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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Una lettera, di massimolegnani 16/05/2016
 

Una lettera

di massimolegnani

 

 

 

Carissimi mamma e papà,

non sono mai arrivata a dirle queste parole facili, questi suoni naturali che ogni bambino prima emette e poi impara, sbattendo appena un po' le labbra mentre gli esce l'aria dalla bocca.

Ogni bambino, io no. Quanti “io no” ci sono stati in questi mesi!

Sono partita male, nascere è stato come arrampicarmi su una parete di alta montagna senza ossigeno. Sono arrivata fino in cima, fino alla vita, distrutta.

Che delusione devo essere stata per voi. Eppure dal primo giorno l'ho sentito il vostro fiato caldo su di me, il vostro tifo come fossi un calciatore, la vostra fiducia come racchiudessi ancora chissà quali speranze.

Ci siamo voluti bene, noi, in silenzio, coi pochi mezzi che avevamo per dircelo. Avete imparato in fretta a cogliere i miei gesti poveri e a gioire con me delle mie piccole enormi conquiste. Quante conquiste che nessuno all'infuori di noi poteva capire. Lo sbattere di ciglia come farfalle, l'increspare delle labbra alla vostra voce, e voi lo chiamavate sorriso e sorriso era per me, e le guance più distese al contatto con la vostra mano e gli occhi più vivaci a cercare il vostro sguardo.

Ho combattuto, sapete? Ho combattuto sempre, non mi sono mai arresa; ho accettato la solitudine dell'incubatrice,  prima, e del lettino d'ospedale, poi, e gli aghi e i tubi in questo corpo fermo, perché nonostante tutto volevo vivere.

Ho fatto la mia parte ma adesso sono stanca, vorrei addormentarmi piano con voi vicino.

Ecco, così. E adesso lasciatemi andare e fatemi un sorriso se potete.

                                                         Ciao mamma, ciao papà

 

                                                                  Alessandra

 

Questa lettera non è nata per un blog e forse qui non ci dovrebbe nemmeno stare. Ne ho ritrovata una copia l'altro giorno quando, dopo un anno, mi sono deciso a mettere ordine tra le cose portate via dai miei cassetti d'ospedale. L'avevo scritta di getto la notte in cui Alessandra è morta, una morte non certo improvvisa ma lenta quanto il suo anno di vita. Una bambina durata poco e male, come un fiore stentato, ma una bambina che con i suoi frequenti e lunghi ricoveri aveva creato una rete di legami tra noi e i suoi genitori che ci apparivano sempre più smarriti. Lei un viso pacioso da panettiera, lui un ragazzotto solido che si divideva tra terra e camion, due come tanti, fiduciosi che la vita è bella e increduli di aver già rotto i propri sogni. In quei mesi noi siamo diventati il loro rifugio, il reparto il luogo dove deporre l'ansia e rifiatare.

E una sera sono tornati con la bambina, questa volta non per consigli o estreme cure ma per fare consapevoli il percorso inverso all'altra gente, che di solito i parenti moribondi se li porta a casa quasi di nascosto. Loro no, loro hanno voluto passare con noi le ultime ore di Alessandra. E allora la Pediatria è diventata il luogo delle coccole, quelle dolci di Monica, quelle ruvide di Emilia, quelle rustiche di Antonietta, lacrime e risate, intellettuali quelle di Mauri, ciarliere quelle di Laura, sorridenti quelle di Nico, pratiche quelle di Annetta. Insomma ognuno ha fatto la sua parte, ciascuno ha tenuto in mano un pezzo del filo rosso che ci unisce. E io? Beh, io, che ho qualche difficoltà a cedere calore in un abbraccio, ho fatto d'istinto quello che so fare, scrivere, per fare sentire ai genitori la voce della loro figlia. E la mia scrittura per una volta so che ha avuto senso.

 

 
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