Storia di un parroco di campagna
di Stefano
Giannini
Al termine della lunga e commovente
cerimonia, il Vescovo lo convocò per il giovedì successivo. Quella appena
trascorsa era stata un'intensa giornata, piena di tensione e d'emozioni. Si era
coronato un sogno per il quale aveva speso buona parte dei suoi 23 anni,
passati nello studio e nella preghiera. Il pensiero del prossimo
incontro col Vescovo non lo lasciava dormire. Doveva aspettarsi una
comunicazione importante, probabilmente un incarico come cappellano presso
qualche importante parrocchia, o forse altro…!
La stessa mattina, nell'antica
cattedrale stracolma di gente, durante la messa solenne, aveva ricevuto dal
Vescovo della diocesi l'ordinamento sacerdotale.
Figlio di un piccolo commerciante di
bestiame, era entrato in seminario a nove anni, dopo la terza elementare. Era
stato zelante negli studi per tutto il periodo, con la ferma volontà e
vocazione di diventare sacerdote e poi parroco in una qualche parrocchia del
circondario: la zona collinare della media Valle del Savio dove era nato.
La cerimonia religiosa, si era
protratta fino alle ore 13 e 30 di quella bella domenica di settembre del 1897.
Dopo l' Ite Missa Est”, suo padre, ancora
con le lacrime agli occhi per la commozione, gli andò incontro e,
abbracciandolo: “ Caro figliuolo finalmente posso chiamarti Reverendo
Don Francesco. Abbiamo fatto tanti sacrifici per mantenerti in seminario, ma
oggi sono ripagato di tutto con la grande soddisfazione che mi hai
dato”, e aggiunse: “ peccato che la mamma non sia qui ad ammirarti,
così raggiante e bello nella tua veste nera, ma certamente ti guarderà dal
cielo”.
Era morta a 36 anni, quando lui ne
aveva appena 15.
Il giovedì alle 10 suonava il
campanello del vescovado. Il segretario del Vescovo lo fece accomodare nel
salone d'onore, sulle cui pareti in alto erano effigiati in sequenza i volti di
ben 50 Vescovi che avevano retto l'antica Diocesi nei secoli passati.
Era intento a leggerne i nomi e le
date quando entrò il Vescovo, al secolo
Sua Ecc.za Mons. Enrico Graziani,
(morì d'infarto 20 giorni dopo quell'incontro) che esordi: ”Benvenuto Don
Francesco, sei stato un bravo seminarista, da oggi sono certo sarai un buon
parroco”, e proseguì : “ ti ho convocato per farti scegliere fra
tre parrocchie vacanti che ho in diocesi: Montecastello, Montepetra e Massa. Fra una settimana mi dirai quella
scelta. Pensaci con calma e il Buon Dio ti assista !“
Ne parlò con il padre e con il
fratello Gildo che gli consigliarono di
scegliere la parrocchia di Montecastello. Fra le
tre era quella messa meglio sotto tanti aspetti: la posizione, la gente, e non
da ultimo, i due grossi poderi in dotazione come prebenda.
In ogni caso avrebbe dovuto scartare Montepetra, una parrocchia disagiata, lontano dalla strada
di grande comunicazione e da cinque anni senza parroco. Sita in cima ad irto
colle a 500 metri s.l.m., era economicamente povera, essendo priva di
terreni e la canonica semi diroccata. Senza dubbio, la più disastrata di tutte.
Nonostante i saggi consigli del
padre, del fratello e di alcuni amici, la sua scelta meditata fu Montepetra, proprio il luogo sconsigliato da tutti.
Nella scelta fu determinante il suo
spirito romantico. Dalle finestre della canonica il panorama era bellissimo: si
poteva spaziare sul vasto catino della valle. Di lassù scorgeva il suo paese,
la casa paterna e tutti i luoghi dell'infanzia che egli amava.
In seguito fece costruire un piccolo
terrazzino di ferro, esposto ad Ovest verso la valle e vi installò un grosso
cannocchiale col quale osservava l'antico paese di Sarsina,
il seminario dove aveva trascorso i quindici anni più belli e la sua vecchia
casa dove era nato, che si stagliava alta e solida in mezzo al verde.
