Sogno di ghiaccio antico
Camminavo lungo
un sentiero appena accennato.
Avevo già
attraversato il bosco di larici, punteggiato dal croco e dai primi
tarassachi.
Qua e là, dove
il terreno volgeva a nord a formare piccoli avvallamenti perennemente ombrosi,
chiazze di neve morente ricordavano che l'inverno non era trascorso da molto.
Dall'alto, nel
silenzio del canto degli uccelli e del fruscio del vento, giungevano ogni tanto
gli schiocchi del ghiacciaio, quel suono secco e scrosciante della roccia che precipita dal fronte in dissoluzione, mentre il suo letto di
gelo, sul quale aveva riposato per secoli, si espone al calore del sole.
Uscito dagli
alberi, mi aggiustai sulle spalle lo zaino leggero e presi a risalire i
pascoli, aggirando le rocce e attraversando i numerosi ruscelli che mi
cantavano melodie antiche. Arrivai e superai i canaloni ombrosi, dove
resistevano nevai che, stillando lentamente la loro vita, s'immolavano al sole
per donare l'acqua alle fioriture di primavera.
Infine giunsi ai
piedi dall'antico gigante dai riflessi azzurrini, immobile solo in apparenza.
Perchè il
ghiaccio scivola lento nei valloni con tutta la forza della creazione, incide e
spacca la roccia, sospinge i massi come mandrie di strani camosci possenti; poi,
alla fine del viaggio, raggiunge la meta cadendo a schegge, a brani, a costoni
e ritorna tra le braccia di madre acqua, per morire nel sole in un ultimo
fremito di gocce lucenti.
Così, ai piedi
del lungo ghiacciaio, si forma uno specchio grigio, continuamente mosso dal
vento e dal precipitare di sassi e rocce, mentre piccoli iceberg in
dissoluzione ondeggiano sulla superficie, sospinti dal capriccio dei venti che
mormorano parole sconosciute, udite e imprigionate dal gelo
mille e mille anni fa e infine liberate come bollicine affioranti.
Mi fermai,
rapito da quello spettacolo che pure avevo già visto altre volte, respirando a
lungo l'odore del ghiaccio e dell'aria finissima, mentre il ritmo del cuore e
dei polmoni, provati dalla salita, rallentava a ripulire il corpo dai veleni
della fatica.
Lago della
battaglia: ancora mi posi la domanda di come fosse nato quel nome, chi mai
fosse arrivato sino là per corrompere con l'odio e col sangue quel tempio della
natura. Avevo anche fatto ricerche, ma nessuno aveva saputo darmi una risposta
certa su quale battaglia si fosse combattuta, e
neppure se mai una battaglia vi fosse davvero stata.
Ma adesso era
tempo di riposare.
Camminai ancora
un poco, quasi in punta di piedi, sulla riva morenica, verde di bassa vegetazione;
cercavo il luogo asciutto e riparato dal vento che mi ricordavo.
Era quello un
piccolo seno del lago dove, millenni prima, una roccia
appiattita, scivolando e rimbalzando giù dal crinale irto di pinnacoli
spezzati, ora offriva uno spazio rude per il riposo di chi vi si fosse
inerpicato.
Lo trovai, mi
liberai dello zaino e indossai indumenti asciutti al posto di quelli fradici
del sudore della salita. Mi sdraiai, godendomi il sole come una lucertola alla
sua prima uscita dopo l'inverno. Ben presto il tepore, il canto delle acque e
il fruscio del vento mi fecero chiudere gli occhi.
Così, la testa
appoggiata sullo zaino, caddi in quello strano torpore dove il sonno ancora non
sbarra la porta alle sensazioni del mondo, ma già i sogni si infiltrano silenziosi
tra i pensieri.
Un'altra persona
camminava sulla riva.
C'era solo una
parola che poteva definirla al suo apparire: un guerriero.
L'elmo di cuoio
indurito, la spada forgiata nel ferro, lo stesso metallo della cotta di maglia
indossata sulla lunga tunica di lana grezza. I calzari, di pelle come lo scudo,
rotondo e rinforzato di borchie. Lunghi capelli biondi, sciolti sulle spalle,
incorniciavano una barba già grigia e un volto duro, gli occhi dello stesso
freddo colore dell'acqua e del cielo.
Il guerriero si
fermò sulla riva osservando il lago, dove un pesce, in un guizzo di scaglie
lucenti, afferrò una libellula in volo. Ristette immobile, sino a quando i cerchi si infransero sui sassi con un lieve
sciacquio, poi si volse verso di me, ma quasi parlando a se stesso.
- Vedi, le
nostre vite sono come questi cerchi, creati da qualche essere che ci è
estraneo. Egli è indifferente sia a ciò cui ha dato vita, sia alla sua rapida
fine.-
La voce era
bassa, poco più di un sussurro. Dopo un breve silenzio, riprese:
-Tu riposi dove
io dormo da mille e più anni. Mille e più volte ho visto le nevi coprire il
lago ghiacciato. Lievi, le zampe dei camosci mille e più volte sono passate sul
mio corpo disfatto e mille e più volte in questo tempo senza fine ho sentito il
vento spirare dal Nord, portando gli odori lontani del mio paese, dove i miei
figli mi attesero invano e la mia donna fu data ad un
altro.
Ci crearono gli Dei, e poi ci dissero di andare a combattere genti
sconosciute, che gli ori, le femmine e le messi sarebbero stati nostri, perché
così era scritto. -
Il guerriero si
volse e si allontanò risalendo il sentiero che si perdeva sulla morena, ma la
sua voce ancora giungeva chiara.
- Uomo, ora io
lo so, tutto è un inganno che non abbiamo ancora imparato a riconoscere. Gli
dei sono crudeli e indifferenti alla nostra sorte, e le stesse cose che dicono
a noi le dicono anche ai nostri nemici. Così, in loro nome, ci spingono a dare
e ricevere la morte, mentre loro amano, bevono il
vino migliore, mangiano miele e ridono dell'umana stupidità.-
Io mi riscossi
dal torpore e mi guardai intorno spaventato, ma non vidi altro che il lago e le
montagne. Infine raccolsi lo zaino e scesi sulla riva, tra le rocce e i pini
mughi. Mi bagnai il viso con l'acqua gelida, quasi a scacciare l'immagine che
mi aveva appena invaso la mente, e tentai di specchiarmi in quel lucente
grigiore increspato dal vento.
Dall'alto del
ghiacciaio, con il consueto suono schioccante, si staccò un grosso frammento,
uno dei tanti. Rimase a galleggiare sulla superficie, ondeggiando semisommerso
come se fosse più pesante del normale.
All'interno, in attesa di essere liberato dalla sua prigione, mi parve di
scorgere il corpo di un antico guerriero. Stringeva ancora la spada e aveva
lunghi capelli biondi.
Di lì a poco il
frammento, spinto dal vento verso il centro del lago, si spezzò ancora e quell'ombra appena intravvista
s'inabissò nella sua dimora di fango e pietre.
Io rimasi a
lungo a osservare la luce del sole che giocava con le increspature della
tramontana.
Guardando
attentamente, potevo vedere il riflesso dei secoli trascorsi da
quando quell'acqua era scesa in forma di neve,
lassù, al confine tra il cielo e la montagna, mentre il vento sembrava portarmi
l'eco delle ultime parole di quell'uomo antico:
"...umana stupidità".