Armando
il contadino
di
Stefano Giannini
Anche
quel giorno, Armando, come tutti gli altri contadini della zona, si
alzò dal letto in piena notte, senza aver avuto abbastanza
tempo di scrollarsi di dosso la stanchezza del giorno prima e, dopo
aver svegliato con diversi scossoni il secondogenito di 14 anni, col
chiarore lunare, si recò subito nella stalla a foraggiare le “
bestie”, poi fece colazione con pane, formaggio e una fetta di
polenta con fagioli avanzata dalla sera prima. Quindi, con i buoi a
“cavezza”, si avviò fischiettando verso il campo
detto “degli
ulivi”
per riprendere l’aratura sospesa la sera innanzi. Ancora gli
frullava per la mente come un tormento il richiamo che il martedì
scorso in piazza del mercato gli aveva fatto il fattore: “Armando,
sei ancora indietro con l’aratura quest’anno,datti da
fare fin che la terra è secca; le stoppie da arare sono tante,
dovresti iniziare un’ora prima al mattino”.
“No…!
Proprio lì
davanti a tutti non me lo doveva dire quella carogna!” pensò.
Quella frase non riusciva a mandarla giù. “ Iniziare
un’ora prima …, facile per lui che si alza alle otto col
sole già alto, mentre io sto in letto non più di
quattro ore per notte “. Era talmente stanco che appena si
coricava restava stecchito come un baccalà. Perciò non
gli riusciva difficile rispettare il proverbio che dice: “
luglio e agosto moglie mia non ti conosco “. Ma si consolava
pensando che poi, nelle lunghe notti invernali, avrebbe recuperato,
sia il sonno che gli intensi e appassionati amplessi muliebri
forzatamente sospesi in questo periodo. Stava attaccando l’aratro
“Melot”
al tiro dei buoi, quando dall’orologio del campanile di
Montepetra s’udirono distintamente battere quattro rintocchi.
Si
era nel cuore d’agosto. Il solleone stabiliva i tempi di
lavoro. Per sfuggire alla calura delle ore centrali del giorno era
costretto ad arare al mattino presto, e qualche ora della sera prima
di notte.
Quando
la stoppia era molto arida, l’aratro spesso s’impuntava,
i buoi sotto sforzo, rallentavano il passo, poi, con una sbuffata,
quasi un atto d’orgoglio, strappavano e rivoltavano quelle
zolle massicce e dure come pietre, proseguendo spediti, l’uno
nel solco e l’altro sopra, nella stoppia.
Armando,
con le sue grosse mani callose, stringeva saldamente i manici
dell’aratro e incitava continuamente i buoi, con voce decisa e
forte: “ Va aoh ! Dai Rò tira ! Sta te soic Bì
!” (Ro era il bue di sinistra, Bi quello di destra che
avanzava stando nel solco) Ogni tanto, se battevano la fiacca, gli
allungava, quasi dispiaciuto, qualche frustata sulla groppa, senza
fargli troppo male.
Alle
volte, specialmente quando le bestie che tiravano l’aratro
erano due paia, a guidarle, tenendole per la “cavezza”, toccava
alla moglie o al figlio Vittorio, ancora ragazzetto, costretto
anch’egli ad alzarsi con il padre nel bel mezzo del sonno come
quel giorno.
Da
una parte all’altra della vallata, fra i Monticcioli e Sapigno,
echeggiavano le grida degli uomini che incitavano gli animali a
tirare l’aratro con lena e mantenerlo in linea col solco.
In
quei giorni si potevano contare, a vista, anche dieci/dodici paia di
buoi, che contemporaneamente aravano i campi stesi lungo le dorsali
della media Valle del Savio.
Dai
pollai delle case sparse, i galli salutarono alla loro maniera, il
giorno che stava per nascere ed il cane dalla sua cuccia, disturbato,
rispose con lunghi latrati.
Lentamente,
verso Montespellano, apparve un bagliore rosiccio, sempre più
luminoso, che preavvisava l’imminente arrivo dell’aurora.
Pian piano il chiarore lunare si spense e la luce dell’alba
ebbe il sopravvento inghiottendo tutte le ombre cupe della notte.
Una
grossa palla rosso fuoco s’affacciò, enorme, dalla
cresta del monte a levante e, lentamente, s’innalzò nel
cielo ancora grigio.
Le
querce e le robinie del “cavedale”, che prima sembravano
nere, ripresero il bel color verde, e fra i loro rami, i passeri, già
svegli, cinguettavano in coro, imitando il chiacchiericcio delle
comari al lavatoio, mentre i grilli ad uno ad uno abbandonavano il
concerto riponendo lo strumento nella custodia.
L’aria
era ferma, sana e frizzante. Entrava nei polmoni risvegliando e
tonificando tutto il corpo assonnato. Intanto, la luce del sole,
festeggiava il suo trionfo con la vittoria sul buio della notte.
