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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Il magico perchè di Roberta De Tomi 12/01/2007
 

IL MAGICO PERCHE'

 

Elisa aprì il libro e si tuffò tra le parole di Herman Hesse. Un'ora di treno poteva durare un'eternità e lei lo sapeva benissimo. Dopo aver scandagliato il vagone  e scelto il posto ideale – in fondo accanto al finestrino –  si sedette.

Non si era lasciata sfuggire nulla: persone, micro-gesti, piccoli tic. Aveva notato la signora dagli occhi di ghiaccio che giocherellava con un portachiavi a forma di rana Alcune ragazzine civettavano con tre ragazzotti, mentre un giovane di colore dormiva, la testa ciondolante sulla spalla, i piedi scalzi appoggiati sul sedile che aveva di fronte. Un vecchietto leggeva il giornale, strizzando gli occhi presbiti: evidentemente aveva scordato gli occhiali a casa, ma nulla gli avrebbe proibito di dedicarsi alla sacrosanta, lettura quotidiana.

Da quando lavorava come giornalista, Elisa aveva imparato a non lasciarsi scappare nemmeno il più piccolo dettaglio. E mentre i suoi occhi scavavano nella superficie delle cose, ecco apparire il “magico perché”.

Era il perché dell'infanzia, quel chiedersi incessante, quella volontà di capire, che porta i più piccoli alla scoperta del mondo. Era il perché scordato dagli adulti, certi di conoscere a fondo la realtà. Ma Elisa sapeva che la realtà era multi-sfaccettata; e queste facce potevano essere afferrate solo se passate al vaglio del “magico perché”, che anche quella mattina, era riaffiorato.

“Perché non ci può essere il sole?” si era chiesta, dopo aver sbirciato dal finestrino i grigi cavalloni che galoppavano nel cielo d'agosto. Ma poi, vedendo le gocce  cadere a fiotti sui campi messi ko dall'afa, si sentì una sciocca. Rise della sua ingenuità per poi lasciarsi catturare dalle vicende di Boccadoro,  l'inquieto viaggiatore che, come lei, cercava di plasmare la sua ancora informe vita.

La bionda venticinquenne non si lasciava distrarre dal sussultare del vagone, una seconda classe nuova di zecca; né si lasciava distrarre dalle chiacchiere del gruppetto di teen-ager pronte per lo shopping di fine-stagione.

“Io mi comprerò un paio di Richmond!” cinguettava la reginetta della combriccola, una stangona dalla chioma platinata, strangolata dai jeans a vita bassa. 

Elisa non aveva potuto non notare il suo look da passerella. Ma adesso era troppo presa dal romanzo per prestare ascolto alle parole della ragazzina. C'era solo la magia di una narrazione proiettata in un tempo lontano, che all'improvviso, era diventata il racconto della sua vita.

Intanto il treno sbuffava e sfrecciava sui binari, attraversando campi di grano maturo, piccoli boschi grondanti acqua, campi di girasoli tristi perché non potevano rivolgere le corolle al loro grande padre. Ci furono prima una, poi una seconda fermata, ma  la ragazza non si mosse, presa com'era dal suo viaggio nel viaggio. Più andava avanti, più sentiva crescere l'affinità con Boccadoro, che solo dopo mille vicissitudini, riusciva a trovare la proprio vocazione d'artista. Così lei, dopo anni di indecisioni, all'improvviso si era scoperta cronista. Malgrado la giovane età, era riuscita a guadagnarsi la stima di tutta la redazione, grazie ai frizzanti articoli.

“Mi scusi, è libero?”

Una voce virile, calda e avvolgente, la distolse dalla lettura. Alzò gli occhi e incontrò quelli di un uomo dalla carnagione scura. Aveva sopracciglia folte, denti bianchissimi e labbra carnose. Doveva essere un arabo, o un tunisino, non sapeva bene. Elisa era talmente presa dalle sue ipotesi, che aveva scordato la domanda iniziale.

“Prego?”

“Posso?”

L'arabo indicò la borsa appoggiata sul sedile di fronte.

