quando comincia la grande riforma della società. E
da noi non è ancora cominciata.
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