Terra di mezzo – monologo
di Ivan Fedeli
Ma nascerci così, per
discendenza
di cuori e di sapori in questa terra
di mezzo, e non si sa se rimanere
o andare, lungo i viali che stazionano
tra largo Marcantoni e il Sabotino.
E le panchine stanno
lì, ristrette
nel legno inospitale di altri giorni.
Sapersi, poi
incontrarsi, stare al gioco
in una zona dove spira forte il vento
e ti separa un po' dal sole.
Intanto passa un treno,
l'oleandro
reclama qualche sguardo vista mare,
inutile tentare di intuire
la voce che ti chiama e fugge altrove.
Ci sono stati proprio
tutti i nomi.
ed altro scivolando è già passato,
poi un'epoca latente, quasi a caso
nel suo procedere avanzando a scatti,
senza peccato. È vergine pensarsi
accolti in braccia afose, come un pezzo
di silenzio finito in qualche assenza,
tra case cantoniere e altri palazzi,
nel limite indeciso che è dei tetti.
Accogliersi così, per
permanenza
di facce fatte uguali nelle rughe,
ciascuna e la sua bocca a rimanenza,
la luce dello sguardo a darsi in fretta
cercando chi lo coglie e lo rimpiazza.
Si resta in giorni
della stessa razza,
contarli per dovere ai calendari
uguale già la somma, la deriva
dei passi per carpire cosa è vero,
se trovi nella corsa dei binari
un alito di vita per regalo.
È l'ora del diretto
delle sette,
ritarda e tu lo sai che è come sempre
ma è bello poi così, sentirsi niente,
sospesi in una traccia di orizzonte.
Il fronte forse è
questo: scivolare
nella pazienza docile del tempo,
in cerca di un parcheggio, al proprio posto,
un attimo e non essere più visto,
che sale l'onda lunga della sera
tra rondini esiliate e la preghiera
che tutto sia lì uguale per dovere
di chiedere un domani rimanente,
importa stare a galla, un po' smicciare
la falla minacciosa del presente.
(da Inventario
della specie opaca – LietoColle 2007)