La
scoperta del teatro
di
Massimolegnani
1
- Copione
Un
po’ per la miopia, un po’ perché non ho mai
posseduto la destrezza del ladro, io copiavo poco e male. Copione
per me assommava due antitetici significati
spregiativi, quello dei moralisti, professori e genitori, e quello
dei furbini, certi miei abili compagni a cui bastava gettare
un’occhiata al foglio del più bravo per fotocopiare
mezza pagina. Non io, io ero il “copione” sballottato tra
i rimproveri dei primi e gli sberleffi dei secondi. Questa parola me
la sono portata addosso per anni, appiccicata come un’etichetta
sulla maglia con le norme di lavaggio e in effetti avrei voluto fare
un bel lavaggio di me stesso, uscirne differente e nuovo, nuovo?
no lavato con Perlana. Purtroppo non
c’è perlana che ti cambi, così si nasce, così
si cresce.
Mi
sono rassegnato a crescere con quell’etichetta e mai avrei
immaginato che questa parola odiosa potesse assumere per me
tutt’altro senso, un senso pieno di fascino e di emozione.
Copione da poco è diventato il testo da imparare, il foglio
che racchiude un’altra vita che dalla carta devo trasformare in
voce, gesti, pause, spessore. E prima devo farla mia, io personaggio,
lei persona.
Abituato
a inventare personaggi e a sentirmi loro mentre li de-scrivo, ho
difficoltà a immedesimarmi in storie altrui, fraintendo le
espressioni, dissento sul carattere, male interpreto gli stati
d'animo. Un poco mi aiutano le letture di altri blog e di altri libri
che sempre vivo con partecipazione, ma qui è più
impegnativo perché non è una libera interpretazione ma
un obbligo a seguire fedelmente i binari che il regista posa, non
sempre in modo rettilineo. Ci devi
mettere più intenzione, mi dice
lui, che intenzione?,
chiedo. L’intenzione è la somma di parole, corpo e mente
che ti fa calare in un altro individuo. Non assomigliare, essere
totalmente un altro.
E
allora per essere sul serio l’Anacleto di Calvino, infarcisco
il copione di note, appunti, spiegazioni sue e riflessioni mie, e, a
mano a mano che lo studio avanza, i fogli si sgualciscono, si
consumano in una ruminazione senza sosta.
A
dire il vero non fa per me il teatro, mi manca la memoria e quella
tendenza naturale ad occupare il cono luminoso, per istinto sarei più
attratto dal cono d’ombra. Eppure, un po’ per gioco un
po’ per sfida, mi cimento e mi ci metto sotto la luce impietosa
a farmi diverso da me e a rendere credibili, si spera, lo spaesamento
e l'arroganza, l'infatuazione e il fallimento.
Ecco,
guardami in scena, io non ci sono più, io sono Anacleto.
2
- Storia dei capelli *
È
stato un atto d’incoscienza accettare una parte (poche battute,
per fortuna) in un vero spettacolo teatrale, ritrovarmi, smarrito
come un pesciolino rosso nell’oceano, tra gente che di teatro
vive e giovani leve che mangiano entusiasmo a colazione. Eppure, io
che la memoria arranca, io che l’emozione è una marea a
salire, io che i riflettori spandono luce ed ansia, io giorno dopo
giorno divento un ingranaggio, la rotellina che non si può
inceppare se non vuole mettere a repentaglio l’intero
meccanismo.
È
affascinante acquisire la consapevolezza dell’insieme, tu, pur
frammento minimo, sei tassello del mosaico che di prova in prova si
va formando sulla parete prima bianca. Quello che all’inizio
sembrava il caos di tanti pezzi sparsi a casaccio, assume un senso,
un’armonia.
Il
palcoscenico, gli attori, le comparse, i segni sulle assi per i passi
giusti, gli oggetti di scena, i suonatori, le luci, le ballerine
scalze, i tempi d’entrata, gli stacchi, le musiche, le voci, i
gesti, la mimica facciale, l'enfasi se è il caso, la misura
sempre, la parola sussurrata che però deve raggiungere
l’ultima fila, il personaggio che a poco a poco annulla la
persona, i corpi immobili, altri che volteggiano. Il teatro è
un turbinio di foglie al vento d’autunno, il regista ha occhi
per ogni foglia, che ciascuna arrivi a terra seguendo il suo disegno.
