Madre
di Adriana Pedicini
Ricordo che allora il momento tanto
terribile del distacco non fu vissuto da me con vera partecipazione. Sembra
assurdo ma è così.
Un rifiuto della morte come morbo
pestilenziale, una specie di miasma che voleva per forza asfissiarmi e il
timore di una visione macabra e ripugnante cozzavano contro il disperato
bisogno di sentirla ancora viva.
Una madre non può essere per il
figlio un essere contaminato o contaminante, uno spettro, e suscitare immagini
spettrali.
Pur nella rozzezza delle forme,
negli ironici scherzi che la natura opera nei corpi umani, una madre, per il
figlio, è sempre un angelo. L'importante è averla, una madre.
La morte quindi è sua nemica. E la
morte mi tenne lontana dalla stanza in cui giaceva ormai la sua salma, composta
dalla pietà dei parenti e circondata da candelabri lunghi e snelli da una
parte, dall'altra da fasci di fiori anch'essi agonizzanti nell'aria afosa e
buia dell'ambiente, appena rischiarato da un filo di luce che riusciva a
penetrare attraverso lo spiraglio delle imposte socchiuse.
Fin dalle prime ore del pomeriggio
in cui cessò di vivere e per l'intera notte seguente mi tenni lontana da quella
stanza.
Ugualmente con uno strattone mi
liberai dall'abbraccio affettuoso dei parenti, sigillando nel mio silenzio
tutto il doloroso stupore di quell'evento.
Poi d'improvviso il culmine
drammatico di quel distacco.
Non avrei rivisto più mia madre per
anni interi, per un numero infinito di anni, per l'eternità! Eternità! Parola
che annullava la speranza, eliminava ogni possibilità: non sarebbero bastati
gli sforzi di una vita intera a ricongiungermi a lei.
Eternità come infinità, come
nullità!
Sperare d'incontrarmi con lei voleva
dire scoprire e possedere la vastità dello Spazio, varcare e comprendere le
barriere del Tempo, penetrare nel mistero della Vita-Morte e sovvertirne i
principi.
E il cuore vacillava sotto il peso
del senso di impotenza che mi possedeva, la mente si disperava.
Corsi allora a racimolare brevi
attimi di convivenza, a sottrarre al tempo un ultimo tacito colloquio, a
stabilire un estremo patto di amore eterno.
E la ri-vidi, la ri-conobbi, la
ri-scoprii bella, sorridente, serena, come non mi sarei mai aspettata si
potesse essere nella immobilità della morte.
Gli ultimi giorni di sofferenza le
avevano scalfito le gote, le labbra si erano contorte come in un piccolo
cerchio che a mala pena lasciava passare un piccolo soffio vitale. Gli occhi
soltanto parlavano, tumidi di lacrime, mentre lentamente si volgevano ora qua
ora là verso l'uno o l'altro dei figli.
Non avendo capito l'estremità
dell'ora, sedevo su di uno sgabello, accanto a lei, mano nella mano,
illudendomi di rinvigorire col mio calore quel tepore freddo che mi sembrava di
cogliere al contatto.
Ad un tratto avvertii una specie di
scarica elettrica, uno sciame di leggere vibrazioni che dalla sua mano
passavano alla mia. Ne rimasi turbata e ricacciai indietro il timore che si
trattasse per lei del passaggio fatale, per me dell'estremo messaggio.
Ora invece, di nuovo seduta accanto
a lei, di nuovo mano nella mano, la contemplavo, con la punta delle dita le
carezzavo la fronte, la baciavo, appena sfiorandole le gote ora di nuovo lisce
e distese.
Cercavo di assorbire nella mente e
nell'anima quanto più possibile della sua immagine, quasi che io stessa potessi
farmi custodia di una sua forma incorporea. Perché fosse, però, più
corrispondente al vero, il giorno dopo tracciai sul mio diario segreto, di lei,
il volto dell'ultimo istante, il sorriso disteso con cui aveva salutato la
vita.
Scorrendo inesorabilmente il tempo
cercava di cancellare quell'immagine dalla mia mente; questa reagiva
ripercorrendo, quasi fisicamente, i sentieri della nostra vita in comune
cercando di fissare un'espressione, uno sguardo, una parola.
Tutto dunque si risolveva in una
lotta impari tra l'inevitabile fluire dei giorni e la memoria che tentava di
rendere quanto più vigorose e nette le immagini.
Ne derivava un dolore quasi fisico,
ricorrente, soffocante; di notte mi sorprendevo a piangere dormendo e il
risveglio mi sgomentava per la certezza che un destino crudele aveva cancellato
in un attimo un mondo di affetti, un'esistenza tenera di cui avevo tanto
bisogno ancora, e per la quale dovevo rappresentare certamente ancora uno degli
scopi della vita.
Il ricordo non era accompagnato dal
sapore dolce della nostalgia, dalla pacata amarezza del rimpianto. Era trafitto
dalle spine di un dolore grondante ancora di lacrime tristi.
Ma un filo di luce doveva alla fine
rischiarare le tenebre dell'animo prostrato.
I miei bambini mi chiesero un giorno
perché mai i miei occhi si riempissero di lacrime ogni qualvolta guardavo
l'immagine di lei sul comodino.
Cominciai, allora, a parlare loro in
modo tenero e affettuoso di quella cara figura che essi non avevano conosciuto,
ma di cui pur avvertivano la presenza nel mondo affettivo che li circondava.
Eliminai però, per non angosciarli,
dalle parole ogni velo di tristezza, ogni rimpianto struggente, ogni senso di
vuoto sgomento.
Mi accorsi, allora, che come acqua
sorgiva zampilla con vigore dalla roccia, così il ricordo, trasparente e
concreto a un tempo, limpidamente fluiva dalla mia mente e dolcemente si
concretizzava nelle parole. Mai mi ero accorta della straordinaria possibilità
che avevo di renderla viva. Avevo riscoperto a livello di pensiero la sua nuova
identità e la possibilità per lei di sopravvivere, per me di crederla viva.
Ricreata da questa convinzione, la realtà riemergeva, seppure in altra
dimensione.
Non più ricercai assurde immagini di
un volto che ormai aveva i suoi lineamenti stemperati nell'infinità dello
spirito, non rimpiansi più il tepore di un corpo che aveva acquisito le
proporzioni infinite dell'anima.
Per quella sconvolgente e
drammatica, misteriosa e divina equazione Vita-Morte e Morte-Vita, riscoprii
Lei-Madre in me madre, parti infinitesimali di un disegno, che seppure ci aveva
viste protagoniste di un particolare momento drammatico, aveva però un respiro
e un significato universale.