Brandelli di sogno
Leggevo il giornale,
quel giorno.
Un'azione normale,
quotidiana.
Un'azione che compio
imperterrita tutte le mattine.
Mi alzo di buon'ora, a volte anche prima che la sveglia si metta a
urlare, urlare e urlare come un'ossessa.
Mi ero alzata quel
giorno, come avevo fatto tutti i numerosi giorni addietro.
Le stesse azioni
ripetute come un automa. Sempre le stesse.
Gli occhi impastati di
sonno e sporcizia, che ancora rimandano le immagini oniriche e inquietanti
della lunga siesta notturna.
Le mani che subito
corrono a cancellare, con i loro movimenti lenti e ritmati, quegli ultimi
brandelli di sogno.
Inspiegabile, proprio in
quei momenti, sento la realtà incombere con tutta la sua carnalità. Percepisco
il mio corpo, la mia anima, soccombere sotto il suo peso e sotto il suo peso
soffocare.
Mi levai e mi misi a
sedere sulla sponda del letto. I piedi a contatto con le mattonelle rossicce
del pavimento.
Rimasi là, ferma per
qualche istante, assorta nel dissolversi dolce dei miei pensieri.
Infilai i piedi nelle
pantofole vecchie e sporche.
Mi alzai, mi stiracchiai
come un gatto, sbuffai, sbadigliai rumorosamente, urlai :
“Buon giorno!”
L'urlo riecheggiò lieve
nella stanza, rimbalzando violento contro le mura della stessa, che gli sbarravano
il passo.
L'urlo fu ricacciato a
terra dall'urto, spegnendosi di colpo come una candela accesa.
Mi diressi verso la
porta chiusa.
Girai la chiave nella
toppa.
Fatto ciò, sostai un
attimo come a riprender fiato.
Osservai la maniglia.
Dubitai che i demoni
notturni avessero abbandonato le stanze vuote della casa.
Pensai che, dopotutto,
nascondendosi dai graffianti raggi del sole nascente avessero potuto, prima o
poi, architettare una trappola ai miei danni.
Un giorno, infatti,
avrei potuto ruotare la maniglia e aprendo la porta, trovarmeli tutti lì; e una
volta aperta la porta non avrei più avuto la forza di ricacciarli indietro.
La mia anima sarebbe
andata perduta.
Perduta per l'eternità.
Portai, veloce, la mano
sinistra al cuore e poi al crocifisso legato a una corda, che portavo sempre
con me.
Mi misi a pregare.
La mano stretta al
crocifisso.
Il cuore che batteva
rapido.
Gli occhi chiusi.
Le labbra mute che si
aprivano e si sfioravano.
Finalmente, dopo essermi
riappacificata e dopo aver visto che i fasci di luce solare irradiavano ormai,
irrimediabilmente e da lungo tempo, tutta la stanza, potei, finalmente,
tranquillizzarmi.
I demoni non potevano
sopravvivere a tutta quella luce.
Aprii, quindi, la porta.
La spalancai.
Sostai sulla soglia.
“Buon giorno!” gridai.
Le parole, i suoni
danzarono e volteggiarono indisturbati nell'aria, trastullandosi dissoluti per
le stanze spoglie di vita e vagabondandovi senza requie.
Nessuno rispose.
La danza imperversò,
senza sosta, fino al tramonto.
Andai in cucina.
Accesi la luce.
Riempii un pentolino con
dell'acqua del rubinetto e lo misi sul fuoco.
Dopodiché mi diressi
verso la porta di casa.
Presi le chiavi; le
girai, una dopo l'altra, finché con l'ultimo scrocco potei aprirla.
Vi era un giornale
gettato sullo stoino a forma di casa.
Il solito giornale.
Mi accucciai sulle
ginocchia e lo presi.
Dopo essermi rialzata
richiusi nuovamente la porta.
Girai, una dopo l'altra,
tutte le chiavi, finché, con l'ultimo scrocco, ebbi la prova tangibile che
tutto era ritornato al suo stato iniziale.
La porta era nuovamente
chiusa.
Io ero nuovamente salva.
Ritornai in cucina.
L'acqua stava
borbottando da tempo.
Spensi il gas.
Gettai, distratta, una
bustina d'infuso dentro il pentolino.
Andai in bagno.
Appoggiai il giornale su
una mensola accanto al lavabo.
Gettai gli indumenti sul
pavimento.
L'acqua silenziosa
iniziò a rigare il mio corpo, purificandolo.
Leggevo il giornale, quel
giorno.
Un'azione normale,
quotidiana.
Un'azione che compio
imperterrita tutte le mattine.
Mi alzo di buon'ora, a volte anche prima che la sveglia si metta a
urlare, urlare e urlare come un'ossessa.
Ero raggomitolata per
terra. Appoggiavo la schiena al muro. Le mie natiche premevano contro il
pavimento freddo.
Il giornale aperto di
fronte a me.
Fin qui nulla di strano.
Erano trascorsi appena
dieci minuti da quando avevo iniziato la mia lettura che il telefono si mise a
suonare.
Il suono dell'apparecchio
riempi, di colpo, il vuoto delle stanze.
Mi alzai e mi
appropinquai ad esso.
Sollevai, titubante, la
cornetta portandola all'orecchio.
“Pronto…” sussurrai
tremante.
Nessuno rispose
“Pro… nto…” sussurrai ancora, la voce spezzata.
Nessuna risposta.
“Chi è?” sbiascicai in
preda ai singhiozzi
Insperata una voce
rispose, lontana.
“Sono io.”
