IL
MAGICO PERCHE'
Elisa aprì il libro e si tuffò tra le
parole di Herman Hesse.
Un'ora di treno poteva durare un'eternità e lei lo sapeva benissimo. Dopo aver
scandagliato il vagone
e scelto il posto ideale – in fondo accanto al finestrino – si sedette.
Non si era lasciata sfuggire nulla:
persone, micro-gesti, piccoli tic. Aveva notato la
signora dagli occhi di ghiaccio che giocherellava con un portachiavi a forma di
rana Alcune ragazzine civettavano con tre ragazzotti,
mentre un giovane di colore dormiva, la testa ciondolante sulla spalla, i piedi
scalzi appoggiati sul sedile che aveva di fronte. Un vecchietto leggeva il
giornale, strizzando gli occhi presbiti: evidentemente aveva scordato gli
occhiali a casa, ma nulla gli avrebbe proibito di dedicarsi alla sacrosanta,
lettura quotidiana.
Da quando lavorava come giornalista,
Elisa aveva imparato a non lasciarsi scappare nemmeno il più piccolo dettaglio.
E mentre i suoi occhi scavavano nella superficie delle cose, ecco apparire il
“magico perché”.
Era il perché dell'infanzia, quel
chiedersi incessante, quella volontà di capire, che porta
i più piccoli alla scoperta del mondo. Era il perché scordato dagli adulti,
certi di conoscere a fondo la realtà. Ma Elisa sapeva che la realtà era multi-sfaccettata; e queste facce potevano essere afferrate
solo se passate al vaglio del “magico perché”, che anche quella mattina, era
riaffiorato.
“Perché non ci può essere il sole?”
si era chiesta, dopo aver sbirciato dal finestrino i grigi cavalloni che
galoppavano nel cielo d'agosto. Ma poi, vedendo le gocce cadere a fiotti sui campi messi ko dall'afa, si sentì una sciocca. Rise della sua ingenuità
per poi lasciarsi catturare dalle vicende di Boccadoro, l'inquieto
viaggiatore che, come lei, cercava di plasmare la sua ancora informe vita.
La bionda venticinquenne non si
lasciava distrarre dal sussultare del vagone, una seconda classe nuova di
zecca; né si lasciava distrarre dalle chiacchiere del gruppetto di teen-ager
pronte per lo shopping di fine-stagione.
“Io mi comprerò un paio di Richmond!”
cinguettava la reginetta della combriccola, una stangona dalla chioma
platinata, strangolata dai jeans a vita bassa.
Elisa non aveva potuto non notare il
suo look da passerella. Ma adesso era troppo presa dal romanzo per prestare ascolto
alle parole della ragazzina. C'era solo la magia di una narrazione proiettata
in un tempo lontano, che all'improvviso, era diventata il racconto della sua
vita.
Intanto il treno sbuffava e
sfrecciava sui binari, attraversando campi di grano maturo, piccoli boschi
grondanti acqua, campi di girasoli tristi perché non potevano rivolgere le
corolle al loro grande padre. Ci furono prima una, poi
una seconda fermata, ma la ragazza non
si mosse, presa com'era dal suo viaggio nel viaggio. Più andava avanti, più
sentiva crescere l'affinità con Boccadoro, che solo
dopo mille vicissitudini, riusciva a trovare la proprio
vocazione d'artista. Così lei, dopo anni di indecisioni, all'improvviso
si era scoperta cronista. Malgrado la giovane età, era
riuscita a guadagnarsi la stima di tutta la redazione, grazie ai frizzanti
articoli.
“Mi scusi, è libero?”
Una voce virile, calda e avvolgente,
la distolse dalla lettura. Alzò gli occhi e incontrò quelli di un uomo dalla
carnagione scura. Aveva sopracciglia folte, denti bianchissimi e labbra
carnose. Doveva essere un arabo, o un tunisino, non sapeva bene. Elisa era
talmente presa dalle sue ipotesi, che aveva scordato la domanda iniziale.
“Prego?”
“Posso?”
L'arabo indicò la borsa appoggiata
sul sedile di fronte.
“Mi scusi – Elisa l'appoggiò sulle
ginocchia – Prego!”
