LA
MORTE DELL'AMORE
di Antonello Bianchi
Lento
il corteo funebre
proseguiva lentamente la marcia
come a non risvegliare il cadavere
coi troppi scossoni.
I presenti seguivano senza pregare
sbirciando di tanto in tanto
a cercare la cassa
a notar la fattura e la spesa
curiosi di ciance,
fonte dei mormorii:
“…oggi si chiude il manicomio,
oggi si aprono le carceri...”
Il carro precedeva,
con gl'autisti cinici e annoiati,
mentre Cupido in fondo alla coda
si dimenava in capricci.
Il tempo della santa messa di saluto
e poi di nuovo in spalla
a muovere quella scatola di bara
verso il camposanto
dove solcata era già la fossa.
Si sussurrava:
“Forse l'unico erede,
forse l'unico orfano”.
Il lutto sembrava essere infatti
esclusiva afflizione di un tale
che, solo, di lato,
si trascinava innanzi.
“L'amore è morto”. Ripeteva.
E faceva tristezza a vederlo.
“L'amore è finito”. Singhiozzava.
E faceva tenerezza.
Il prete, allora,
commosso davanti al catafalco
cercò parole di conforto
ma senza la sua consolazione.
Tanti ebbero compassione di quel poveretto
che, venuto da lontano, logorato dal dolore
si reggeva a malapena in piedi.
Ma solo una donna si avvicinò a lui
prese la sua mano
e gli baciò la fronte
con fare materno e lascivo.
Lui allora si fece forza
e recuperò la postura
riprese a camminare
sostenuto a fianco
dall'Angelo suo del Sollievo.
Le fiammelle dei ceri
si piegavano
al vento primaverile
e il cielo si scurì,
giunta l'ora di riposare in pace.
“Padre, perché mi hai abbandonato?”
urlava l'uomo
senza corone di spine,
trafitto al costato.
Tutto intorno silenzio.
L'ultimo pugno di terra
fu coperto dai fiori della mestizia
e dalla voce sgraziata delle cornacchie.
"L'amore è finito"
ripeteva l'uomo con Lei accanto,
mentre Cupido in fondo alla coda
insisteva col fare bizzarro.