La
leggenda del martin pescatore
(liberamente
tratta da Le Metamorfosi di Ovidio)
di
Piero Colonna Romano
Ceìce
e Alcione vissero l' amore,
felici i loro giorni
trascorrevano,
baci e carezze ardenti si donavano,
eran
delizie che fermavan l'ore.
Miele era dunque quel sentir
maturo,
canto soave che in ciel li portava,
ma il figlio di
Lucifero voleva
del loro andar conoscere il futuro.
Per
mare da un veggente si recava,
malgrado il cuor presago della
moglie
che triste in grandi pianti si discioglie
mentre ei
tenace con la nave andava.
Della figlia di Eolo i
timori
si realizzaron nei più cupi modi:
il vento in
quelle vele scioglie i nodi
e sconvolge la nave dentro e
fuori.
Barriere d'acque e gorghi spaventosi
inghiotton
marinai assieme al legno;
nell'affogar Ceìce chiede
impegno
a dei che il corpo con Alcion riposi.
Ma i
forti lai di quella e la preghiera
stizziscono Giunon che irata
invia
Morfeo per narrar dell'agonia
a chi si tormentava
giorno e sera.
Per questo il dio del sonno si trasforma
in
orrida figura d'annegato,
grondante appare a lei che ha
disperato
di festeggiare lieta quei che torna.
E'
chiaro quel messaggio ed angosciata
la donna allora corre verso
il mare,
cercando là chi non può più
tornare
e vede al largo salma abbandonata.
Urla la
sposa "io non son più io
ma sono morta ed or Ceìce
sono,
vissi per lui e a lui chiedo perdono,
così
come lo chiedo al sommo dio".
Afflitta Alcione corre
verso l'acqua,
Giove clemente quell'andare muta
in volo e
lei in uccello il che l'aiuta
a giunger su quel corpo che il mar
sciacqua.
Dal becco piovon baci su Ceìce
che
par destarsi e pare alzar la testa,
ma alato pure lui di già
si desta
e assieme vanno in ciel che fa cornice.
Poi
i bei color dell'alba e del tramonto
ricopron l'ali e pure il
corpo tutto;
martin son fatti pescatori e il lutto
diviene
eterno amor senza confronto.
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