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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Brandelli di sogno di Donatella Franceschi 12/01/2007
 

Brandelli di sogno

 

 

Leggevo il giornale, quel giorno.

Un'azione normale, quotidiana.

Un'azione che compio imperterrita tutte le mattine.

Mi alzo di buon'ora, a volte anche prima che la sveglia si metta a urlare, urlare e urlare come un'ossessa.

 

Mi ero alzata quel giorno, come avevo fatto tutti i numerosi giorni addietro.

Le stesse azioni ripetute come un automa. Sempre le stesse.

Gli occhi impastati di sonno e sporcizia, che ancora rimandano le immagini oniriche e inquietanti della lunga siesta notturna.

Le mani che subito corrono a cancellare, con i loro movimenti lenti e ritmati, quegli ultimi brandelli di sogno.

Inspiegabile, proprio in quei momenti, sento la realtà incombere con tutta la sua carnalità. Percepisco il mio corpo, la mia anima, soccombere sotto il suo peso e sotto il suo peso soffocare.

Mi levai e mi misi a sedere sulla sponda del letto. I piedi a contatto con le mattonelle rossicce del pavimento.

Rimasi là, ferma per qualche istante, assorta nel dissolversi dolce dei miei pensieri.

Infilai i piedi nelle pantofole vecchie e sporche.

Mi alzai, mi stiracchiai come un gatto, sbuffai, sbadigliai rumorosamente, urlai : “Buon giorno!”

L'urlo riecheggiò lieve nella stanza, rimbalzando violento contro le mura della stessa, che gli sbarravano il passo.

L'urlo fu ricacciato a terra dall'urto, spegnendosi di colpo come una candela accesa.

 

Mi diressi verso la porta chiusa.

Girai la chiave nella toppa.

Fatto ciò, sostai un attimo come a riprender fiato.

Osservai la maniglia.

Dubitai che i demoni notturni avessero abbandonato le stanze vuote della casa.

Pensai che, dopotutto, nascondendosi dai graffianti raggi del sole nascente avessero potuto, prima o poi, architettare una trappola ai miei danni.

Un giorno, infatti, avrei potuto ruotare la maniglia e aprendo la porta, trovarmeli tutti lì; e una volta aperta la porta non avrei più avuto la forza di ricacciarli indietro.

La mia anima sarebbe andata perduta.

Perduta per l'eternità.

 

Portai, veloce, la mano sinistra al cuore e poi al crocifisso legato a una corda, che portavo sempre con me.

Mi misi a pregare.

La mano stretta al crocifisso.

Il cuore che batteva rapido.

Gli occhi chiusi.

Le labbra mute che si aprivano e si sfioravano.

 

Finalmente, dopo essermi riappacificata e dopo aver visto che i fasci di luce solare irradiavano ormai, irrimediabilmente e da lungo tempo, tutta la stanza, potei, finalmente, tranquillizzarmi.

I demoni non potevano sopravvivere a tutta quella luce.

Aprii, quindi, la porta.

La spalancai.

Sostai sulla soglia.

“Buon giorno!” gridai.

Le parole, i suoni danzarono e volteggiarono indisturbati nell'aria, trastullandosi dissoluti per le stanze spoglie di vita e vagabondandovi senza requie.

 

Nessuno rispose.

 

La danza imperversò, senza sosta, fino al tramonto.

 

Andai in cucina.

Accesi la luce.

Riempii un pentolino con dell'acqua del rubinetto e lo misi sul fuoco.

Dopodiché mi diressi verso la porta di casa.

Presi le chiavi; le girai, una dopo l'altra, finché con l'ultimo scrocco potei aprirla.

Vi era un giornale gettato sullo stoino a forma di casa.

Il solito giornale.

Mi accucciai sulle ginocchia e lo presi.

Dopo essermi rialzata richiusi nuovamente la porta.

Girai, una dopo l'altra, tutte le chiavi, finché, con l'ultimo scrocco, ebbi la prova tangibile che tutto era ritornato al suo stato iniziale.

La porta era nuovamente chiusa.

Io ero nuovamente salva.

 

Ritornai in cucina.

L'acqua stava borbottando da tempo.

Spensi il gas.

Gettai, distratta, una bustina d'infuso dentro il pentolino.

 

Andai in bagno.

Appoggiai il giornale su una mensola accanto al lavabo.

Gettai gli indumenti sul pavimento.

L'acqua silenziosa iniziò a rigare il mio corpo, purificandolo.

 

Leggevo il giornale, quel giorno.

Un'azione normale, quotidiana.

Un'azione che compio imperterrita tutte le mattine.

Mi alzo di buon'ora, a volte anche prima che la sveglia si metta a urlare, urlare e urlare come un'ossessa.

 

 

Ero raggomitolata per terra. Appoggiavo la schiena al muro. Le mie natiche premevano contro il pavimento freddo.

Il giornale aperto di fronte a me.

Fin qui nulla di strano.

Erano trascorsi appena dieci minuti da quando avevo iniziato la mia lettura che il telefono si mise a suonare.

 

Il suono dell'apparecchio riempi, di colpo, il vuoto delle stanze.

Mi alzai e mi appropinquai ad esso.

Sollevai, titubante, la cornetta portandola all'orecchio.

“Pronto…” sussurrai tremante.

 

Nessuno rispose

 

“Pro… nto…” sussurrai ancora, la voce spezzata.

 

Nessuna risposta.

 

“Chi è?” sbiascicai in preda ai singhiozzi

Insperata una voce rispose, lontana.

