Uno sguardo oltre la
finestra
Ogni giorno che passava la vita gli diventava sempre più difficile.
Alberto, dopo aver smesso di fare il boscaiolo, aveva lavorato sempre alla
catena di montaggio faticando non poco per via della sua invalidità.
A dire il vero le dita anchilosate della mano non se l'era causate in seguito
ad un infortunio sul lavoro, ma gli erano state procurate molti anni indietro,
nel corso dell'ultima guerra, in conseguenza della sua passata attività di
antifascista.
In fabbrica, nonostante avesse diritto ad un posto meno faticoso, scelse di
lavorare alla catena di montaggio, vicino ai suoi compagni di lavoro, visto che
il compito che doveva svolgere poteva eseguirlo lo stesso nonostante le mani
rovinate.
Il guardiano, proprio, non se lo sentiva di farlo. Gli sembrava di dover
svolgere un ruolo di controllo dei suoi compagni di lavoro ed immaginarsi che
qualcuno avesse potuto appioppargli l'epiteto di spia proprio non gli andava
giù.
Così con grande spirito di sacrificio, ma con grande ammirazione da parte degli
altri addetti alla catena, aveva voluto fare lo stesso lavoro degli altri.
Al cambio di stagione, però, avvertiva tutti i dolori di questo mondo e sovente
era costretto a restare a casa in mutua, e questo non gli andava proprio giù.
"Non ti preoccupare - si sentiva ripetere da diversi colleghi che andavano
a fargli visita - l'azienda è grande ed una persona in più o in meno nessuno se
ne accorge. Ma a lui non gli andava di mangiare a
sbafo. Da vecchio compagno stalinista soleva sempre rispondere: "chi non lavora non mangia"; e ce la metteva tutta ad
andare a lavorare quando altri sarebbero rimasti a casa per molto meno.
Ma quel giorno se fosse rimasto a casa forse sarebbe stato meglio. La mano gli
faceva troppo male: non era concentrato ed in un attimo la pressa fece il
resto.
Con la mano maciullata fu portato rapidamente in ospedale e si avviò una impossibile ricostruzione di un arto che già aveva
subito in passato altre mutilazioni.
L'avevano sistemato da solo in una stanza bianca con una finestra dalla quale
vedeva la montagna. Era il minimo che si potesse fare
per un ex-partigiano insignito con la medaglia d'oro della Resistenza.
La solitudine ed i boschi che intravedeva in lontananza gli riportarono ricordi
lontani e tutta la sua vita cominciò a scorrere come su uno schermo.
Ogni tanto si appisolava, ma il dolore improvviso che l'incidente gli aveva
procurato lo svegliava di soprassalto e provava un senso di paura e ti terrore
accorgendosi di non essere a casa sua.
Il pensiero andava all'ultimo rastrellamento eseguito dai nazi-fascisti
sull'Appennino tosco-emiliano. L'avevano beccato come un merlo
mentre si dissetava ad una fonte dopo essere riuscito, insieme ad altri
compagni, a liberare una diecina di ebrei che erano stati rinchiusi in una
scuola in disuso in attesa di essere trasferiti nei campi di sterminio in
Germania.
Inutilmente cercò di dimostrare di essere un boscaiolo, esibendo un certificato
fittizio di lavoro. Fu tutto inutile perché un fascista locale l'aveva riconosciuto
e per lui era iniziato il calvario.
Quasi subito fu sottoposto ad uno stringente interrogatorio teso ad estorcergli
la località dove gli altri suoi compagni erano riparati. Chiaramente Alberto
non era disposto a tradire e dovette subire una serie di pestaggi bestiali che
gli fecero perdere i sensi.
Si era risvegliato in una stanzetta di tre metri per tre. Appena riusciva a
muoversi. Sanguinava abbondantemente dalla bocca, dal naso, dalla testa.
L'odore del sangue lo stordiva. Ad ogni movimento avvertiva dolori lancinanti
in tutto il corpo e poi aveva sete, tanta sete, ed un languore tremendo allo
stomaco. Aveva perso la nozione del tempo. Sentiva solo le conversazioni nelle
stanze vicine tra i tedeschi ed i fascisti. Conversazioni miste ad imprecazioni
e a perentori ordini.
Anche per i fascisti non doveva essere un bel momento. Abituati come erano con
la loro arroganza e prepotenza ad infierire su chi non la pensava come loro
doveva essere non facile dover subire l'umiliante strafottenza e gli insulti
dei tedeschi circa la inettitudine dei soldati
italiani.
