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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  La tovaglia di Maratea, di Adriana Pedicini 21/12/2015
 

La tovaglia di Maratea

di Adriana Pedicini

 

 

 

Sulla tavola la tovaglia in canapone di Maratea, su di essa le testine ricamate di babbo natale al centro  scuotevano i berretti tintinnanti, all'orlo campanule e rametti di pungitopo e nodi rossi di nastro. Tutto sembrava vivo e non effetto di vivide stampe tra il luccichio ambrato delle stoviglie.

Nel tinello, in attesa del pranzo, Mara e Fabrizio, seduti con lo sguardo puntato al monitor del televisore. Gli altri figli più giovani avevano preferito trascorrere il Natale in luoghi caldi con gli amici.

Alla padrona di casa giungeva in cucina il suono scrosciante della risata del primogenito che ridiventava fanciullo alle sequenze dei cartoni animati: la donna notava con disappunto che egli non si stendeva più come una volta sulla poltroncina di vimini con i piedi poggiati sul ripiano del cassetto. Sulla poltroncina sedeva la sposa dal volto di adolescente.

Il pranzo fu avviato, le pietanze fumanti erano in tavola.

Alla sinistra del padre sedeva come una volta  Fabrizio: era uomo e bambino.

Per una mamma i bambini appaiono e scompaiono; i suoi erano scomparsi..….. non spuntava alcun angolo bianco di buste natalizie dalle pieghe dei tovaglioli.

Ora, solo i suoi occhi malinconici di anni ammucchiati le scorgevano …..lontane, velate dai vapori dietro i vetri color ghiaccio. Solo i suoi occhi rivedevano i righi incerti delle letterine e i volti teneri dei piccoli, le sedie di paglia su cui ognuno all'impiedi doveva recitare la poesia natalizia se voleva il regalino agognato. Vedeva ancora il bruciore delle guance arrossate per la vergogna puerile.

Vedeva ancora sdraiato nella consunta poltrona la sagoma del vecchio padre dal petto ansimante per il respiro affannoso mentre accarezzava il gatto fulvo e bianco accovacciato sul bracciolo, il quale non di rado infastidito gli allungava una zampata graffiandogli la pelle delle mani.

Gli orecchi della donna  risuonavano ancora della flebile voce della cara mamma che chiedeva un sorso d'acqua pronunciando il suo nome dal letto in cui era rimasta immobile per molti anni.

Quel primitivo legame naturale si era spezzato per sempre, né erano valsi gli affetti venuti dopo o quelli recentissimi a surrogarli. Il tempo si era fermato a quell'antica e completa vita famigliare e, se pure la donna aveva attraversato la vita, l'aveva in realtà appena sfiorata nonostante le scelte, le azioni o i sentimenti apparentemente condivisi.

Di ciò lei non si era mai avveduta, o aveva finto di non avvedersi, ma il suo comportamento oppresso dalla nostalgia aveva allontanato sia il marito, che preferiva trascorrere le domeniche nel suo paese natio con gli amici,  sia i figli che entravano e uscivano di casa senza che lei chiedesse conto di dove andassero e cosa facessero.

Il presente era come impacchettato in una scatola da non aprire, la routine quotidiana era un alienante esercizio di straniamento dal ruolo di madre e moglie.

Anche gli eventi importanti della vita dei suoi figli la vedevano più come spettatrice estranea emotivamente che come parte integrante del tessuto famigliare. Nessun sorriso e nessuna lacrima, solo sospiri.

Anche il Natale era vissuto così, da alcuni anni in poi. Un rituale a cui si sottoponeva in maniera grigia, sbiadita.

Si sperò che la notizia, comunicata appositamente a Natale, dell'arrivo di un bebè potesse scuoterla.

Squillò il telefono. Rispose il capofamiglia: “Antonio, Lorenzo, come state? Affettuosi auguri. Vi passo Pina”.

“Oh, Lorenzo, ci hai preceduto. Buon Natale, ti passo Mara e Fabrizio. Oggi sono con noi”.

 -Ho sognato che era nato un maschietto con gli occhi neri- furono le uniche parole che proferì dopo la notizia.

 Ma non sono più mia madre, mio padre. Un Natale in quattro, non più in sei, non più in cinque- andava rimuginando da sola in silenzio.

Sedeva all'angolo del tavolo, verso la porta. Sorrideva tristemente a Mara, l'esortava a mangiare: ora doveva mangiare per due.

Cercava di spostarsi sempre più verso l'angolo, per prendere meno posto, avrebbe voluto che il suo viso sparisse dietro il  vapore profumato delle pietanze e un altro ne apparisse per lei noto e amato, svanito e rimpianto. Era una madre, ma non aveva la sua.

Gli sguardi muti a tratti accarezzavano il giovane viso di suo figlio, di sua nuora - un'altra figlia-.

La voce aveva toni parchi di allegria.

“Bisogna telefonare agli zii in America. Glielo abbiamo promesso”.

Se ne incaricò il marito.

“ Oh, sì...vi sento benissimo, Merry Christmas e Buon Natale a tutti, la piccola Sonja come sta? Auguri, auguri! Qui c'è tutta la famiglia Brambilla, ti passo Pina...Fabrizio...Mara...; James, cari auguri...grazie,… Bill...il mio amico cane? Sì, sta bene”.

Fabrizio: ”Sono l'ultimo, passo e chiudo”.

“Aspetta, passami Lizzie” si precipitò il capofamiglia ad afferrare la cornetta del telefono.

Lizzie, il Palazzo di vetro (di New York) è ancora a posto? Se dovesse muoversi, mandami subito a chiamare...ci penso io”.

A conclusione della telefonata transoceanica ci fu un attimo di euforia in una giornata di festa disforica e si brindò.

Lo spumante forse non era ottimo, tuttavia si brindò. Fu trangugiata tutta la bottiglia poco alla volta.

Di tempo ce n'era, non lo avevamo sprecato a parlare tra di noi. Ognuno aveva dialogato o con la nostalgia o con la delusione o con la speranza. Il capofamiglia con la noia di sicuro.

Un altro Natale era trascorso

L'anno venturo saremmo stati in cinque.

“Bisognerà lavare la tovaglia, vi sono parecchie macchie” furono le uniche parole protese verso il successivo Natale.

 

 

 

 
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