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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Lettera a Totò, di Milvia Comastri 27/08/2016
 

Lettera a Totò

di Milvia Comastri









Caro Totò, eccomi. Tu non ci credevi che ti scrivevo. Come farai con l’italiano, mi dicevi, che già male lo parli, figurati a scriverlo. Ma ti eri dimenticato di Nneka: questa figlia mia l’italiano lo sa meglio di te, che in Italia ci sei nato, e che di anni ne hai quaranta, mentre lei ne ha dodici e ha lasciato la Nigeria solo tre anni fa. E adesso mi sta sopra, mentre ti scrivo, come una maestra. E sentissi come mi sgrida, quando sbaglio! E poi, ci credi?, da cinque mesi vado a scuola d’italiano e lo sto imparando in fretta.

Come va laggiù a Ragusa? La moglie, i bambini? Ve li andate a fare i bagni? Qui, niente mare. Non so, ma a questo paese del Nord Est della tua Italia, mi sembra che gli manchino i colori: quest’inverno, nebbia bianca che ti ci perdevi dentro, e adesso, un cielo di luce bianca come neon, che a guardarlo ti fa male agli occhi e un po’ anche al cuore, come se te lo bruciasse. E zanzare, eserciti di zanzare, che neanche là da dove vengo io, ne ho viste tante. E devo dire che sono le uniche, fra tutti gli abitanti, che sembra gli piaccia la pelle nera. Perché è diverso, qui. Diverse sono le persone, ostili, Nneka mi sta dicendo di scrivere. Le chiedo cosa vuol dire ostili, e lei: Che sono un po’ stronze, dice. E stronze io lo so cosa vuol dire, ma mia figlia sa che non voglio che dica brutte parole, e subito dice: Scusa, papà. E c’è quell’uomo che sta sempre in televisione, lo avrai visto anche tu, no? che loro, la gente di qui, lo vedono come un dio, e dicono che ha ragione, che gli immigrati a casa loro dovrebbero tornare, e anche delle altre cose malvage, dice quell’uomo, e ripete la gente, ma io me le voglio dimenticare. L’importante è che ho un lavoro, finalmente, un lavoro fisso da muratore, che è faticoso, ma sempre meglio di spezzarsi la schiena a raccogliere pomodori e arance come ho fatto per cinque anni, in nero e con una paga da fame. Anche se la tua terra mi manca, Totò, e i colori, mi mancano, e mi mancano gli amici come te, come Salvo, come Pinuccio, così come mi manca la mia, di terra, e la mia gente, mi manca. Ma è da tanto che penso che tutti viviamo di mancanze, e bisogna abituarsi, se si vuol vivere senza avere sempre il pianto come un chiodo ficcato in gola.

Ricordi come mi chiamavi? Vu cumprà, anche se da vendere non avevo proprio niente, e io, a te, ti chiamavo terrone, che me lo avevi detto tu che a voi meridionali vi chiamano terroni, qui al nord. Ci salutavamo così, e poi ci mettevamo a ridere.

Ecco, ieri è successa una cosa che mi ha fatto venire in mente come mi chiamavi: Jamilah voleva fare la pizza e mi ha mandato al super mercato per comprare quello che le serviva. La pizza napoletana a mia moglie gliel’ha insegnata a fare un cingalese, che sembra che adesso i migliori pizzaioli sono magrebini, pakistani o cingalesi, mentre i napoletani sono diventati bravissimi a fare il sushi. Allora, arrivo al supermercato, faccio la mia spesa, esco e attraverso il parcheggio per andare alla fermata dell’autobus. E vado quasi a sbattere contro una coppia, che sta alla fine del parcheggio, sotto un sole che succhia l’anima. Lei ha una faccia muta, e tiene un cartello davanti al petto e sopra c’è scritto: Licenziati, con il punto esclamativo. E c’è il nome della fabbrica, sul cartello. Il padrone, in paese se n’è parlato tanto, la sua fabbrica l’ha portata in Romania, e gli operai tutti a casa. Anche l’uomo ha una faccia muta e le spalle curve come se portassero un carico pesante. Come noi quando portiamo il cemento. Ma le sue spalle non portano niente, però. Lì per terra ci sono cinque cassette di pesche e una bilancia. E, accanto alle cassette, un passeggino, con dentro un bimbo addormentato, protetto dal para-sole.

La gente si ferma, li guarda, legge, guarda le pesche, guarda il prezzo, e poi va verso il supermercato o verso la propria auto. Una donna ci passa accanto, si allontana, poi mi indica con la mano e urla: Sono quelli come lui che vi rubano il lavoro. Sai, sempre quella storia lì. L’uomo si china, prende una pesca e me la mette in mano. Sono buone, mi dice. Dobbiamo fare questo, mi dice, siamo ridotti a fare questo, mi dice. Se vogliamo dare da mangiare a nostro figlio. A fare i vu cumprà, come voi. Qui e in altri posti. Tutto il giorno. Dopo dieci anni di fabbrica. Operaio specializzato. A vendere pesche.

Parla e tiene gli occhi bassi. Parla come la gente di qui, che ha un modo di parlare che sembra miele che cola, non come il vostro, che sembra lava di vulcano.

Ne voglio due chili, dico. Sono cinque euro, mi dice. Lo so che sono molti, ma è un modo per sopravvivere, dice.

La donna mette il cartello a terra e tira fuori dal passeggino un borsellino grande e lo apre. Non c’è niente, dentro. Adesso, però ci sono i miei cinque euro. Poi sto per dire: Questa sera mia moglie fa la pizza. Venite da noi, questa sera. Ma non gli dico niente, perché mi vergogno. Gli ho messo una mano sul braccio e gliel’ho stretto. Buona fortuna!, gli ho detto. Buona fortuna a te, fratello, mi ha risposto. Poi sono andato a prendere l’autobus.



Ecco, se ti ho raccontato questa storia è per quella parola :“fratello”. So che capirai, caro Totò, e non ti scrivo altro.



Se vieni quassù, fatti sentire. E scrivimi, anche se il tuo italiano è più brutto del mio.



Una stretta di mano dal tuo amico Amir.






 
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