Comunicata al Vescovo la sua scelta
e dopo aver celebrato la sua prima messa presso il Santuario di Loreto,
dedicando la sua vita alla Santa Vergine, prese possesso della “sua” parrocchia
che avrebbe servito, guidato e amato per ben 59 anni, fino alla morte.
I parrocchiani accolsero ben
volentieri questo giovanissimo e bel prete che arrivava carico d'energie e buona
volontà.
Si mise subito all'opera. C'era
tanto da lavorare, sia nel campo spirituale sia in quello materiale. La chiesa
e la canonica subito da restaurare.
Già nel discorso d'insediamento
delineò a chiari lettere il suo programma ministeriale:“Vengo a voi per
piangere con chi piange, per calmare i vostri affanni e le vostre afflizioni,
per proteggere gli innocenti, per consigliare chi è nel dubbio e nello
smarrimento. Vengo a voi per essere il mediatore tra il cielo e la terra, per
portarvi il conforto della religione cristiana e della solidarietà umana”.
Un discorso da padre e da pastore fatto da un “ragazzo” di 23 anni, che risuona
ancora attuale. Prosegue dicendo: “Non dovete guardare alla mia pochezza e
alla mia debolezza, ma corrispondere alle mie sollecitazioni e cure per quel
che, sia pure indegnamente, rappresento come ministro di Dio”.
Sarebbe interessante riproporre qui l'intero testo del discorso, che prosegue
col delineare tutto l'ambizioso programma da attuarsi negli anni avvenire. Molti
accolsero con gioia ed entusiasmo quanto andava dicendo. Solo alcuni furono
scettici e dubbiosi; lo definirono un giovane prete bravo e bello ma alquanto
sognatore.
L'arciprete Don Francesco, armato di
grande entusiasmo, iniziò subito a spendere i suoi talenti mettendo le basi per
realizzare i numerosi progetti pastorali e materiali.
Intelligentemente intuì che senza
organizzazione non si produce nulla, così già entro il primo anno aveva
istituito vari gruppi: un gruppo di consulenza parrocchiale formato dalle
persone più in vista del paese, i cosiddetti notabili. una Scola Cantorum, tre gruppi dell'Azione Cattolica suddivisi per
età, il gruppo delle donne cattoliche, le quali, oltre agli incontri
settimanali sulla dottrina della chiesa, avevano il compito di insegnare il
catechismo ai tanti bambini delle scuole elementari, oltre che la cura
e pulizia della chiesa e dei paramenti sacri.
Dall'altro canto iniziò la
ristrutturazione della chiesa e della canonica che a causa degli scarsi mezzi
economici si protrasse per alcuni anni.
Dopo l'intervento dei muratori ben
due pittori trascorsero un paio di mesi ad affrescare le pareti e l'ambone
della chiesa con angeli, colombe e motivi floreali.
Nel 1904 face fondere “la campana
grande”, di 200 chilogrammi, sulla quale fece incidere in latino il suo nome e
l'anno di costruzione.
Sul campanile installò anche un
bell'orologio meccanico che batteva le ore, le mezze ora ed i quarti d'ora, i
cui rintocchi erano distintamente udibili dai caseggiati sparsi anche i più distanti.
Poi costruì una casa per il
contadino a cui era affidata la terra della parrocchia.
Si attivò presso le autorità
provinciali e comunali per ottenere la costruzione di una scuola elementare e
dell'ufficio postale che non esistevano lassù sull'ameno colle. In pochi anni
ottenne entrambe le opere e fu con tanta gioia che negli anni ‘30 le inaugurò.
Nel 1928 anche a Montepetra finalmente
arrivò la corrente elettrica, da tutti bramata e festosamente accolta.
Ma l'opera più grandiosa e
significativa , il sogno che aveva cullato fin dagli anni del seminario, fu la
creazione di un bollettino parrocchiale per portare le notizie della parrocchia
e il commento della parola di Dio in tutte le case.
Nel gennaio del 1926 usciva dalle
stampe il primo numero. Fu un avvenimento che lo portò alla ribalta in tutta la
diocesi e quelle limitrofe del Montefeltro.