“Mi scusi – Elisa l'appoggiò sulle ginocchia – Prego!”

“Grazie.”

Le sorrise di nuovo, ma un sospetto atroce la trafisse. Un brivido le attraversò la schiena e subito il “magico perché” si rivolse all'uomo.

Aveva lineamenti forti e due occhi misteriosi e minacciosi. Anche il suo sorriso, apparentemente gioviale, celava qualcosa. Un'insidia forse?

Elisa ripensò alla notizia giunta in redazione lo scorso 7 luglio. In quel momento la sua mente aveva ripercorso un itinerario non nuovo: rivide i Pirenei, la Manica, la costa inglese, che cinque anni prima l'avevano colmata di emozioni positive, ora spodestate dallo sgomento.

Immaginò le esplosioni, le carni lacerate, il sangue che schizzava ovunque, gente che urlava disperata, mentre tutt'intorno il morbo della morte dilagava.

“Mi scusi... Mantova?”

La giovane ritornò in Italia. Il treno si era fermato a Romanore: un stazioncina sgangherata, due rotaie in croce e il vetro che proteggeva la bacheca in cui era esposto il tabellone dell'orario dei treni scheggiato da alcuni vandali.

Sara guardò dal finestrino. La pioggia continuava a cadere incessante.

“È la prossima. disse.

“Grazie.” 

L'uomo roteò gli occhi. O almeno, la ragazza credé di vedere i suoi occhi compiere quel movimento. Cercò di allontanare la paura, ma il cuore ballerino non voleva obbedire.

Vide la mano infilarsi nella tasca interna della giacca. Forse nascondeva un'arma? O forse voleva puntare alla gola dell'infedele un coltello?

Lentamente tornava fuori, poi rientrava per afferrare meglio l'oggetto. Elisa si sentiva il petto esplodere, la gola serrata. Cercò di concentrarsi su Herman Hesse; ma ormai Boccadoro era fuggito dai suoi pensieri e il volume restava aperto sulle sue ginocchia, danzando al ritmo dei sussulti del treno.

 

Ahmed estrasse il fazzoletto dalla tasca e vedendo il volto della bella compagna di viaggio rilassarsi, provò una sensazione non nuova. Era una sensazione di rifiuto, quella barriera eretta da quasi tutti gli italiani che incontrava, per difendersi dal “pericoloso straniero”.

Quante volte sentiva correre su di lui occhi timorosi? Quanti poliziotti avevano perquisito la sua borsa, soprattutto dopo il fattaccio di Londra? Quanti nonni avevano scansato i nipotini, al suo passaggio?

Eppure Ahmed non era un criminale.

Era arrivato in Italia dalla Tunisia otto anni prima. E da allora la sua era stata una vita costellata di lotte. E tutto a causa di quella laurea non riconosciuta.

Lui era un ingegnere informatico. Ma in Tunisia non erano molte le possibilità di lavoro; perciò aveva deciso di partire alla volta del “paese della speranza”. Così chiamava l'Italia, Assja, la sorella maggiore. Anche se  non c'era mai stata, lei lo dipingeva come il paese delle meraviglie, con la sua gente ospitale, il cibo delizioso, il passato illustre. Ma soprattutto,  lo aveva sempre descritto come “il paese del lavoro”. E allora il giovane ingegnere aveva deciso di andarsene.

Quando arrivò a Roma, sgranò gli occhi. Era rimasto colpito dal calore delle persone, dagli odori, dal traffico straripante. Si abituò presto a quella vita; ma quando scoprì che in Italia il suo titolo di studio non aveva alcun valore, sentì il mondo crollargli addosso.

“Vattene via!” gli disse una volta una negoziante, cui si era rivolto per lavorare.

Ma ci fu anche chi gli tese la mano. Per tre anni, Ahmed fu il lavapiatti di un'osteria della periferia capitolina. Poi arrivò l'11 settembre e da allora la sua vita era diventata un inferno. Ahmed si sentiva continuamente additato. Era tunisino, ma per gli altri era un arabo, un integralista, un terrorista. E allora risalì lo stivale e arrivò a Modena. Lì  aveva pulito bagni e tinteggiato muri; infine  era stato assunto come magazziniere, in un'azienda tessile.

