Lettera
a Totò
di
Milvia Comastri
Caro
Totò, eccomi. Tu non ci credevi che ti scrivevo. Come farai
con l’italiano, mi dicevi, che già male lo parli,
figurati a scriverlo. Ma ti eri dimenticato di Nneka: questa figlia
mia l’italiano lo sa meglio di te, che in Italia ci sei nato, e
che di anni ne hai quaranta, mentre lei ne ha dodici e ha lasciato la
Nigeria solo tre anni fa. E adesso mi sta sopra, mentre ti scrivo,
come una maestra. E sentissi come mi sgrida, quando sbaglio! E poi,
ci credi?, da cinque mesi vado a scuola d’italiano e lo sto
imparando in fretta.
Come
va laggiù a Ragusa? La moglie, i bambini? Ve li andate a fare
i bagni? Qui, niente mare. Non so, ma a questo paese del Nord Est
della tua Italia, mi sembra che gli manchino i colori: quest’inverno,
nebbia bianca che ti ci perdevi dentro, e adesso, un cielo di luce
bianca come neon, che a guardarlo ti fa male agli occhi e un po’
anche al cuore, come se te lo bruciasse. E zanzare, eserciti di
zanzare, che neanche là da dove vengo io, ne ho viste tante. E
devo dire che sono le uniche, fra tutti gli abitanti, che sembra gli
piaccia la pelle nera. Perché è diverso, qui. Diverse
sono le persone, ostili, Nneka mi sta dicendo di scrivere. Le chiedo
cosa vuol dire ostili, e lei: Che sono un po’ stronze, dice. E
stronze io lo so cosa vuol dire, ma mia figlia sa che non voglio che
dica brutte parole, e subito dice: Scusa, papà. E c’è
quell’uomo che sta sempre in televisione, lo avrai visto anche
tu, no? che loro, la gente di qui, lo vedono come un dio, e dicono
che ha ragione, che gli immigrati a casa loro dovrebbero tornare, e
anche delle altre cose malvage, dice quell’uomo, e ripete la
gente, ma io me le voglio dimenticare. L’importante è
che ho un lavoro, finalmente, un lavoro fisso da muratore, che è
faticoso, ma sempre meglio di spezzarsi la schiena a raccogliere
pomodori e arance come ho fatto per cinque anni, in nero e con una
paga da fame. Anche se la tua terra mi manca, Totò, e i
colori, mi mancano, e mi mancano gli amici come te, come Salvo, come
Pinuccio, così come mi manca la mia, di terra, e la mia gente,
mi manca. Ma è da tanto che penso che tutti viviamo di
mancanze, e bisogna abituarsi, se si vuol vivere senza avere sempre
il pianto come un chiodo ficcato in gola.
Ricordi
come mi chiamavi? Vu cumprà, anche se da vendere non avevo
proprio niente, e io, a te, ti chiamavo terrone, che me lo avevi
detto tu che a voi meridionali vi chiamano terroni, qui al nord. Ci
salutavamo così, e poi ci mettevamo a ridere.
Ecco,
ieri è successa una cosa che mi ha fatto venire in mente come
mi chiamavi: Jamilah voleva fare la pizza e mi ha mandato al super
mercato per comprare quello che le serviva. La pizza napoletana a mia
moglie gliel’ha insegnata a fare un cingalese, che sembra che
adesso i migliori pizzaioli sono magrebini, pakistani o cingalesi,
mentre i napoletani sono diventati bravissimi a fare il sushi.
Allora, arrivo al supermercato, faccio la mia spesa, esco e
attraverso il parcheggio per andare alla fermata dell’autobus.
E vado quasi a sbattere contro una coppia, che sta alla fine del
parcheggio, sotto un sole che succhia l’anima. Lei ha una
faccia muta, e tiene un cartello davanti al petto e sopra c’è
scritto: Licenziati, con il punto esclamativo. E c’è il
nome della fabbrica, sul cartello. Il padrone, in paese se n’è
parlato tanto, la sua fabbrica l’ha portata in Romania, e gli
operai tutti a casa. Anche l’uomo ha una faccia muta e le
spalle curve come se portassero un carico pesante. Come noi quando
portiamo il cemento. Ma le sue spalle non portano niente, però.
Lì per terra ci sono cinque cassette di pesche e una bilancia.
E, accanto alle cassette, un passeggino, con dentro un bimbo
addormentato, protetto dal para-sole.
La
gente si ferma, li guarda, legge, guarda le pesche, guarda il prezzo,
e poi va verso il supermercato o verso la propria auto. Una donna ci
passa accanto, si allontana, poi mi indica con la mano e urla: Sono
quelli come lui che vi rubano il lavoro. Sai, sempre quella storia
lì. L’uomo si china, prende una pesca e me la mette in
mano. Sono buone, mi dice. Dobbiamo fare questo, mi dice, siamo
ridotti a fare questo, mi dice. Se vogliamo dare da mangiare a nostro
figlio. A fare i vu cumprà, come voi. Qui e in altri posti.
Tutto il giorno. Dopo dieci anni di fabbrica. Operaio specializzato.
A vendere pesche.
Parla
e tiene gli occhi bassi. Parla come la gente di qui, che ha un modo
di parlare che sembra miele che cola, non come il vostro, che sembra
lava di vulcano.
Ne
voglio due chili, dico. Sono cinque euro, mi dice. Lo so che sono
molti, ma è un modo per sopravvivere, dice.
La
donna mette il cartello a terra e tira fuori dal passeggino un
borsellino grande e lo apre. Non c’è niente, dentro.
Adesso, però ci sono i miei cinque euro. Poi sto per dire:
Questa sera mia moglie fa la pizza. Venite da noi, questa sera. Ma
non gli dico niente, perché mi vergogno. Gli ho messo una mano
sul braccio e gliel’ho stretto. Buona fortuna!, gli ho detto.
Buona fortuna a te, fratello, mi ha risposto. Poi sono andato a
prendere l’autobus.
Ecco,
se ti ho raccontato questa storia è per quella parola
:“fratello”. So che capirai, caro Totò, e non ti
scrivo altro.
Se
vieni quassù, fatti sentire. E scrivimi, anche se il tuo
italiano è più brutto del mio.
Una
stretta di mano dal tuo amico Amir.
|