Tante parrocchie fecero a gara per
averne delle copie. Già l'anno successivo dalle 500 copie la tiratura passò a
1000, tutte acquistate per abbonamento.
Per quei tempi e quei luoghi di
campagna che si producesse un giornalino in una piccola sperduta parrocchia
montana fu veramente un fatto eccezionale.
Non v'era altra parrocchia della
Diocesi che ne pubblicasse uno.
“La Squilla di Montepetra”, il nome del bollettino.
Un mensile composto di otto pagine,
dove c'era di tutto: cronaca locale e avvenimenti nazionali e internazionali,
religione, curiosità, almanacchi, persino barzellette, e la pubblicità all'olio
di oliva “La Famigliare”, al sapone di Marsiglia ed altri prodotti di uso
comune.
Don Francesco ne era il direttore ed
il capo redattore. L'ufficio di redazione era nel suo studio. Gli aiutanti
redattori: un maestro delle elementari ed una colta nobildonna toscana che era
andata in sposa ad un signore Montepetrese.
Era stampato da una Casa Editrice di
Oneglia. Ne fu soppressa la pubblicazione nel 1944 (dopo 18 anni), per un
editto di Mussolini. L'apparente motivazione era che si doveva risparmiare la
carta a causa delle sanzioni inflitte all'Italia. In tal modo furono soppresse,
in Italia, oltre 400 piccole testate giornalistiche , le quali, in qualche
modo, davano fastidio al regime, poiché in dette pubblicazioni non veniva
osannato, e/o non erano allineate alla “voce del padrone”.
Tutta quella vivacità di iniziative,
nell'ambito ecclesiastico suscitò molta ammirazione e qualche invidia. Ma fra
la gente comune di tutto il circondario vi fu corrispondenza e piena
approvazione.
Fu veramente un prete eccezionale:
colto, attivo, intraprendente e scrupoloso, animato da fervido zelo apostolico,
come pochi altri. Per il suo costante e generoso impegno nella crescita morale,
culturale e materiale della sua gente, era ammirato e stimato da tutti. Per più
della metà del 900 ha fatto la storia di Montepetra.
L'epigrafe sulla tomba ben sintetizza la sua vita :” Sacerdote
esemplare, fu luce e guida della Parrocchia che resse per 59 anni con infinito
amore paterno, illuminata saggezza, con ordine ammirevole e sublime
abnegazione”. Per la sua cultura biblica e sul diritto canonico, veniva
spesso chiamato a tenere relazioni durante gli esercizi spirituali in seminario
e ad un'importante e antica Congregazione di parroci, romagnoli e marchigiani del
Montefeltro denominata “ I Cento Parroci”, fondata nel 1675, della quale era
membro.
La sua grafia era di una perfezione
unica, da codici miniati, era un maestro della cosiddetta “bella calligrafia”
insegnata nelle scuole; si può ancora apprezzare nei suoi numerosi scritti
rimasti.
Aperto al progresso, si affrettava
ad acquistare turtte le novità tecniche che
apparivano sul mercato, come le lampadine colorate, con le quali illuminò la
chiesa, le statue della Madonna e di S. Giuseppe e di Santa Teresa che nel
tempo aveva comprato. Acquistò anche un carillon, nel quale, inserendovi una
monetina, si accendeva una candela nella corona della Madonna e suonava l'Ave
Maria. Non mi stancavo mai di infilarvi tutti i 20 centesimi che mi dava come
paghetta, quando scolaro, durante le vacanze estive, gli facevo da
chierichetto.
Quando, negli anni venti, uscirono
in commercio le prime radio, ne acquistò subito due, una per se ed una per il
fratello Gildo che risiedeva a due passi
dalla chiesa. Fu per lui una gioia immensa ascoltare i notiziari quotidiani,
seppur con tutti i borbottii delle onde medie.
Negli anni 39/40, la sua più grande
preoccupazione era l'incombenza della guerra, prevedendo che avrebbe portato
distruzione e morte anche su questi colli.
Infatti, quattro anni dopo, la furia
delle battaglie sulla Linea Gotica distrusse la canonica e parzialmente il
gioiello che tanto amava, la sua chiesa; oltre a causare la morte di diversi
parrocchiani. Era già anziano e pieno di acciacchi, ma quella tremenda batosta ne
decretò l'abbattimento fisico e morale.