Alberto aveva già compiuto numerose operazioni. Tre quattro volte si erano
concluse con la liberazione di altri ebrei o antifascisti destinati ai campi di
concentramento, ma molte altre volte con l'assalto
alle caserme dei carabinieri o a presidi di nazi-fascisti,
sparsi alle pendici dell'Appennino, con lo scopo di recuperare armi e munizioni
e spesso anche generi alimentari.
Scatolette e gallette erano le derrate più ambite. Non pesavano molto e potevano
conservarsi a lungo anche celati in nascondigli
attrezzati che solo Alberto e compagni sapevano al momento opportuno trovare.
Si muoveva con facilità in quei luoghi. Lui era davvero un boscaiolo e della
montagna conosceva asperità e sentieri e sapeva come dileguarsi facendo sparire
anche le tracce del suo passaggio .
Ma quella volta gli era andata male. Quella sosta gli era stata fatale e per
giunta aveva perso un po' di tempo per darsi una rinfrescata. Era convinto che
i nazisti non sarebbero stati in grado di organizzare il rastrellamento in
tempi così rapidi. Ma aveva fatto i conti senza considerare che qualche
fascista locale poteva anche lui essere un buon
conoscitore della montagna e dei suoi sentieri e questa leggerezza gli era
costata molto cara. I suoi compagni, pur essi assetati, avevano preferito
proseguire e si erano salvati.
La stanza si illuminò d'un tratto di una luce intensa.
Aveva gli occhi gonfi e quella luce lo tormentava. Non riusciva a vedere chi avesse intorno ma chiaramente capiva che era circondato da
tedeschi e diversi sicuramente dei reparti speciali: le famigerate SS.
Aveva già messo in conto che da quella stanza non sarebbe uscito vivo ed il
pensiero era corso alle discussioni che spesso si svolgevano tra i compagni
prima di ogni operazione.
In caso di cattura di qualche compagno occorreva resistere alle torture per
qualche ora. Il tempo necessario per consentire al gruppo di disperdersi e
cambiare località. Se un compagno non si ricongiungeva al gruppo nel giro di
mezzora era segno evidente che qualcosa era andato male e bisognava disperdersi
per non rischiare di restare intrappolati.
Quindi, sapeva che avrebbe dovuto tacere, ma comprendeva anche che il dolore
fisico a volte diventa insopportabile e la tentazione
di parlare possibile.
Ma in lui era forte anche il ricordo dei tanti partigiani catturati che erano
stati poi impiccati sulle piazze dei paesi e che presentavano evidenti i segni
delle torture subite. Questo gli faceva capire che, comunque, la sua fine ormai
era segnata.
"Morire per morire - pensava - tanto vale la spesa provare a
resistere".
E questo era anche il sistema migliore per garantire ai compagni di
allontanarsi il più possibile.
Gli fu portata dell'acqua, lo fecero bere, lo fecero lavare. Un ufficiale nazista
cercò di convincerlo a parlare. Aveva portato una carta topografica della zona, ma Alberto aveva gli occhi troppo gonfi e non riusciva
a vedere. Cercò di spiegare queste cose intercalando qualche espressione in
tedesco e l'ufficiale diede alcuni ordini perentori che Alberto non riuscì a
capire e dopo tutti uscirono dalla stanza lasciandolo
nuovamente solo.
Era contento: pensava che forse lo stratagemma stava funzionando. Intanto i
suoi compagni potevano essere già in salvo ed anche se l'avessero maciullato a
quel punto era contento di aver salvato la vita agli altri.
Un paio d'ore più tardi un ufficiale medico entrò nella stanza e cominciò a
curarlo. Le ferite furono ripulite e collirio e pomate cercarono di rimediare i
danni che le botte avevano causato agli occhi.
Gli portarono anche una tazza di minestra che Alberto riuscì a bere perché a
masticare non ne avrebbe avuto la forza per via del forte dolore che provava
ogni volta che muoveva la mandibola. Ma la fame era troppa ed in qualche modo
bisognava fermare i crampi allo stomaco che lo tormentavano.
Un paio di giorni dopo, si era alquanto ripreso. Lo prelevarono per trasferirlo
in un'altra località. Riconobbe il paese perché l'appartamento in cui era stato
condotto era proprio sopra un bar che ogni tanto frequentava nei periodi di
riposo dalla sua attività di boscaiolo.
Fu certo che il titolare che era sulla porta l'avesse riconosciuto, ma questi
fu subito allontanato con grida imperiose da parte dei soldati tedeschi.
