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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  La scoperta del teatro, di massimolegnani 19/07/2016
 

La scoperta del teatro

di Massimolegnani



1 - Copione



Un po’ per la miopia, un po’ perché non ho mai posseduto la destrezza del ladro, io copiavo poco e male. Copione per me assommava due antitetici significati spregiativi, quello dei moralisti, professori e genitori, e quello dei furbini, certi miei abili compagni a cui bastava gettare un’occhiata al foglio del più bravo per fotocopiare mezza pagina. Non io, io ero il “copione” sballottato tra i rimproveri dei primi e gli sberleffi dei secondi. Questa parola me la sono portata addosso per anni, appiccicata come un’etichetta sulla maglia con le norme di lavaggio e in effetti avrei voluto fare un bel lavaggio di me stesso, uscirne differente e nuovo, nuovo? no lavato con Perlana. Purtroppo non c’è perlana che ti cambi, così si nasce, così si cresce.

Mi sono rassegnato a crescere con quell’etichetta e mai avrei immaginato che questa parola odiosa potesse assumere per me tutt’altro senso, un senso pieno di fascino e di emozione. Copione da poco è diventato il testo da imparare, il foglio che racchiude un’altra vita che dalla carta devo trasformare in voce, gesti, pause, spessore. E prima devo farla mia, io personaggio, lei persona.

Abituato a inventare personaggi e a sentirmi loro mentre li de-scrivo, ho difficoltà a immedesimarmi in storie altrui, fraintendo le espressioni, dissento sul carattere, male interpreto gli stati d'animo. Un poco mi aiutano le letture di altri blog e di altri libri che sempre vivo con partecipazione, ma qui è più impegnativo perché non è una libera interpretazione ma un obbligo a seguire fedelmente i binari che il regista posa, non sempre in modo rettilineo. Ci devi mettere più intenzione, mi dice lui, che intenzione?, chiedo. L’intenzione è la somma di parole, corpo e mente che ti fa calare in un altro individuo. Non assomigliare, essere totalmente un altro.

E allora per essere sul serio l’Anacleto di Calvino, infarcisco il copione di note, appunti, spiegazioni sue e riflessioni mie, e, a mano a mano che lo studio avanza, i fogli si sgualciscono, si consumano in una ruminazione senza sosta.

A dire il vero non fa per me il teatro, mi manca la memoria e quella tendenza naturale ad occupare il cono luminoso, per istinto sarei più attratto dal cono d’ombra. Eppure, un po’ per gioco un po’ per sfida, mi cimento e mi ci metto sotto la luce impietosa a farmi diverso da me e a rendere credibili, si spera, lo spaesamento e l'arroganza, l'infatuazione e il fallimento.

Ecco, guardami in scena, io non ci sono più, io sono Anacleto.





2 - Storia dei capelli *



È stato un atto d’incoscienza accettare una parte (poche battute, per fortuna) in un vero spettacolo teatrale, ritrovarmi, smarrito come un pesciolino rosso nell’oceano, tra gente che di teatro vive e giovani leve che mangiano entusiasmo a colazione. Eppure, io che la memoria arranca, io che l’emozione è una marea a salire, io che i riflettori spandono luce ed ansia, io giorno dopo giorno divento un ingranaggio, la rotellina che non si può inceppare se non vuole mettere a repentaglio l’intero meccanismo.

È affascinante acquisire la consapevolezza dell’insieme, tu, pur frammento minimo, sei tassello del mosaico che di prova in prova si va formando sulla parete prima bianca. Quello che all’inizio sembrava il caos di tanti pezzi sparsi a casaccio, assume un senso, un’armonia.

Il palcoscenico, gli attori, le comparse, i segni sulle assi per i passi giusti, gli oggetti di scena, i suonatori, le luci, le ballerine scalze, i tempi d’entrata, gli stacchi, le musiche, le voci, i gesti, la mimica facciale, l'enfasi se è il caso, la misura sempre, la parola sussurrata che però deve raggiungere l’ultima fila, il personaggio che a poco a poco annulla la persona, i corpi immobili, altri che volteggiano. Il teatro è un turbinio di foglie al vento d’autunno, il regista ha occhi per ogni foglia, che ciascuna arrivi a terra seguendo il suo disegno.