“Grazie.”
Le sorrise di nuovo, ma un sospetto
atroce la trafisse. Un brivido le attraversò la schiena e subito il “magico
perché” si rivolse all'uomo.
Aveva lineamenti forti e due occhi
misteriosi e minacciosi. Anche il suo sorriso, apparentemente gioviale, celava
qualcosa. Un'insidia forse?
Elisa ripensò alla notizia giunta in
redazione lo scorso 7 luglio. In quel momento la sua mente aveva ripercorso un
itinerario non nuovo: rivide i Pirenei, la Manica, la costa inglese, che cinque
anni prima l'avevano colmata di emozioni positive, ora spodestate dallo
sgomento.
Immaginò le esplosioni, le carni
lacerate, il sangue che schizzava ovunque, gente che urlava disperata, mentre tutt'intorno il morbo della morte
dilagava.
“Mi scusi... Mantova?”
La giovane ritornò in Italia. Il
treno si era fermato a Romanore: un
stazioncina sgangherata, due rotaie in croce e
il vetro che proteggeva la bacheca in cui era esposto il tabellone dell'orario
dei treni scheggiato da alcuni vandali.
Sara guardò dal finestrino. La
pioggia continuava a cadere incessante.
“È la prossima.”
disse.
“Grazie.”
L'uomo roteò gli occhi. O almeno, la
ragazza credé di vedere i suoi occhi compiere quel movimento. Cercò di
allontanare la paura, ma il cuore ballerino non voleva obbedire.
Vide la mano infilarsi nella tasca
interna della giacca. Forse nascondeva un'arma? O forse voleva puntare alla
gola dell'infedele un coltello?
Lentamente tornava fuori, poi
rientrava per afferrare meglio l'oggetto. Elisa si sentiva il petto esplodere,
la gola serrata. Cercò di concentrarsi su Herman Hesse; ma ormai Boccadoro era
fuggito dai suoi pensieri e il volume restava aperto sulle sue ginocchia,
danzando al ritmo dei sussulti del treno.
Ahmed estrasse
il fazzoletto dalla tasca e vedendo il volto della bella compagna di viaggio
rilassarsi, provò una sensazione non nuova. Era una sensazione di rifiuto,
quella barriera eretta da quasi tutti gli italiani che incontrava, per
difendersi dal “pericoloso straniero”.
Quante volte sentiva correre su di
lui occhi timorosi? Quanti poliziotti avevano perquisito la sua borsa,
soprattutto dopo il fattaccio di Londra? Quanti nonni avevano scansato i
nipotini, al suo passaggio?
Eppure Ahmed
non era un criminale.
Era arrivato in Italia dalla Tunisia
otto anni prima. E da allora la sua era stata una vita costellata di lotte. E
tutto a causa di quella laurea non riconosciuta.
Lui era un ingegnere informatico. Ma
in Tunisia non erano molte le possibilità di lavoro; perciò aveva deciso di
partire alla volta del “paese della speranza”. Così chiamava l'Italia, Assja, la sorella maggiore. Anche se non c'era mai stata, lei lo dipingeva
come il paese delle meraviglie, con la sua gente ospitale, il cibo delizioso,
il passato illustre. Ma soprattutto, lo aveva sempre descritto come “il
paese del lavoro”. E allora il giovane ingegnere aveva deciso di andarsene.
Quando arrivò a Roma, sgranò gli
occhi. Era rimasto colpito dal calore delle persone, dagli odori, dal traffico
straripante. Si abituò presto a quella vita; ma quando scoprì che in Italia il
suo titolo di studio non aveva alcun valore, sentì il mondo crollargli addosso.
“Vattene via!” gli disse una volta
una negoziante, cui si era rivolto per lavorare.
Ma ci fu anche chi gli tese la mano.
Per tre anni, Ahmed fu il lavapiatti di un'osteria
della periferia capitolina. Poi arrivò l'11 settembre e da allora la sua vita
era diventata un inferno. Ahmed si sentiva
continuamente additato. Era tunisino, ma per gli altri era un arabo, un
integralista, un terrorista. E allora risalì lo stivale e arrivò a Modena. Lì aveva pulito bagni e
tinteggiato muri; infine era stato
assunto come magazziniere, in un'azienda tessile.
