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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  I mietitori, di Stefano Giannini 22/09/2016
 

I mietitori

di Stefano Giannini

 

 

 

Il sole lanciava i suoi strali infocati a picco sulle teste dei due gruppi di mietitori, i quali, nel loro ritmico movimento di chinarsi e rialzarsi con la falce stretta in pugno che inesorabile “mieteva” innumerevoli “vittime” gialle, ricordavano un mare mosso.

Un nutrito scambio di stornelli echeggiavano quali onde sonore lungo i campi di spighe dorate di grano maturo, in quel caldissimo luglio, quando ancora la mietitrebbia era un fantastico sogno di là da venire.

Gli uomini, per provocazione, lanciavano a voce spiegata il primo stornello a rime baciate

Le donne, pronte, rispondevano a loro volta con altrettante rime, argute e alquanto piccanti.

Mentre quelle mani veloci ed esperte lavoravano leste, maneggiando la falce e i mazzi di spighe con grande destrezza, la loro mente elaborava appropriate assonanze ritmate “zirundeli” che erano rilanciate da ambo le parti, con voce alta e cadenzata, come frecce acuminate in una duplice gara, fra chi dei due gruppi mieteva più veloce e chi elaborava lo stornello più bello e significativo.

Tutti gli stornelli avevano un doppio senso, spesso erano degli sfottò diretti a persone presenti sul campo o a personaggi noti del luogo e dei paesi vicini.

Gli steli di grano recisi, a “manelli” venivano disposti sul terreno in file parallele compatte; successivamente erano raccolti in fasci più grandi, “covoni”, poi ammucchiati in “barchi” di tredici covoni ciascuno.

I due gruppi avanzavano disposti in diagonale, con a capo della cuspide un figlio del fattore o del proprietario, che, simile ad un capitano, dettava a tutto il gruppo il ritmo delle falciate, sempre molto “andante allegro”...

Diversi di quei mietitori provenivano da villaggi e contrade abbarbicati sui monti della media e alta Romagna. Laggiù nella vasta pianura del Cesenate li chiamavano “i montanari scesi con la fiumana”; riconoscendoli però gente rustica, ma anche forte, leale e infaticabile.

Si mieteva dal levar del sole al tramonto, con una breve pausa per il pranzo. Di norma erano dodici ore di intenso lavoro. Mangiavano quel poco o tanto, secondo ciò che passava l’azienda, più o meno ospitale, ove si trovavano.

Dormivano, sistemati alla meglio, in fienili o vecchi capanni degli attrezzi. 

Il salario era magro: l’equivalente di 25/30 Euro giornaliere di oggi, ma per loro era comunque un’entrata significativa.

Quando in un’azienda agricola avevano terminato, passavano subito al servizio di un’altra fino a esaurimento del grano da mietere.

Quei braccianti ambulanti restavano lontano da casa per 15/20 giorni densi di fatica.

 

Tanti scrivono e ricordano gli “scariolanti”, che scavavano canali o costruivano argini lungo il Po, ma pochi rammentano i sacrifici, i disagi e, alle volte, le umiliazioni di questi uomini e donne delle nostre montagne che, per un magro guadagno, ogni anno passavano le loro “ferie” di luglio a piegare e ripiegare la schiena lungo le distese sterminate di grano, nei campi dei signori agrari nella fertile pianura della bassa Romagna.

Anche a loro è giusto vada un nostro solidale pensiero e, da parte mia, un affezionato ricordo per quanto hanno dato all’agricoltura del loro tempo.

 

-Finalmente fu sera…!  Il padrone del campo rivolgendosi al gruppo di mietitori e mietitrici ormai affaticati e stanchi, esclamò: “ andate a dormire ! Domani, se sarete bravi come oggi, finiremo la mietitura e vi darò il vostro avere, perciò sarà per tutti un giorno ancor più’ bello   ! “

Al che mia madre, che era una di loro, sussurrò piano alla compagna a fianco : ” anca par og la è fnita se Dia’avol, ad’mén usarà quel’cusarà !” (anche per oggi è andata grazie a Dio, domani sarà quel che sarà).

 

 


 
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