Cessata la guerra, fece appello alle
sue residue forze iniziando, con rinnovato coraggio, la ricostruzione che fu
completata nel 1954.
Dopo 50 anni dalla morte è ancora
ricordato da molti. La sua vita e le sue opere sono documentate in un capitolo,
a lui dedicato, nel volume “Storia di Montepetra e
Dintorni” di Attilio Bazzani “ Ed.
Il Ponte Vecchio di Cesena”.
La sua operosa vita meriterebbe un
libro intero. IL materiale non manca; interessante e significativo il suo
testamento spirituale.
Alcune curiosità e aneddoti della
sua vita. Il figlio del contadino, un giorno, gli regalò un cucciolo di cane
bastardino al quale gli era morta la madre; lo chiamò Savio, in onore al fiume
che scorre ai piedi del monte. Subito si affezionarono l'uno all'altro.
Dovunque andasse Don Francesco, Savio gli scodinzolava felice al fianco. Erano
inseparabili. Quando doveva assentarsi per qualche giorno, Savio restava muto e
triste finchè non vedeva tornare il calesse
con il suo amato padrone.
Mentre alle stanghe del calesse
c'era sempre il docile e mite cavallo Pippo.
Savio morì di vecchiaia all'età di
18 anni. Don Francesco lo pianse, digiunando per tre giorni, come per la morte
di un caro amico.
Un problema, del resto sempre
attuale e comune a molti giovani affascinanti preti, fu, anche per lui, il
rapporto col gentil sesso, o meglio, con alcune ragazze che se lo mangiavano
con gli occhi. Come per tanti altri, anche per lui fu certamente una grossa
prova quella di soffocare sul nascere ogni impulso di attrazione fisica nei
loro confronti.
Oggi tutto sembra più facile: quando
le tentazioni della carne si fanno forti e assillanti, diversi preti gettano la
tonaca alle ortiche e lasciano il ministero per accompagnarsi e accasarsi con
la donna che li ha sedotti. Perché, a mio parere, raramente a sedurre è il
prete.
Don Francesco seppe resistere e non
cedette alla tentazione. Negli anni del suo maggior vigore fisico, cercò di
evitare contatti troppo frequenti e ravvicinati con l'altro sesso. Anche in
questo delicato frangente fu prete e un uomo forte che seppe mantenere fede ai
voti dati.
Un altro dilemma serio si presentò
durante il periodo fascista. Non volendo omologarsi ai tanti che subito si
erano schierati e avevano accolto il fascismo come il regime capace di fare
dell'Italia il primo paese del mondo e degli italiani il popolo più forte
d'Europa, per non volersi scontrare ed inimicarsi i gerarchi fascisti
dichiarandosi apertamente contrario alle loro idee, fece buon viso a cattiva
sorte adottando la via del compromesso. Con loro cercava di evitare discorsi
politici impegnati e, quando riceveva qualcuno di loro in casa, metteva in atto
il suo astuto stratagemma: girava il quadro di Papa Pio X. Alle pareti
della sala di ricevimento erano appesi diversi quadri, quello più
grande riportava l'effige del Papa Sarto e sul retro quella di Benito
Mussolini, in tal modo secondo i personaggi che riceveva, adattava il quadro
alla circostanza.
E' rimasta proverbiale la scritta
affissa all'interno della porta di entrata che così' recitava: “Essendo la
stufa morta siete pregati di chiudere la porta”, e l'altro: “Attenti
al cane ! E' Savio con i battezzati ma “feroce” con i malintenzionati”
Altra curiosità: Don Francesco, con
la sua particolare grafia, minuta e regolare, annotava ogni evento, ogni spesa,
e con maggior cura annotava tutte le SS. Messe che ogni giorno celebrava, anche
quelle fuori della sua parrocchia, segnando il nome, se per un defunto o
l'intenzione e a fianco l'offerta ricevuta. Le tre agende, strette e lunghe,
dette “vacchette” che contengono tutti quei nomi e quelle date sono ora conservate
nella biblioteca vescovile di Sarsina a cui
le ho consegnate. Sommando le Messe celebrate durante tutta la sua
vita sacerdotale, dalla prima, del 18 settembre 1897, all'ultima del 13 giugno
del 1956, data della morte, all'età di anni 81, ne ho contate ben 21.586.