Quando
il sole era già alto nel cielo, ma ancora i suoi raggi non
scottavano tanto, dietro al doppio filare di viti, avanzò
lesta, la Gardina (moglie di Armando), portava in testa, un cesto di
vimini coperto da un tovagliolo a quadretti rossi e blù,
contenente la seconda colazione per il marito e suo figlio: una
pagnotta di pane, cotto nel forno a legna, un mezzo formaggio di
pecora, quattro salsicce secche ed un fiasco di vino rosso.
Dopo
aver steso un telo per terra, tutti e tre, seduti sull’erba,
divorarono il cibo con molto appetito. Nelle vicinanze i buoi
ruminavano tranquilli, aspettando di ritornare presto nella stalla a
mangiare anch’essi erba fresca nella greppia.
I
tre si scambiarono solo qualche breve frase. Armando ordinò
alla moglie di falciare un’anta di erba medica, del campo di
mezzo, per le bestie, e al figlio, il quale stava tagliando le ultime
fette di formaggio, disse: “ Ragazzo ! Più pane
e meno companatico, è da ricchi fare il contrario ! ”
Dopo
mezzora di sosta ristoratrice, Armando,riprese ad arare con il solito
ritmo; l’eterna cicca fra le labbra, la frusta stretta sulla
destra assieme al manico dell’aratro, avanzava curvo sul solco
passo dopo passo con la terra smossa che gli riempiva le vecchie
scarpe sdrucite e senza lacci.
Verso
le nove, il sole già in mezzo al cielo, iniziò a
scottare, il sudore a colare sul viso rugoso del contadino e la
groppa accaldata dei buoi prese a fumare; il figlio osò dire:
“oh babbo, è un caldo boia, i buoi sono
sudati, andiamo a casa ? “ Armando secco rispose:
“ Fatti forza ragazzo… ! Facciamo ancora due
solchi per finire questa “anta” e poi andremo
a casa !”
Saranno
state le dieci, quando staccato l’aratro, e attaccato i buoi al
carretto con la grossa gerla colma d’erba, lentamente, si
avviarono verso casa.
Dopo
aver desinato e schiacciato un pisolino all’ombra del pagliaio,
verso le cinque del pomeriggio, Armando, ancora stanco morto, riprese
ad arare fino a sera. Così per diversi giorni. Alla
faccia del fattore mai contento.
Terminato
un campo ne iniziava un altro: dopo il campo degli “ ulivi”,
c’era da arare il campo dei “ sabbioni ”, poi la “
piana” e il campo del “fosso”.Sperando sempre che
non piovesse, altrimenti doveva sospendere l’aratura anche per
dieci giorni a causa della “rimbrasèta”.(termine
dial.) (Fenomeno che accade con le prime scarse piogge che non
arrivando in profondità fanno fermentare la terra).
Tutti
i campi da arare, in precedenza, erano stati “ spalmati”
a dovere con tanto letame della concimaia.
Completata
l’aratura, doveva subito falciare il secondo taglio del fieno,
irrorare le viti con lo zolfo e il solfato di rame .
Non
v’era mai sosta per gli Armando e le loro famiglie di queste,
ed altre contrade montane. C’era sempre qualcosa d’urgente
e faticoso da sbrigare.
I
lavori nei campi non finivano proprio mai, uno a seguito dell’altro,
e spesso s’accumulavano.
In
giugno c’erano il grano e l’orzo da mietere e trasportare
nell’aia, il primo taglio di fieno da falciare, le viti da
zappare, impalare e irrorare. Era un’intensa e lunga faticata
che durava otto/nove mesi dell’anno.
In
ottobre si doveva raffinare, con la zappa, il terreno arato,
spaccando le zolle più grosse e ripassarlo con l’erpice.
Prima che iniziassero le piogge d’autunno, occorreva
approfittare delle bonacce per seminare il grano. Con la seminatrice,
coloro che fortunatamente la possedevano.
Armando,
invece, alla vecchia maniera : il sacchetto del grano attaccato alla
cintola, lo spandeva a mano con larghe bracciate, camminando a passo
lungo, su e giù per il campo di semina.
Subito
dopo, con la zappa, tracciava lunghi solchi trasversali per lo scolo
delle acque piovane.
Alla
fine, ad Armando, restava solo la speranza, che il grano,
germogliasse bello verde e rigoglioso, che piovesse nel tempo giusto,
e specialmente, che non cadesse la grandine a distruggerlo quando,
già alto, avrebbe messo la spiga .
Per
tenere lontano tutte le eventuali disgrazie e maledizioni che
potessero abbattersi sul suo seminato, la domenica delle Palme,
Armando, come da tradizione, dopo aver preparato con delle canne
diverse croci e dopo avervi incastrato in mezzo a ciascuna un rametto
di palma benedetta, ne piantava una nel bel mezzo d’ogni campo.
Le riteneva più efficaci dello spaventapasseri.
Poi,
fiducioso, rivolgeva una supplica al Signore, alla Madonna e a S.
Giuseppe affinché proteggessero i suoi campi seminati, fino
alla trebbiatura.
Negli
anni 60, dopo la morte del padre, il figlio Vittorio acquistò
il trattore. Da quel giorno non solo l’aratura, ma anche la
vita del “contadino” che per secoli era rimasta immutata,
di colpo cambiò radicalmente, certamente in meglio.
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