Il dente da latte
di Adriana Pedicini
Quell'anno l'inverno era stato
particolarmente rigido, ma breve; già ad aprile le grandi pianure ucraine si
erano spogliate dell'abito bianco della neve come spose pronte all'incontro
d'amore della prima notte di nozze.
Dappertutto scie di aria tiepida s'incuneavano
tra nuvole svogliate che andavano diradandosi all'orizzonte per effetto
dell'evaporazione.
La giornata era ideale per portare i
bambini al parco; gli operai avevano smesso colbacchi e cappotti, ai piedi
ancora stivali di gomma per aver ragione del fango che ancora era alto sulle
strade di terra battuta. Ma almeno chi aveva la fortuna di raggiungere in auto
il luogo di lavoro, perché distante da dove viveva, non doveva temere i rischi
del congelamento del motore per temperature sotto lo zero.
Tra poco la città sarebbe apparsa in
tutto il suo splendore primaverile, faticosamente conquistato, dacché piante e
fiori dovevano superare il trauma del gelo invernale.
Ma la vita prevale sempre in natura,
tutti lo sapevano, né s'immaginavano che la nera signora stava con beffardo
sogghigno affilando tra alte lingue di fuoco le armi per falciare i fiori tutti
della cittadina operosa.
Gli echi della grande Kiev, moderna
e gaudente, non scalfivano la vita del paesino che aveva alle spalle, nemmeno
troppo lontano, una specie di vulcano, né bello, né brutto, con quattro crateri
in grado di assicurare energia per quasi tutto il territorio.
Tolik aveva appunto
assunto il ruolo di cicerone col suo migliore amico Sasha, prima di apprestarsi
alla grande cena, con l'intenzione di descrivere un po'della centrale mentre
sua moglie Liuda sistemava i fiori di cui era stata
omaggiata sul grande tavolo tra i cioccolatini e i dolci che lei stessa aveva
preparato. Dei piccoli pampushki al burro e delle
fette di torta salata aspettavano solo l'inizio della degustazione. Il resto
veniva da sé.
Mentre ancora pigramente lo
spezzatino sbolliva nella pentola, Liuda sistemava le
ultime cose sulla tavola. Aveva pensato a tutto.
Ad un tratto un tremolio, un acre
odore di fumo, un boato. Non ci fu più luce e non ve ne fu per parecchi mesi e
per moltissimi non tornò a brillare.
Così, in un momento, senza
preavviso, tanto che l'odore di carne bruciata in cucina e quello
dei corpi carbonizzati fu un tutt'uno.
Morirono tutti.
Attraverso il denso fumo e la
polvere caliginosa a stento, come in una vecchia foto in nero di seppia
sbiadita dalla luce e dal tempo, s'intravedevano resti disintegrati di forme
umane avvizzite dall'enorme calore che la fiamma continuava a sprigionare dalla
ciminiera dopo l'esplosione.
La maggior parte di essi era
irriconoscibile, altri resti, trovati a cinquanta chilometri di distanza,
avevano sui corpi prosciugati come grinzose mummie egiziane i segni delle
bruciature che scintille radioattive avevano provocato a guisa di puntini
luminosi e fluorescenti che vengono giù dalla deflagrazione dei giochi
pirotecnici.
Un alito fetido di morte aveva
annullato tutto, in un attimo, senza preavviso, ma non il ricordo, al mondo, di
un villaggio popolato ora di fantasmi.
Non resse lo sguardo il Dottor Moisey Tolchinsky, quando si recò
all'ospedale del piccolo centro per eseguire le prime autopsie, trascorsi i
giorni di quarantena.
Molti soccorritori si erano recati
sul luogo dell'incidente alcuni mesi dopo per bonificare l'area e mettere al
sicuro l'impianto. Non avevano tute isolanti adeguate e ciò molto probabilmente
diede luogo a una morìa di persone, a causa
dell'intossicazione radioattiva, come mosche insonnolite dal DDT che
pigramente vanno a morire dove capiti.
Era nota la causa scatenante, anche
se il colpo mortale si dislocò per essi nei vari organi e tessuti, soprattutto
nel sangue.
Bill, figlio di madre americana, era
ancora goloso di latte, nonostante i suoi cinque anni. Si riempì di iodio-131
fino a morirne.
“Bill, Bill, rispondimi bambino! Sì,
sei tu, sei tu…! Ti fa ancora male quel maledetto
dente da latte? Avevi ragione a non toglierlo”.
-Prima o poi cadrà da solo- dicevi!
-Ho paura dei ferri, ho paura
dell'ago! Non voglio, non voglio!-.
“Dormi bambino, domani mangerai di
sicuro un syrniki più soffice. Mi raccomando, che ci
sia tanta panna, come piace a te”.
Nella piccola culla in ferro battuto
un lenzuolino bianco senza orli fu teso a coprire i
miseri resti. Forse più l'amore per quello che era stato il bambino che
l'effettiva riconoscibilità del suo cadavere ridotto a un a larva avevano
spinto Moisey a riconoscerne le fattezze.