Bed & Beakfast: Panama
di massimolegnani
Stiamo sbucciando piselli sotto il portico e intanto
ascoltiamo un vecchio CD di De Andrè
…ecco, Milena, tu
non sei certo una da “fiori appassiti al sole”.
Clelia ha preso
al volo le parole della canzone per indirizzarmi una frecciatina dal retrogusto
astioso.
Do una lieve scrollata di spalle,
accenno un sorriso e non ribatto. Non ribatto mai alla mia amica quando mi
provoca.
È un'amicizia antica ma irrisolta la
nostra, fatta di affetto e reciproco dispetto. Io m'indispettisco dopo un po'
che parla, non solo per quel che dice, ma proprio perché dice, dice e non tace
mai. Ha voce lamentosa e inesauribile mentre io sono portata a brevi risa e
silenzi prolungati. Clelia da parte sua non
mi perdona quello che definisce il mio eccesso di stabilità sentimentale. In
realtà non ho mai capito se me lo rimproveri o me lo invidi, forse entrambi. In
ogni caso è lei, secondo me, ad avere un eccesso di turbolenza negli affetti.
Ci sono sempre amori in corso che mi vuole confidare, storie intricate da cui
ogni volta temo che esca con le ossa rotte. Ma soprattutto le piace rievocare
legami ormai trascorsi, li rivive a modo suo correggendo di volta in volta i
fatti e abbellendo le emozioni. E così confezionati secondo i suoi canoni
cosmetici di memoria e umore, entrambi assai volatili, me li presenta con una
punta di rimpianto che vorrebbe fosse condiviso e contraccambiato.
Ma io odio il rimpianto e non amo
confidarmi.
È vero, non faccio appassire i fiori al sole,
piuttosto li faccio vivere alla penombra del ricordo e li curo con passione
solamente quando nessuno mi è vicino.
C'è un fiordaliso fresco sul fondo
dell'Atlante. Io ne sono la custode, lo rinnovo spesso con una devozione muta
che non ha nulla di cimiteriale. Non ho bisogno di sfogliare il gran librone,
in dieci anni non l'ho mai fatto, apro e so esattamente su quale pagina far
riposare il fiore e perché debba stare lì e non altrove.
Queensland, Terra della
Regina.
Sono stata io quella regina, io
quella terra attraversata a piedi, e lui il mio re per una notte, lui il mio
conquistatore e suddito.
Ho ancora le sue dita sulla pelle,
il tocco lento con cui mi andava conoscendo senza fretta e già sembrava
conoscermi da sempre, tanto tranquilli e naturali erano i gesti. Ancora mi
attraversa il brivido per quelle spalline scostate poco a poco e per quei suoi
occhi grandi color di foglia in attesa golosa che affiorasse alla fine il seno.
E poi le mani a coppa come volesse farne un calco e la voce, nel frattempo,
roca, stupefatta, che pronunciava il mio nome, unica parola nella notte,
prolungando la e all'infinito e inciampando quasi nella afinale, una storpiatura melodiosa che ancora mi
rimbomba e culla. Quindi improvviso il sopravvento del tempo stretto, la
consapevolezza di non altre ore nella vita, la bella furia del momento e la
necessità della memoria, che nulla fosse tralasciato e niente andasse perso, e
quel bisogno tassativo di scambiarci con la pelle le vite e gli occhi. Il peso
del suo corpo diventato un continente intero eppure così leggero nel
scivolarmi dentro, io queste colline a pascolo e vigneti, io così minuta ad
accoglierlo e contenerlo tutto.
Quella mattina mi salutò sulla porta
come le precedenti, una carezza impacciata al primo sole e un sorriso bambino
con già l'enorme zaino in spalla. Ma questa volta sapevamo che non ci sarebbe
stato un ritorno a sera. E non era una cosa triste, era qualcosa di compiuto.
Nessuno in questi anni, non mio
marito che d'altronde è un po' distratto, non Clelia che
pure è assai curiosa, mi ha mai chiesto il perché e la provenienza di questo
cappellaccio, decisamente troppo largo per me e ormai sformato, che mi ostino a
calarmi in testa quando vado in orto o a passeggio con loro per le Crete. In
fondo mi dispiace, perché in risposta, almeno a lei, avrei canticchiato
sventolandomi col panama:
…e un ridere
rauco/ e ricordi tanti/ e nemmeno un rimpianto.