Un’assurda
bravata
di
Stefano Giannini
Questa
storia sconcertante, l’ho raccolta di prima mano dai
protagonisti ora già nonni, i cui nomi sono fittizi.
I
tempi in cui i personaggi del racconto erano cresciuti furono segnati
prima dalla scuola, piena di esaltazione del Duce, del fascismo,
della nostra forza bellica, poi dalla guerra, con i suoi orrori e
violenze, che avevano negativamente influito sulla formazione di
questi ragazzi di campagna, nati lungo i pendii della media Valle del
Savio, al centro della Linea Gotica, ultimo baluardo di resistenza
dell’esercito nazista.
Era
settembre. L’estate del ‘51 era agli sgoccioli. Di giorno
faceva ancora molto caldo, ma le serate e le notti erano piuttosto
fresche.
I
bei ponti sul fiume Savio, fatti saltare nel ‘44 dall’esercito
tedesco in ritirata, da pochi mesi erano stati ricostruiti, ed il
traffico sulla S.S. N°71, seppur ancora scarso, stava
incrementando ogni giorno di più. I camion carichi di legna e
merci, le più varie, risalivano e scendevano lenti, la
tortuosa strada che collega la Romagna con l’Umbria e la
Toscana, oggi surclassata dalla più moderna e veloce E 45.
Quel
gruppetto di ragazzi del piccolo villaggio “Casine”,
(così erano chiamate undici casette, tutte identiche, fatte
costruire nel ‘39 dal Duce per gli sfollati della frana di
Sorbano), si trovavano tutte le sere “fuori “, attorno
alle case o lungo la scarpata della strada per giocare ai banditi,
tirare sassi con le fionde ai pipistrelli che, allora numerosi,
saettavano nell’aria, o a spaventare, rincorrendole, le
ragazzine che andavano ad attingere acqua alla “fontanaccia”
o, sul tramonto, si attardavano a rientrare in casa.
I
loro scherzi e dispetti, erano alle volte molto pesanti, quasi
cattivi. Qualche volta infliggevano vere torture anche agli animali :
gatti, lucertole e quel che capitava.
Per
questo, spesso, erano severamente richiamati e puniti dai loro
genitori. In quel tempo appioppare qualche scapaccione ai figli
scapestrati non era un delitto come oggi, anzi era un mezzo un po’
rustico, ma efficace, per educarli.
Quella
sera i “discoli delle casine” con la loro bravata
passarono ogni limite.
Sarà
stata la rabbia, poiché le vacanze erano finite e l’indomani
dovevano ritornare a scuola, sarà stata l’esuberanza dei
tredici-quidici anni di ciascuno di loro, comunque sia, il fattaccio
si compì.
Il
buio era sceso da poco. Le famiglie si erano ritirate nelle proprie
case.
Fuori,
a fianco della strada statale, “ i masnadieri ” erano
solo tre : Pietro, Vittorio e Arnaldo (la banda al completo era
composta di cinque elementi). Arnaldo, il capo, (era un ragazzo alto,
molto intelligente e vivace, occhi vispi da gatto), disse di aver
ideato un piano per dare una lezione ai ragazzi di Montecastello e
Mercato Saraceno che sarebbero passati di lì a poco per la
strada in bicicletta diretti a Sarsina per andare al cinema o a
divertirsi con le ragazzine del nostro paese.
Per
convincere Pietro e Vittorio che si doveva punirli proseguì
dicendo che: non era giusto venissero da fuori a “rubare”
le nostre ragazze e che, alcuni giovani del posto erano stati
duramente pestati da quelli di Mercato Saraceno solo perché,
in una veglia, avevano osato parlare e ballare con le loro donne.
