I
mietitori
di
Stefano Giannini
Il
sole lanciava i suoi strali infocati a picco sulle teste dei due
gruppi di mietitori, i quali, nel loro ritmico movimento di chinarsi
e rialzarsi con la falce stretta in pugno che inesorabile “mieteva”
innumerevoli “vittime” gialle, ricordavano un mare mosso.
Un
nutrito scambio di stornelli echeggiavano quali onde sonore lungo i
campi di spighe dorate di grano maturo, in quel caldissimo luglio,
quando ancora la mietitrebbia era un fantastico sogno di là da
venire.
Gli
uomini, per provocazione, lanciavano a voce spiegata il primo
stornello a rime baciate
Le
donne, pronte, rispondevano a loro volta con altrettante rime, argute
e alquanto piccanti.
Mentre
quelle mani veloci ed esperte lavoravano leste, maneggiando la falce
e i mazzi di spighe con grande destrezza, la loro mente elaborava
appropriate assonanze ritmate “zirundeli” che erano
rilanciate da ambo le parti, con voce alta e cadenzata, come frecce
acuminate in una duplice gara, fra chi dei due gruppi mieteva più
veloce e chi elaborava lo stornello più bello e significativo.
Tutti
gli stornelli avevano un doppio senso, spesso erano degli sfottò
diretti a persone presenti sul campo o a personaggi noti del luogo e
dei paesi vicini.
Gli
steli di grano recisi, a “manelli” venivano disposti sul
terreno in file parallele compatte; successivamente erano raccolti in
fasci più grandi, “covoni”, poi ammucchiati in
“barchi” di tredici covoni ciascuno.
I
due gruppi avanzavano disposti in diagonale, con a capo della cuspide
un figlio del fattore o del proprietario, che, simile ad un capitano,
dettava a tutto il gruppo il ritmo delle falciate, sempre molto
“andante allegro”...
Diversi
di quei mietitori provenivano da villaggi e contrade abbarbicati sui
monti della media e alta Romagna. Laggiù nella vasta pianura
del Cesenate li chiamavano “i montanari scesi con la fiumana”;
riconoscendoli però gente rustica, ma anche forte, leale e
infaticabile.
Si
mieteva dal levar del sole al tramonto, con una breve pausa per il
pranzo. Di norma erano dodici ore di intenso lavoro. Mangiavano quel
poco o tanto, secondo ciò che passava l’azienda, più
o meno ospitale, ove si trovavano.
Dormivano,
sistemati alla meglio, in fienili o vecchi capanni degli attrezzi.
Il
salario era magro: l’equivalente di 25/30 Euro giornaliere di
oggi, ma per loro era comunque un’entrata significativa.
Quando
in un’azienda agricola avevano terminato, passavano subito al
servizio di un’altra fino a esaurimento del grano da mietere.
Quei
braccianti ambulanti restavano lontano da casa per 15/20 giorni densi
di fatica.
Tanti
scrivono e ricordano gli “scariolanti”, che scavavano
canali o costruivano argini lungo il Po, ma pochi rammentano i
sacrifici, i disagi e, alle volte, le umiliazioni di questi uomini e
donne delle nostre montagne che, per un magro guadagno, ogni anno
passavano le loro “ferie” di luglio a piegare e ripiegare
la schiena lungo le distese sterminate di grano, nei campi dei
signori agrari nella fertile pianura della bassa Romagna.
Anche
a loro è giusto vada un nostro solidale pensiero e, da parte
mia, un affezionato ricordo per quanto hanno dato all’agricoltura
del loro tempo.
-Finalmente
fu sera…! Il padrone del campo rivolgendosi al
gruppo di mietitori e mietitrici ormai affaticati e stanchi,
esclamò: “ andate a dormire ! Domani, se sarete
bravi come oggi, finiremo la mietitura e vi darò il vostro
avere, perciò sarà per tutti un giorno ancor più’
bello ! “
Al
che mia madre, che era una di loro, sussurrò piano alla
compagna a fianco : ” anca par og la è fnita se
Dia’avol, ad’mén usarà quel’cusarà !”
(anche per oggi è andata grazie a Dio, domani sarà quel
che sarà).
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