Zerbini,
materassi e scope
di
massimolegnani
Lo
vedi quel furgone? È la mia casa da una vita. Batto i paesi a
vendere scope zerbini e materassi. E quando ero giovane usavo un
carro tirato da un cavallo che pativa la fame insieme a me. Di quei
tempi conservo l’abitudine al fazzoletto al collo ed alla
paglia in testa, che abbasso sulla fronte per dormire, anche se
intorno è buio. Tempi da pionieri quelli, come questi sono
ormai tempi agli sgoccioli. E in mezzo una breve età
dell’oro.
Adesso
hanno tutti la macchina che li porta al supermarket a comprarsi
camere intere, non sanno che farsene di uno che gli arriva fino a
casa. Ma c’è stato un tempo breve in cui, nei paesi dove
andavo, ero famoso come il sindaco. Arrivavo in piazza, mai nel
giorno di mercato che ci voleva la licenza e gli altri mi facevano la
forca. Legavo il cavallo al palo, suonavo la trombetta e subito la
calca delle donne, Battista
ce l’hai una buona scopa di saggina? Battista è vero che
hai i boccetti di profumo? E le tovaglie francesi quando le porti?
Detto
tra uomini, avevo una dote speciale che mi aiutava molto, sì,
dai che hai capito, quello! E le donne la intuivano la dote o forse
se la dicevano l’un l’altra, che un po’ mignotte lo
sono sempre state. Mi compravano il materasso sapendo che facevo la
consegna a domicilio e lo provavano con me senza toglierci nemmeno il
cellophane, che avevano troppa fretta e troppa voglia. Quanti ne ho
venduti così di materassi, col mio strumento di lavoro! È
stato allora che mi sono potuto comprare il furgone. Credevo di
essere diventato un signore. Non più le levatacce prima
dell’alba, che tu non te lo immagini quanto va piano un
cavallo, quando il carro è carico e la pancia è vuota.
Partivo da Strambino alle quattro del mattino ed arrivavo a Vische a
traversar la Dora per le sette. Già, tu non te li puoi
ricordare i tempi del traghetto di Tonio il matto, la chiatta
ballerina che si spostava lungo il cavo sfruttando la corrente. La
paura che c’aveva Learco, il mio cavallo, a poggiare gli
zoccoli su quelle assi che ondeggiavano, mettevo i fermi al carro e
dovevo tenerlo buono per il muso e parlargli nell’orecchio. E
gli parlavo del grano azzurro e di quello rosso, che c’era
quella stranezza sulle sponde divise dalla Dora, di qua i campi a
fiordalisi, di là dal fiume i papaveri a spuntare tra le
spighe, mica per una scelta, questione di acidità diversa nel
terreno. Adesso nessuno coltiva il grano, c’è
dappertutto il mais orrendo e papaveri e fiordalisi li uccide il
diserbante, ma allora gli dicevo al mio Learco, guarda
l’azzurro che lasciamo e guarda là il rosso dove
andiamo.
E quelle macchie di colore lo tenevano tranquillo, o forse era il mio
modo di parlargli come a un bambino da calmare.
Già,
credevo d’essere diventato un signore e mi sono innamorato di
Teresa. Femmina di fuoco la Teresa, mica per niente era di pelo rosso
e occhi neri. Se
vai con qualcun’altra te lo taglio,
mi diceva mentre mi faceva morire a letto ed io ho smesso le consegne
a domicilio, capisci cosa intendo, mica per paura, è che mi
sembrava giusto. Eh, la Teresa, che tempi! E trascuravo le piazze per
il letto, io che vendevo materassi m’ha fregato un letto! Ma
non è colpa di Teresa, lei è stata la mia vacanza. Mai
accusato del mio destino la Teresa, che mi dava tanto, nemmeno
quando... Poi s’è sposata con Michele quello dei
formaggi. Hai
fatto bene,
le ho detto, che Michele c’aveva la bancarella fissa nei
mercati e guadagnava i soldi.
Così
ho ripreso a girare col furgone, ma intanto gli altri sono diventati
ricchi e non vogliono più i miei materassi che non sono della
marca che dicono in televisione. Già, gli altri sono diventati
ricchi ed io povero in canna, ma, fanculo, quattro scope di saggina
le riesco ancora a vendere.
Sai,
non so se mi manca più il Learco o la Teresa.
Dai,
offrimi un altro bianchetto che a furia di parlare c’ho la gola
secca.
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