Per le principali feste: del patrono
S. Lorenzo martire, di S. Pietro, e quella della Madonna, accorreva molta
gente, anche dei paesi limitrofi.
Processione per le vie del Castello
con la statua del santo portata a spalle da robusti giovanotti, poi la predica
tenuta da un predicatore chiamato da fuori e l'immancabile presenza del Vescovo
e di tanti preti, anche più di venti.
In quei giorni, nell'aia vicino alla
chiesa, v'erano “ parcheggiate” numerose fuoriserie a quattro zampe dell'epoca:
cavalli a sella o con il calesse. Erano il mezzo di locomozione dei parroci di
campagna e notabili del circondario, per lo più proprietari terrieri. Ed io,
affascinato, li ammiravo e sognavo di cavalcarne uno, un giorno…..
Il 19 settembre del 1922 celebrò con
grande solennità il suo giubileo pastorale: il 25 esimo anno di sacerdozio.
Giunsero, da ogni dove, attestati augurali. Anche “l'Avvenire d'Italia” gli
dedicò un articolo. Lo stesso Papa Pio XI gli inviò una pergamena con foto e
autografo ed il seguente testo:
“Al Sacerdote Francesco Giannini
Parroco di Montepetra, diocesi di Sarsina, nel XXV anniversario Sacerdotale e Parrocchiale,
per il suo zelo nella cura delle anime e in segno di Nostra Paterna
Benevolenza, impartiamo l'Apostolica benedizione. Pius p.p.
XI -Roma19 Settembre 1922”
Anche nel '47 per il suo 50 esimo di
sacerdozio, si fece festa grande a Montepetra.
Il Vescovo lo nominò Canonico
Onorario della diocesi e gli affiancò, quale aiuto, un giovane Cappellano.
Questo prete così energico, forte ed
intraprendente, aveva le sue debolezze, se così si possono chiamare. Oltre
all'ordine e alla pulizia quasi maniacale e alla grafia da monaco amanuense,
amava i buoni piatti ed il buon vino, affidandosi all'ottima cucina della
fedele nipote Mina, la quale lo assistette fino alla fine.
Organizzava diversi pellegrinaggi
nel corso dell'anno: Loreto, Roma, Pompei ecc…,
pur nelle difficoltà di movimento per quei tempi, dei mezzi poco affidabili e
delle strade mal tenute e pericolose. In autunno trascorreva quindici giorni
alle terme per curare l'artrosi e tonificarsi il corpo, e per altri dieci
giorni andava alla Verna o a Camaldoli a fare gli esercizi spirituali e ricaricare
lo spirito, per poi riprendere con rinnovato zelo la sua opera tesa al
benessere spirituale e possibilmente materiale della “sua” gente.
Avrebbe desiderato che qualcuno a
lui caro, dopo la sua scomparsa, avesse proseguito, nella continuità, la sua
opera nella parrocchia.
Secondo i suoi piani, questa persona
sarei potuto essere io, che, ancora ragazzo 13 enne, ero studente a Bologna in
un collegio di religiosi per diventare sacerdote missionario. D'estate tornavo
a casa con la veste nera ed il collare bianco al collo e lo andavo a trovare.
Lui orgoglioso, così mi presentava ai suoi amici sacerdoti e ai signorotti del
luogo che lo sostenevano anche finanziarmene: “Questo mio nipote un giorno
mi darà il cambio nella conduzione della parrocchia”.
Grande fu la sua delusione quando un
brutto giorno, abbandonato il collegio, tornai a casa senza più la tonaca nera.
Il dispiacere provato fu tale, che
per mesi mi ignorò, non rivolgendomi più la parola.
Dello zio Don Francesco, questo
straordinario prete di campagna, del quale solo nella maturità ho riscoperto i
carismi, porto in viso gli stessi lineamenti somatici, nel cuore la speranza
cristiana, il rispetto per la gente, l'amore per la vita e per la nostra terra.