L'interrogatorio riprese qualche ora dopo. Prima i tedeschi si dimostrarono
gentili rassicurando Alberto che se avesse indicato i rifugi dei ribelli sulla
montagna l'avrebbero liberato.
Ma di fronte alla indeterminazione ed alla reticenza dimostrata da Alberto che
asseriva di non conoscere quella località l'atteggiamento di chi poneva le
domande cambiò radicalmente e quasi subito le violenze ripresero in modo sempre
più inaudito.
Dopo circa due ore era nuovamente irriconoscibile. Aveva perso i sensi più
volte, ma l'avevano sempre rianimato intercalando momenti di gentilezza a nuovi
soprusi. La mano destra era ormai una poltiglia informe.
La sinistra era stata torturata in modo selvaggio. Non riusciva più a restare
seduto e scivolava in continuazione sul pavimento e la sofferenza che provava quando lo tiravano su per continuare
l'interrogatorio era immensa.
Il gerarca fascista che assisteva all'interrogatorio non aveva partecipato al
massacro. Alla fine però era intervenuto minacciando di coinvolgere i suoi
familiari.
"Sappiamo dove abiti e conosciamo la tua famiglia - aveva aggiunto - cerca
di evitare delle sofferenze ai tuoi cari"
E per rendere credibile la minaccia si era rivolto ad un subalterno ordinandogli andare a prendere il padre.
Alberto, a questo punto, aveva compreso che non c'era
più nulla da fare. Voleva assolutamente evitare le stesse sofferenze anche alla
sua famiglia e soprattutto non voleva che suo padre l'avesse visto in quelle
condizioni.
Era sul punto di parlare e svelare tutto quello che sapeva.
Ma in quel momento si avvertirono all'esterno dell'edificio una serie di
esplosioni ed alcune scariche di mitra spappolarono le persiane
dell'appartamento.
Urla indistinte arrivavano da ogni parte accompagnate da esplosioni di armi da
fuoco e da urla lancinanti di moribondi.
Perse i sensi. Si risvegliò alcuni giorni dopo in un letto d'ospedale
circondato da un gruppetto di partigiani armati fino ai denti.
"Forza Alberto, resisti - si sentì dire - sei al sicuro. Gli alleati
stanno risalendo l'Italia. Ti abbiamo portato nella zona già liberata. Le tue
sofferenze sono finite"
Alberto non credeva di essere in salvo. Un sonno lieve lo prese e nel
dormiveglia fu tormentato da orrendi incubi. Vedeva il sangue scorrere
abbondante dalle sue ferite impedendogli di respirare. Si sentiva soffocare e
s'agitava inconsultamente nel lettino.
Un medico gli praticò un'iniezione e Alberto si senti trasportare leggero sulle
nuvole. Una sensazione di liberazione e di tranquillità lo avvolse e sprofondò
in un sonno profondo.
Si risvegliò attorniato dai suoi cari, che non avevano ancora compreso quale
rischio avevano corso, ed accarezzato da una ragazza del paese a cui faceva la corte ma alla qual non aveva mai avuto il
coraggio di svelare il suo amore.
La medaglia d'oro arrivò molto tempo dopo. Si era ormai dimenticato anche del
bene fatto portando in salvo tante famiglie di ebrei e salvando altri
deportati. Un riconoscimento tardivo anche per la sua partecipazione alla lotta
contro l'oppressione nazi-fascista. Quello che
ricordava spesso era di aver contribuito alla liberazione del suo paese e
sottolineava che i giovani avrebbero dovuto apprezzare il suo sacrificio e
quello di tanti altri partigiani e non permettere più in futuro che la libertà venisse negata ai popoli.
Era un invito che rivolgeva spesso ai giovani anche se
era convinto che chi non aveva provato quei brutti momenti sicuramente non
poteva afferrare in pieno il senso del suo messaggio.
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Ormai era trascorsi quasi trenta giorni dal suo ricovero. Per la sua mano non
c'era stato nulla da fare. Cercarono di ricostruirgliela come possibile per
evitare di amputargliela. Era già malmessa prima in conseguenza dei colpi
ricevuti con il calcio dei fucili che gli avevano rifilato i tedeschi durante
gli interrogatori, ed adesso non c'era più alcuna possibilità di recuperarne una pur minima funzionalità.
Non volendo vivere con la rendita della invalidità, agli amici che venivano a
trovarlo, ebbe ancora la forza di sorridere ed affermare: "Alla fine devo
proprio accontentarmi di fare il guardiano; a questo punto per me non c'è altra
possibilità di poter fare altri lavori e, d'altro canto, chi non lavora non
mangia".