“Io? Io chi? Mi stai
facendo paura! Chi sei?” mi misi quasi ad urlare,
combattuta tra il sollievo che qualcuno avesse risposto e la paura dell'ignoto.
“Lo sai chi sono. Non
c'è alcun bisogno che te lo ripeta. Ci siamo già
viste. Ho già fugato, una volta, ogni tuo dubbio o paura.”
A questa risposta non
riuscii a controbattere.
Gli occhi umidi di
pianto. Un singhiozzo in gola, strozzato sul nascere.
Cercai, rapida, di riportare
alla mente dal labirinto disordinato della mia memoria le voci, le tante voci,
delle persone che avevo conosciuto nella mia vita.
Esse, come tirate da un
filo invisibile, rivennero a galla.
Una sull'altra. Una
mischiata all'altra.
Il passato mi investì
senza riguardo e le voci si misero a vorticarmi intorno in una danza furiosa e
sfrenata.
Gridavano, discutevano,
ridevano, predicavano, ordinavano, redarguivano, amavano, ferivano, deridevano.
Tutte insieme. Tante, infinite, bocche si aprivano e chiudevano
mostrando i loro denti perfetti o marci, disperdendo nell'aria i loro aliti
pesanti e cattivi.
Le voci si acquietarono
infine, e tornarono ad immergersi nella fangosa marmaglia da cui erano sorte.
Riacquistata nuovamente
la pace dei sensi, calato nuovamente il silenzio, la voce riprese a parlare
“Allora mi hai
riconosciuto?”
“No,”
risposi ancora confusa.
“Non fa niente, vedrai
che a breve ti ricorderai di me. Vedi, ormai è giunto il tempo che tu abbandoni
infine la tua casa. E' giunto il tempo che tu mi segua.”
“Ti segua? Ma di cosa
stai parlando? Chi sei? Che cosa vuoi da me?” urlai di
nuovo dentro la cornetta del telefono.
Nessuna risposta.
“Chi sei? Chi sei? Vattene via! Che cosa vuoi
da me?” mi misi a gridare fuori di me, mentre uno strano e terrificante
sospetto, a fatica, iniziava a farsi strada nella mia mente spaventata.
Nessuno rispose.
Riagganciai il telefono.
Mi avvolsi in una
coperta e ritornai a sedermi per terra, dove mi trovavo prima.
Appoggiavo la schiena al
muro. Le mie natiche premevano contro il pavimento freddo.
Il giornale aperto di
fronte a me.
Ripresi la lettura da
dove ero stata costretta a interromperla.
Gli occhi seguivano le
fitte righe macchiate d'inchiostro, ma ormai non vi balenava più in essi alcun vero interesse, erano assenti, distratti, rapiti
da altri pensieri.
Spostai lo sguardo dalle
pagine del giornale e lo portai verso il muro di fronte. Bianco.
Lo sguardo vagava a
briglie sciolte.
Quella telefonata mi
aveva messo veramente paura.
Decisi, quindi, che
avrei dovuto chiamare qualcuno per raccontare dell'accaduto.
Forse Angela.
Non capivo proprio come
certe persone potessero divertirsi facendo degli scherzi così stupidi e
sciocchi, ma che a chi li riceveva non risultavano assolutamente tali.
Mi accoccolai ancora di
più nella coperta calda e pesante che mi avvolgeva.
Il freddo che poco prima
sembrava avermi vinta e paralizzata se ne stava finalmente scivolando via
paziente, lasciando il posto a un tepore dolce e rilassante.
Un tepore che invase,
pian piano, sulle punte dei piedi tutto il mio corpo.
Iniziai a sentire la
testa pesante. Le palpebre che volevano chiudersi.
Il corpo si andava
abbandonando a quel torpore che ormai mi aveva avvinta a sé, irrimediabilmente.
Ma prima di cadere preda
di quell'invito, prima di distendermi avvolta nel mio
drappo sulla terra fredda, mi cadde, inspiegabile, l'occhio su un trafiletto
del giornale.
Non avevo alcuna
intenzione di leggere ancora ma sta di fatto che i
miei occhi vennero come guidati su quel piccolo, insignificante trafiletto, che
ben pochi lettori, anche i più accaniti e puntigliosi, si sarebbero dati la
pena di scorgere e di leggere.
Non ricordo bene di cosa
parlasse. E' tutto così confuso.
Rammento
solo e vagamente che riguardava il ritrovamento del cadavere di una donna.
Il corpo
era stato rinvenuto a una settimana di distanza dalla morte.
Un' amica
della donna, non avendo più sue notizie da diversi giorni, aveva allertato la polizia.
Un
infarto.
L'infarto,
mi pare, era stata la causa della morte.
Viveva
sola, appartata.
Pochi,
lontani e distratti parenti.
Pochi,
sporadici amici.
I vicini
la definivano una signora a modo, un po' bizzarra forse, molto tranquilla e
schiva… un tipo solitario insomma.
― Curioso… ―
rammento di aver farneticato tra me e me, prima che la mia mente, i miei
pensieri iniziassero ad annebbiarsi come rapiti da un lungo stato di incoscienza
Da un lungo sonno.
Dopo essermi distesa
dolcemente, con la dovuta cautela, sul pavimento freddo e avvolta nella pesante
coperta, chiusi gli occhi.
Subito la notte invase
il mio corpo
Subito l'oscurità
sgusciò dentro le mie spoglie mortali, prive ormai di alcuna difesa, e ne prese
possesso trascinandomi e sospingendo la mia anima via con sé.