Una magia.

Il regista è il grande sarto che vede già il vestito quando ancora sono solo tagli di stoffa sopra un tavolo. Fa segni col gessetto sul tessuto, cuce le battute, imbastisce un personaggio all’altro, ammorbidisce i gesti e le voci come una mano attenta passata su una stoffa troppo ruvida.

Tutto è pronto e irreversibile: domani pomeriggio la prova generale, e poi il debutto a sera con l’autore argentino in sala tra la folla e la follia della Grande Invasione.

Adrenalina!


*dal romanzo di Alan Pauls






3 - Dietro le quinte


Il sipario chiuso, a pochi minuti dall’inizio, spacca il mondo in due metà inconciliabili, di qui la fibrillazione, di là l’attesa, solo l’apertura dei teloni riunirà, si spera, le due mezze mele in una.

Il palcoscenico è un brulichio di formiche impazzite, chi affina un gesto non ancora perfettamente assimilato, che bisbiglia un monologo, chi passeggia in tondo, Luca, il protagonista, si pinza il mento tra due dita e lo sbatacchia in un furioso e curioso esercizio di rilassamento, io mi rifugio dietro una quinta a ripetere la parte, non una volta che mi esca filata, senza inciampi o vuoti di memoria. Per quanto sappia le battute sento che sarà un disastro e proprio mentre mi preparo psicologicamente alla disfatta (chissenefrega, è solo un gioco) il regista ci chiama tutti a raccolta: le ultime raccomandazioni poi ci sistemiamo in cerchio tenendoci per mano, mani sudate e mani salde, mani giovani e mani vecchie, mani maschie e delicate mani femminili. Passa una scossa da un corpo all’altro mentre gridiamo il liberatorio merda merda merda, e no, non penso più chissenefrega. Ora mi sento di nuovo la rotellina indispensabile nell’ingranaggio generale, vietato fallire.

Si apre il sipario, la luce illumina la poltrona da barbiere dov’è seduto Luca, non passa giorno che io non pensi ai capelli...lo spettacolo ha avuto inizio.

Appiattito dietro una quinta, mentre aspetto il mio momento, rifletto sul personaggio che devo interpretare, il padre del protagonista alle prese con la scandalosa capigliatura afro del figlio. Non riesco a calarmi nella parte, quando all’improvviso mi torna in mente mio padre, il suo sguardo di riprovazione ai miei capelli lunghi dei vent’anni durante i pranzi domenicali, le sue parole che per contrasto a me diventavano pompose e sferzanti. È l’uovo di Colombo, mi basterà cambiare generazione, sarò mio padre!

Entro in scena, avanzo di due passi, mi fermo, guardo con disgusto la testa di mio figlio e le parole mi escono naturali di bocca. Non riesco a vedere la platea, parlo a un buio fitto di gente, mi sembra di sentire i respiri attenti, vedo le orecchio tese, gli occhi puntati e tutto questo calore muto mi avvolge, mi conforta. L’emozione è evaporata, ogni gesto, ogni battuta, ogni pausa assume una fluidità che non m’aspettavo. Rientro nell’ombra soddisfatto.

Lo spettacolo intanto scorre come un fiume, arriva tranquillo fino alla foce, e siamo noi quel fiume dalla minima maestosità.

Si accendono le luci in sala, scrosciano applausi ai nostri inchini, finalmente vedo i volti di questa “Grande Invasione” che ha gremito ogni posto disponibile e che, credo, non abbiamo deluso.

Alan Pauls, lo scrittore argentino dal cui romanzo è stato ricavato il testo, non vuole rubarci gli applausi, aspetta che il sipario si chiuda definitivamente prima di salire di soppiatto sul palco per mescolarsi a noi a condividere gioia ed euforia. Le sue parole spagnole non hanno bisogno di interprete, ci scivolano dentro con emozione, sua e nostra.

Lascio il teatro che è notte fonda. Piove ma non me ne accorgo.


 
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