Una lettera
di massimolegnani
Carissimi mamma
e papà,
non sono mai arrivata a dirle queste
parole facili, questi suoni naturali che ogni bambino prima emette e poi
impara, sbattendo appena un po' le labbra mentre gli esce l'aria dalla bocca.
Ogni bambino, io no. Quanti “io no”
ci sono stati in questi mesi!
Sono partita male, nascere è stato
come arrampicarmi su una parete di alta montagna senza ossigeno. Sono arrivata
fino in cima, fino alla vita, distrutta.
Che delusione devo essere stata per
voi. Eppure dal primo giorno l'ho sentito il vostro fiato caldo su di me, il
vostro tifo come fossi un calciatore, la vostra fiducia come racchiudessi
ancora chissà quali speranze.
Ci siamo voluti bene, noi, in
silenzio, coi pochi mezzi che avevamo per dircelo. Avete imparato in fretta a
cogliere i miei gesti poveri e a gioire con me delle mie piccole enormi
conquiste. Quante conquiste che nessuno all'infuori di noi poteva capire. Lo
sbattere di ciglia come farfalle, l'increspare delle labbra alla vostra voce, e
voi lo chiamavate sorriso e sorriso era per me, e le guance più distese al
contatto con la vostra mano e gli occhi più vivaci a cercare il vostro sguardo.
Ho combattuto, sapete? Ho combattuto
sempre, non mi sono mai arresa; ho accettato la solitudine
dell'incubatrice, prima, e del lettino d'ospedale, poi, e gli aghi e
i tubi in questo corpo fermo, perché nonostante tutto volevo vivere.
Ho fatto la mia parte ma adesso sono
stanca, vorrei addormentarmi piano con voi vicino.
Ecco, così. E adesso lasciatemi
andare e fatemi un sorriso se potete.
Ciao
mamma, ciao papà
Alessandra
Questa lettera non è nata per un
blog e forse qui non ci dovrebbe nemmeno stare. Ne ho ritrovata una copia
l'altro giorno quando, dopo un anno, mi sono deciso a mettere ordine tra le
cose portate via dai miei cassetti d'ospedale. L'avevo scritta di getto la
notte in cui Alessandra è morta, una morte non certo improvvisa ma lenta quanto
il suo anno di vita. Una bambina durata poco e male, come un fiore stentato, ma
una bambina che con i suoi frequenti e lunghi ricoveri aveva creato una rete di
legami tra noi e i suoi genitori che ci apparivano sempre più smarriti. Lei un
viso pacioso da panettiera, lui un ragazzotto solido che si divideva tra terra
e camion, due come tanti, fiduciosi che la vita è bella e increduli di aver già
rotto i propri sogni. In quei mesi noi siamo diventati il loro rifugio, il
reparto il luogo dove deporre l'ansia e rifiatare.
E una sera sono tornati con la
bambina, questa volta non per consigli o estreme cure ma per fare consapevoli
il percorso inverso all'altra gente, che di solito i parenti moribondi se li
porta a casa quasi di nascosto. Loro no, loro hanno voluto passare con noi le
ultime ore di Alessandra. E allora la Pediatria è diventata il luogo delle
coccole, quelle dolci di Monica, quelle ruvide di Emilia, quelle rustiche di
Antonietta, lacrime e risate, intellettuali quelle di Mauri, ciarliere quelle
di Laura, sorridenti quelle di Nico, pratiche quelle di Annetta. Insomma ognuno
ha fatto la sua parte, ciascuno ha tenuto in mano un pezzo del filo rosso che
ci unisce. E io? Beh, io, che ho qualche difficoltà a cedere calore in un abbraccio,
ho fatto d'istinto quello che so fare, scrivere, per fare sentire ai genitori
la voce della loro figlia. E la mia scrittura per una volta so che ha avuto
senso.