Quando
Pietro intuì che si erano completamente convinti della
necessità di dare una “giusta e sacrosanta punizione”
a quei “forestieri” che sfoggiavano tanto spregio nei
confronti dei paesani, anche per salvare l’orgoglio di
campanile affermò che la lezione era da impartire subito
quella sera stessa. Così, spiegò il piano, che del
resto era molto semplice ; si trattava di sistemare sulla strada
(direttrice Sarsina) alcune grosse zolle di terra. Subito furono
prelevate in un campo arato nelle vicinanze e dai tre sistemate una a
fianco all’altra sull’asfalto. Erano zolle grosse e
pesanti, portate sulla strada con difficoltà. Arnaldo e
Vittorio espressero qualche perplessità su ciò che
potevano causare degli ostacoli così voluminosi. Al’
che, Pietro, con la sua solita sicurezza da “capitano”,
spiegò che i pochi camion che a quell’ora transitavano
in tale direzione li avrebbero schivati, mentre i ciclisti, quasi
tutti senza fanali, non vedendoli, vi avrebbero inciampato e
sarebbero forse caduti, ed era ciò che si voleva.
Purtroppo
ci fu un’ imprevisto….! I tre ragazzi, alla vista di due
fari, apparsi dall’ultima curva che avanzavano sul tratto
pianeggiante della statale di fronte alle “casine”, si
acquattarono dietro una siepe di alloro poco distante e, silenziosi,
assistettero alla scena. Era un grosso camion carico, senza
rimorchio, il cui autista si avvide dell’ostacolo solo
un’instante prima dell’impatto, d’istinto pigiò
forte il freno.
Con
gran stridore di gomme, in pochi metri, il camion si fermò.
Prima
ancora che l’autista scendesse dalla cabina di guida, si
udirono delle urla e lamenti provenire dal retro del camion.
Due
ragazzi in bicicletta che, attaccati al camion si stavano facendo
trainare, nell’improvvisa frenata, per la forza d’inerzia,
avevano sbattuto violentemente contro di esso, ed ora l’autista
li trovava a terra sanguinanti e doloranti.
Uno
di loro, oltre a varie escoriazioni al viso, ebbe anche una spalla
rotta. L’altro riportò ferite ancor più gravi :
un polso e il setto nasale rotti, oltre ad un piccolo trauma cranico.
Furono
subito soccorsi dall’autista e da altre persone sopraggiunte
nel frattempo e trasportati all’ospedale.
I
tre “lazzaroni” dopo aver assistito al dramma che avevano
provocato e resisi conto della sua gravità, impauriti e
rattristati, facendo un largo giro per non essere visti, ritornarono
alle proprie case.
Senza
proferire parola coi familiari subito si coricarono, ma non dormirono
!
All’indomani
mattino due carabinieri bussarono alla porta di ognuno di loro
intimando ai loro genitori di presentarsi subito in caserma con il
loro figlio
Il
maresciallo li voleva vedere….!
Qualcuno
li aveva notati la sera prima preparare la “ trappola”
che poco mancò non fosse stata mortale e aveva suggerito i
nomi alle forze dell’ordine.
Effettivamente
i due sfortunati ragazzi erano giovani mercatesi che, diretti a
Sarsina, avevano approfittato del camion per farsi trainare.
Il
Maresciallo, un tipo un po’ strano, con voce grossa snocciolò
una lunga ramanzina, rivolgendosi più ai genitori che ai
ragazzi e rimarcando la gravità del “delitto”
compiuto; concluse dicendo che: avrebbe potuto mandarli tutti e tre
al riformatorio dove, a suon di scoppole, avrebbero sicuramente
imparato l’educazione ed il vivere civile.
Ma
poi, essendo anch’egli padre di un “bravo” ragazzo
della stessa età, li perdonava. Però un regalino a
ciascuno, perché non dimenticassero, lo voleva fare. I ragazzi
gli stavano di fronte in piedi a testa bassa, impauriti e tremanti.
Egli, con quelle sue manone tozze e pesanti, sferrò un sonoro
ceffone in viso a ciascuno, così su due piedi, davanti ai loro
padri esterrefatti, dicendo :“ visto che non siete capaci
Voi di educare i vostri figli, vi insegno io come si fa” !
Quello
schiaffo, ognuno di loro lo portò impresso addosso per molti
anni e forse contribuì veramente a farli maturare, ve lo dice
uno che se lo sente ancora bruciare sulla guancia sinistra.
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