Da un anno viveva in un appartamento del centro, dove conduceva una vita tutto sommato tranquilla.

I suoi sogni infranti, talvolta riemergevano. Guardava con un filo di disappunto la pergamena per cui aveva sudato sui libri, invano. Ma almeno, aveva di che vivere: e questa era l'unica consolazione. Gli unici vizi che aveva, erano il computer e l'arte; una passione, che lo spingeva a frequentare i musei e i monumenti sparsi per il Belpaese. Peccato che ad ogni viaggio corrispondesse sempre l'indice puntato verso di lui, “il terrorista”!

E pensare che Ahmed non pregava Allah per la guerra, ma per la pace. La sua famiglia seguiva in modo liberale l'insegnamento di Maometto. Il padre non era un tiranno e le figlie non erano cresciute come schiave, ma come donne, libere di compiere le proprie scelte. Il rispetto era un credo cui era aggrappato fin da sempre.

Per questo il tunisino sentì stringersi il cuore, vedendo che il sospetto increspava il volto della compagna di viaggio. Per lui era l'ennesima sconfitta.

Ahmed osservò meglio gli occhi velati di paura. E sotto il velo, ecco due stelle brillare di un'intelligenza singolare. Era un'intelligenza che non si fermava all'apparenza, ma che sondava, picchiava con il martello della ragione. A questo punto, anche in lui s'insidiò il “magico perché”.

“Perché una ragazza tanto sveglia deve nutrire dei pregiudizi nei miei confronti?”

 

Elisa, dopo avere spento l'allarme che le era scattato dentro, lo guardò meglio.

“È un tunisino.” si disse.

Del resto quei ricci fini fini, quei tratti somatici erano inconfondibili. E allora pensò a quella terra, alla sua gente, ai caratteri plasmati dal sole del Mediteraneo. Pensò al clima nordafricano, ai mercati sempre affollati, agli edifici dalle linee essenziali, al deserto, la cui asprezza si rifletteva negli occhi dell'uomo. Erano occhi temprati dal clima ostico, ma anche puri, come la sabbia che ricopriva le dune.

“Perché dev'essere per forza un terrorista?” si chiese.

Forse era uno di quei giovani la cui condizione di emigrato non aveva fatto altro che sbarrargli il passo. Forse in Italia aveva cercato il lavoro che la burocrazia gli impediva di svolgere e per questo si era dovuto adeguare, sottomettendosi a padroni che quasi lo schiavizzavano, umiliandosi, spaccandosi la schiena con lavori che gli italiani non avrebbero mai fatto. Sul volto non mancavano i segni della fatica, solchi che attraversavano le guance e la fronte da parte a parte. Gli occhi duri e tenaci, si chiudevano sotto il peso di nostalgie che non potevano essere disgiunte ai ricordi del passato, di quella terra che la necessità lo avevano costretto ad abbandonare.

Quelli erano gli occhi di chi aveva saputo farsi scivolare addosso critiche, pregiudizi e mille ingiustizie, senza lasciarsi deviare da falsi credo e fanatismi ostentati. 

Fu allora che ogni timore si sciolse in un sorriso aperto e sincero, che l'altro ricambiò.

“Che sciocca che sono!” pensò Sara, finalmente ravvedutasi.

 

Il treno si fermò. Erano arrivati. Ahmed vide le labbra fini schiudersi, gli occhi chiari della ragazza brillare di una nuova consapevolezza. Lui per lei non era più un criminale, ma un viaggiatore come tanti. Lei per lui era una giovane che aveva saputo scacciare i fantasmi di un incubo inesistente. L'uomo, portandosi una mano al petto, la salutò. Si alzarono contemporaneamente ed Elisa, radiosa, gli disse: “Buona giornata!”

Le strade dei due viaggiatori si separarono. Forse non si sarebbero più incrociate, ma altri itinerari li attendevano e altri “magici perché” avrebbero permesso di accedere all'essenza della realtà.

     

 

 
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