“Sono io.”

“Io? Io chi? Mi stai facendo paura! Chi sei?” mi misi quasi ad urlare, combattuta tra il sollievo che qualcuno avesse risposto e la paura dell'ignoto.

“Lo sai chi sono. Non c'è alcun bisogno che te lo ripeta. Ci siamo già viste. Ho già fugato, una volta, ogni tuo dubbio o paura.

A questa risposta non riuscii a controbattere.

Gli occhi umidi di pianto. Un singhiozzo in gola, strozzato sul nascere.

Cercai, rapida, di riportare alla mente dal labirinto disordinato della mia memoria le voci, le tante voci, delle persone che avevo conosciuto nella mia vita.

Esse, come tirate da un filo invisibile, rivennero a galla.

Una sull'altra. Una mischiata all'altra.

Il passato mi investì senza riguardo e le voci si misero a vorticarmi intorno in una danza furiosa e sfrenata.

Gridavano, discutevano, ridevano, predicavano, ordinavano, redarguivano, amavano, ferivano, deridevano.

Tutte insieme. Tante, infinite, bocche si aprivano e chiudevano mostrando i loro denti perfetti o marci, disperdendo nell'aria i loro aliti pesanti e cattivi.

Le voci si acquietarono infine, e tornarono ad immergersi nella fangosa marmaglia da cui erano sorte.

Riacquistata nuovamente la pace dei sensi, calato nuovamente il silenzio, la voce riprese a parlare

“Allora mi hai riconosciuto?”

“No,” risposi ancora confusa.

“Non fa niente, vedrai che a breve ti ricorderai di me. Vedi, ormai è giunto il tempo che tu abbandoni infine la tua casa. E' giunto il tempo che tu mi segua.”

“Ti segua? Ma di cosa stai parlando? Chi sei? Che cosa vuoi da me?” urlai di nuovo dentro la cornetta del telefono.

 

Nessuna risposta.

 

“Chi sei? Chi sei?  Vattene via! Che cosa vuoi da me?” mi misi a gridare fuori di me, mentre uno strano e terrificante sospetto, a fatica, iniziava a farsi strada nella mia mente spaventata.

 

Nessuno rispose.

 

Riagganciai il telefono.

 

Mi avvolsi in una coperta e ritornai a sedermi per terra, dove mi trovavo prima.

Appoggiavo la schiena al muro. Le mie natiche premevano contro il pavimento freddo.

Il giornale aperto di fronte a me.

Ripresi la lettura da dove ero stata costretta a interromperla.

Gli occhi seguivano le fitte righe macchiate d'inchiostro, ma ormai non vi balenava più in essi alcun vero interesse, erano assenti, distratti, rapiti da altri pensieri.

Spostai lo sguardo dalle pagine del giornale e lo portai verso il muro di fronte. Bianco.

Lo sguardo vagava a briglie sciolte.

Quella telefonata mi aveva messo veramente paura.

Decisi, quindi, che avrei dovuto chiamare qualcuno per raccontare dell'accaduto.

Forse Angela.

Non capivo proprio come certe persone potessero divertirsi facendo degli scherzi così stupidi e sciocchi, ma che a chi li riceveva non risultavano assolutamente tali.

 

Mi accoccolai ancora di più nella coperta calda e pesante che mi avvolgeva.

Il freddo che poco prima sembrava avermi vinta e paralizzata se ne stava finalmente scivolando via paziente, lasciando il posto a un tepore dolce e rilassante.

Un tepore che invase, pian piano, sulle punte dei piedi tutto il mio corpo.

Iniziai a sentire la testa pesante. Le palpebre che volevano chiudersi.

Il corpo si andava abbandonando a quel torpore che ormai mi aveva avvinta a sé, irrimediabilmente.

Ma prima di cadere preda di quell'invito, prima di distendermi avvolta nel mio drappo sulla terra fredda, mi cadde, inspiegabile, l'occhio su un trafiletto del giornale.

Non avevo alcuna intenzione di leggere ancora ma sta di fatto che i miei occhi vennero come guidati su quel piccolo, insignificante trafiletto, che ben pochi lettori, anche i più accaniti e puntigliosi, si sarebbero dati la pena di scorgere e di leggere.

Non ricordo bene di cosa parlasse. E' tutto così confuso.

 

Rammento solo e vagamente che riguardava il ritrovamento del cadavere di una donna.

Il corpo era stato rinvenuto a una settimana di distanza dalla morte.

Un' amica della donna, non avendo più sue notizie da diversi giorni, aveva allertato la polizia.

Un infarto.

L'infarto, mi pare, era stata la causa della morte.

Viveva sola, appartata.

Pochi, lontani e distratti parenti.

Pochi, sporadici amici.

I vicini la definivano una signora a modo, un po' bizzarra forse, molto tranquilla e schiva… un tipo solitario insomma.

 

― Curioso… ― rammento di aver farneticato tra me e me, prima che la mia mente, i miei pensieri iniziassero ad annebbiarsi come rapiti da un lungo stato di incoscienza

Da un lungo sonno.

Dopo essermi distesa dolcemente, con la dovuta cautela, sul pavimento freddo e avvolta nella pesante coperta, chiusi gli occhi.

 

Subito la notte invase il mio corpo

Subito l'oscurità sgusciò dentro le mie spoglie mortali, prive ormai di alcuna difesa, e ne prese possesso trascinandomi e sospingendo la mia anima via con sé.

 

 
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