La tovaglia di Maratea
di Adriana Pedicini
Sulla tavola la tovaglia
in canapone di Maratea, su di essa le testine
ricamate di babbo natale al centro
scuotevano i berretti tintinnanti, all'orlo campanule e rametti di
pungitopo e nodi rossi di nastro. Tutto sembrava vivo e non effetto di vivide
stampe tra il luccichio ambrato delle stoviglie.
Nel tinello, in attesa
del pranzo, Mara e Fabrizio, seduti con lo sguardo puntato al monitor del
televisore. Gli altri figli più giovani avevano preferito trascorrere il Natale
in luoghi caldi con gli amici.
Alla padrona di casa
giungeva in cucina il suono scrosciante della risata del primogenito che
ridiventava fanciullo alle sequenze dei cartoni animati: la donna notava con
disappunto che egli non si stendeva più come una volta sulla poltroncina di
vimini con i piedi poggiati sul ripiano del cassetto. Sulla poltroncina sedeva
la sposa dal volto di adolescente.
Il pranzo fu avviato, le
pietanze fumanti erano in tavola.
Alla sinistra del padre
sedeva come una volta Fabrizio: era uomo
e bambino.
Per una mamma i bambini
appaiono e scompaiono; i suoi erano scomparsi..….. non spuntava alcun angolo
bianco di buste natalizie dalle pieghe dei tovaglioli.
Ora, solo i suoi occhi
malinconici di anni ammucchiati le scorgevano …..lontane, velate dai vapori
dietro i vetri color ghiaccio. Solo i suoi occhi rivedevano i righi incerti
delle letterine e i volti teneri dei piccoli, le sedie di paglia su cui ognuno
all'impiedi doveva recitare la poesia natalizia se
voleva il regalino agognato. Vedeva ancora il bruciore delle guance arrossate
per la vergogna puerile.
Vedeva ancora sdraiato
nella consunta poltrona la sagoma del vecchio padre dal petto ansimante per il
respiro affannoso mentre accarezzava il gatto fulvo e bianco accovacciato sul
bracciolo, il quale non di rado infastidito gli allungava una zampata
graffiandogli la pelle delle mani.
Gli orecchi della
donna risuonavano ancora della flebile
voce della cara mamma che chiedeva un sorso d'acqua pronunciando il suo nome
dal letto in cui era rimasta immobile per molti anni.
Quel primitivo legame
naturale si era spezzato per sempre, né erano valsi gli affetti venuti dopo o
quelli recentissimi a surrogarli. Il tempo si era fermato a quell'antica e
completa vita famigliare e, se pure la donna aveva attraversato la vita,
l'aveva in realtà appena sfiorata nonostante le scelte, le azioni o i
sentimenti apparentemente condivisi.
Di ciò lei non si era
mai avveduta, o aveva finto di non avvedersi, ma il suo comportamento oppresso
dalla nostalgia aveva allontanato sia il marito, che preferiva trascorrere le
domeniche nel suo paese natio con gli amici,
sia i figli che entravano e uscivano di casa senza che lei chiedesse
conto di dove andassero e cosa facessero.
Il presente era come
impacchettato in una scatola da non aprire, la routine quotidiana era un
alienante esercizio di straniamento dal ruolo di madre e moglie.
Anche gli eventi
importanti della vita dei suoi figli la vedevano più come spettatrice estranea
emotivamente che come parte integrante del tessuto famigliare. Nessun sorriso e
nessuna lacrima, solo sospiri.
Anche il Natale era
vissuto così, da alcuni anni in poi. Un rituale a cui si sottoponeva in maniera
grigia, sbiadita.
Si sperò che la notizia,
comunicata appositamente a Natale, dell'arrivo di un bebè potesse scuoterla.
Squillò il telefono.
Rispose il capofamiglia: “Antonio, Lorenzo, come state? Affettuosi auguri. Vi
passo Pina”.
“Oh, Lorenzo, ci hai
preceduto. Buon Natale, ti passo Mara e Fabrizio. Oggi sono con noi”.
-Ho
sognato che era nato un maschietto con gli occhi neri- furono le uniche
parole che proferì dopo la notizia.
“Ma non
sono più mia madre, mio padre. Un Natale in quattro, non più in sei, non più in
cinque- andava rimuginando da sola in silenzio.
Sedeva all'angolo del
tavolo, verso la porta. Sorrideva tristemente a Mara, l'esortava a mangiare:
ora doveva mangiare per due.
Cercava di spostarsi
sempre più verso l'angolo, per prendere meno posto, avrebbe voluto che il suo
viso sparisse dietro il vapore profumato
delle pietanze e un altro ne apparisse per lei noto e amato, svanito e
rimpianto. Era una madre, ma non aveva la sua.
Gli sguardi muti a
tratti accarezzavano il giovane viso di suo figlio, di sua nuora - un'altra
figlia-.
La voce aveva toni
parchi di allegria.
“Bisogna telefonare agli zii in America. Glielo abbiamo promesso”.
Se ne incaricò il
marito.
“ Oh, sì...vi sento benissimo, Merry
Christmas e Buon Natale a tutti, la piccola Sonja
come sta? Auguri, auguri! Qui c'è tutta la famiglia Brambilla, ti passo
Pina...Fabrizio...Mara...; James, cari auguri...grazie,… Bill...il mio amico
cane? Sì, sta bene”.
Fabrizio: ”Sono l'ultimo, passo e chiudo”.
“Aspetta, passami Lizzie” si precipitò il
capofamiglia ad afferrare la cornetta del telefono.
“Lizzie, il Palazzo di vetro (di New
York) è ancora a posto? Se dovesse muoversi, mandami subito a chiamare...ci
penso io”.
A conclusione della
telefonata transoceanica ci fu un attimo di euforia in una giornata di festa
disforica e si brindò.
Lo spumante forse non
era ottimo, tuttavia si brindò. Fu trangugiata tutta la bottiglia poco alla
volta.
Di tempo ce n'era, non
lo avevamo sprecato a parlare tra di noi. Ognuno aveva dialogato o con la
nostalgia o con la delusione o con la speranza. Il capofamiglia con la noia di
sicuro.
Un altro Natale era
trascorso
L'anno venturo saremmo
stati in cinque.
“Bisognerà lavare la tovaglia, vi sono parecchie macchie” furono le uniche parole
protese verso il successivo Natale.