Da un anno viveva in un appartamento
del centro, dove conduceva una vita tutto sommato tranquilla.
I suoi sogni infranti, talvolta
riemergevano. Guardava con un filo di disappunto la pergamena per cui aveva sudato sui libri, invano. Ma almeno, aveva di
che vivere: e questa era l'unica consolazione. Gli unici vizi che aveva, erano
il computer e l'arte; una passione, che lo spingeva a frequentare i musei e i
monumenti sparsi per il Belpaese. Peccato che ad ogni
viaggio corrispondesse sempre l'indice puntato verso di lui, “il terrorista”!
E pensare che Ahmed
non pregava Allah per la guerra, ma per la pace. La sua famiglia seguiva in
modo liberale l'insegnamento di Maometto. Il padre non era un tiranno e le
figlie non erano cresciute come schiave, ma come donne, libere di compiere le
proprie scelte. Il rispetto era un credo cui era aggrappato fin da sempre.
Per questo il tunisino sentì
stringersi il cuore, vedendo che il sospetto increspava il volto della compagna
di viaggio. Per lui era l'ennesima sconfitta.
Ahmed osservò
meglio gli occhi velati di paura. E sotto il velo, ecco due stelle brillare di
un'intelligenza singolare. Era un'intelligenza che non si fermava
all'apparenza, ma che sondava, picchiava con il martello della ragione. A
questo punto, anche in lui s'insidiò il “magico perché”.
“Perché una ragazza tanto sveglia
deve nutrire dei pregiudizi nei miei confronti?”
Elisa, dopo avere spento l'allarme
che le era scattato dentro, lo guardò meglio.
“È un tunisino.” si
disse.
Del resto quei ricci fini fini, quei tratti somatici
erano inconfondibili. E allora pensò a quella terra, alla sua gente, ai
caratteri plasmati dal sole del Mediteraneo. Pensò al
clima nordafricano, ai mercati sempre affollati, agli edifici dalle linee
essenziali, al deserto, la cui asprezza si rifletteva negli occhi dell'uomo.
Erano occhi temprati dal clima ostico, ma anche puri, come la sabbia che
ricopriva le dune.
“Perché dev'essere
per forza un terrorista?” si chiese.
Forse era uno di quei giovani la cui
condizione di emigrato non aveva fatto altro che sbarrargli il passo. Forse in
Italia aveva cercato il lavoro che la burocrazia gli impediva di svolgere e per
questo si era dovuto adeguare, sottomettendosi a padroni che quasi lo
schiavizzavano, umiliandosi, spaccandosi la schiena con lavori che gli italiani
non avrebbero mai fatto. Sul volto non mancavano i segni della fatica, solchi
che attraversavano le guance e la fronte da parte a parte. Gli occhi duri e
tenaci, si chiudevano sotto il peso di nostalgie che non potevano essere
disgiunte ai ricordi del passato, di quella terra che la necessità lo avevano
costretto ad abbandonare.
Quelli erano gli occhi di chi aveva
saputo farsi scivolare addosso critiche, pregiudizi e
mille ingiustizie, senza lasciarsi deviare da falsi credo e fanatismi
ostentati.
Fu allora che ogni timore si sciolse
in un sorriso aperto e sincero, che l'altro ricambiò.
“Che sciocca che sono!” pensò Sara,
finalmente ravvedutasi.
Il treno si fermò. Erano arrivati. Ahmed vide le labbra fini schiudersi, gli occhi chiari
della ragazza brillare di una nuova consapevolezza. Lui per lei non era più un
criminale, ma un viaggiatore come tanti. Lei per lui era una giovane che aveva
saputo scacciare i fantasmi di un incubo inesistente. L'uomo, portandosi una
mano al petto, la salutò. Si alzarono contemporaneamente ed Elisa, radiosa, gli
disse: “Buona giornata!”
Le strade dei due viaggiatori si
separarono. Forse non si sarebbero più incrociate, ma altri itinerari li
attendevano e altri “magici perché” avrebbero permesso di accedere all'essenza
della realtà.