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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  La megera e il pinguino, di massimolegnani 27/08/2016
 

La megera e il pinguino

di massimolegnani




Ammetto che metto a dura prova la professionalità del personale con il mio aspetto sfatto, sudato e sporco quando mi presento in un locale pubblico per una sosta dopo tanti e affaticati chilometri in bicicletta. Ma questo non li assolve se oltrepassano la soglia di una minima accoglienza. Ho una mia teoria, un personale luogo comune, secondo cui meno pretenzioso è il bar o l’albergo dove faccio tappa e maggiore sarà la simpatia, almeno di facciata, di baristi e camerieri. A conferma di ciò penso alle tante domande, da dove viene, fin dove conta di arrivare, ma non si stanca a pedalare tanto? e ai fischi di meraviglia e ai sorrisi elargiti come premi e ai bicchieri d’acqua offerti prima ancora che ordini qualcosa con cui mi accolgono nei bar di paesini sperduti o nelle pensioni di quart’ordine alla periferia delle città. E sull’altro piatto ricordo con inalterata rabbia il pinguino inamidato di Cervinia che alza un sopracciglio inorridito al mio ingresso stremato, tanto stremato da non accorgermi di quanto sia lussuoso il locale dove ho messo piede, tutto musica soffusa e voci bisbigliate. La salita mi ha messo una fame epocale, ordino un toast, lui non si scompone nel rifiuto, i toast li serviamo solo ai nostri clienti abituali. Troppo stanco per discutere me ne vado furibondo, non prima di essermi scrollato via il sudore sulla passatoia immacolata come un SanBernardo appena uscito dall’acqua su una spiaggia affolata.

Ma ogni luogo comune ha le sue eccezioni e la mia eccezione la incontro in un paesone contadino del Vercellese, nella giornata più calda dell’anno. Non c’è un cliente né fuori né dentro il modesto locale, solo lei, la megera dietro al bancone. Un cespo di capelli imbalsamati in testa, uno scamiciato a fiori scialbi che già stava male indosso a sua nonna, ciabatte ai piedi, e soprattutto un’espressione, al mio ingresso, da Guglielmina d’Olanda infastidita dalla sciatteria dei suoi sudditi, stampata in faccia attorno a una boccuccia raggrinzita, a culo d’anatra spennata. Ma il bar è buio, fresco, deserto e io sono stravolto, per cui so già che non me ne andrò di lì qualunque cosa combini questa donna dallo sguardo ostile. Mi lascio cadere su una sedia nella penombra dello stanzone e le ordino coca e toast (sì, il toast è una mia fissa da stanchezza ciclistica, ho la gola così asciutta che non riuscirei a mandare giù un solo boccone di un panino farcito). Dopo qualche minuto di quiete in cui rifiato e grondo mi porta la coca borbottando per le gocce di sudore che ho seminato sul pavimento tutt’altro che lindo già di suo. Io quando sono sfatto ho l’incazzatura facile, piuttosto badi a non bruciarmi il toast le ringhio con un’arroganza che non mi appartiene. Ormai siamo in aperto conflitto. Lei mentre si allontana butta lì con noncuranza le sposto la bici che intralcia l’ingresso, io schizzo in piedi, non tollero le mani di altri sulla bici, figuriamoci quelle della megera, se la tocca la uccido, le grido, e non sono certo che sia una minaccia a vuoto. Mi muovo con passi che vorrebbero essere marziali, ma, avete mai provato a camminare con le scarpette da bici?, è già tanto se non stramazzo a terra. Sposto la bici (che non intralciava un accidente) e l’appoggio al muro, non lì che disturba i clienti ai tavolini mi dice serafica. Mi guardo intorno come non ci vedessi bene, ma se non c’è nessuno, sbraito spostando un’altra volta il mezzo. Lei fa spallucce e rientra. Torno dentro più accaldato di prima per la rabbia. Devo darmi una rinfrescata così le chiedo dove sia la toilette, ci vuole la chiave mi risponde senza battere ciglio e senza accennare a darmela. Bè, me la dia, che diamine! Alla fine mi allunga la chiave con riluttanza come fosse costretta a consegnare le chiavi del regno all’ultimo dei barboni. Esco in cortile, apro la porta e m’imbatto in uno scenario indecente, la latrina è una turca zozza che manco un turco della Cappadocia userebbe, il lavandino un tempo di smalto è tutto ruggine e scarafaggi. Rinuncio. Rinuncio al cesso, al fresco del locale, al toast, alla mezz’ora di riposo, rinuncio anche a fare del sarcasmo. Rendo la chiave, pago la coca. E il toast? Non rispondo e me ne vado. Mentre riprendo a pedalare mi raggiunge un boiafauss come una maledizione lanciata a denti stretti. Che si fotta, la megera, nel prossimo paese di sicuro troverò un locale che risponda al mio luogo comune d’accoglienza di campagna.










 
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