Una
magia.
Il
regista è il grande sarto che vede già il vestito
quando ancora sono solo tagli di stoffa sopra un tavolo. Fa segni col
gessetto sul tessuto, cuce le battute, imbastisce un personaggio
all’altro, ammorbidisce i gesti e le voci come una mano attenta
passata su una stoffa troppo ruvida.
Tutto
è pronto e irreversibile: domani pomeriggio la prova generale,
e poi il debutto a sera con l’autore argentino in sala tra la
folla e la follia della Grande
Invasione.
Adrenalina!
*dal
romanzo di Alan Pauls
3
- Dietro le quinte
Il
sipario chiuso, a pochi minuti dall’inizio, spacca il mondo in
due metà inconciliabili, di qui la fibrillazione, di là
l’attesa, solo l’apertura dei teloni riunirà, si
spera, le due mezze mele in una.
Il
palcoscenico è un brulichio di formiche impazzite, chi affina
un gesto non ancora perfettamente assimilato, che bisbiglia un
monologo, chi passeggia in tondo, Luca, il protagonista, si pinza il
mento tra due dita e lo sbatacchia in un furioso e curioso esercizio
di rilassamento, io mi rifugio dietro una quinta a ripetere la parte,
non una volta che mi esca filata, senza inciampi o vuoti di memoria.
Per quanto sappia le battute sento che sarà un disastro e
proprio mentre mi preparo psicologicamente alla disfatta
(chissenefrega, è solo un gioco) il regista ci chiama
tutti a raccolta: le ultime raccomandazioni poi ci sistemiamo in
cerchio tenendoci per mano, mani sudate e mani salde, mani giovani e
mani vecchie, mani maschie e delicate mani femminili. Passa una
scossa da un corpo all’altro mentre gridiamo il liberatorio
merda merda merda, e no, non penso più chissenefrega.
Ora mi sento di nuovo la rotellina indispensabile nell’ingranaggio
generale, vietato fallire.
Si
apre il sipario, la luce illumina la poltrona da barbiere dov’è
seduto Luca, non passa giorno che io non pensi ai capelli...lo
spettacolo ha avuto inizio.
Appiattito
dietro una quinta, mentre aspetto il mio momento, rifletto sul
personaggio che devo interpretare, il padre del protagonista alle
prese con la scandalosa capigliatura afro del figlio. Non riesco a
calarmi nella parte, quando all’improvviso mi torna in mente
mio padre, il suo sguardo di riprovazione ai miei capelli lunghi dei
vent’anni durante i pranzi domenicali, le sue parole che per
contrasto a me diventavano pompose e sferzanti. È l’uovo
di Colombo, mi basterà cambiare generazione, sarò mio
padre!
Entro
in scena, avanzo di due passi, mi fermo, guardo con disgusto la testa
di mio figlio e le parole mi escono naturali di bocca. Non riesco a
vedere la platea, parlo a un buio fitto di gente, mi sembra di
sentire i respiri attenti, vedo le orecchio tese, gli occhi
puntati e tutto questo calore muto mi avvolge, mi conforta.
L’emozione è evaporata, ogni gesto, ogni battuta, ogni
pausa assume una fluidità che non m’aspettavo. Rientro
nell’ombra soddisfatto.
Lo
spettacolo intanto scorre come un fiume, arriva tranquillo fino alla
foce, e siamo noi quel fiume dalla minima maestosità.
Si
accendono le luci in sala, scrosciano applausi ai nostri inchini,
finalmente vedo i volti di questa “Grande Invasione”
che ha gremito ogni posto disponibile e che, credo, non abbiamo
deluso.
Alan
Pauls, lo scrittore argentino dal cui romanzo è stato ricavato
il testo, non vuole rubarci gli applausi, aspetta che il sipario si
chiuda definitivamente prima di salire di soppiatto sul palco per
mescolarsi a noi a condividere gioia ed euforia. Le sue parole
spagnole non hanno bisogno di interprete, ci scivolano dentro con
emozione, sua e nostra.
Lascio
il teatro che è notte fonda. Piove ma non me ne accorgo.
|