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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Zerbini, materassi e scope, di massimolegnan 10/11/2016
 

Zerbini, materassi e scope

di massimolegnani





Lo vedi quel furgone? È la mia casa da una vita. Batto i paesi a vendere scope zerbini e materassi. E quando ero giovane usavo un carro tirato da un cavallo che pativa la fame insieme a me. Di quei tempi conservo l’abitudine al fazzoletto al collo ed alla paglia in testa, che abbasso sulla fronte per dormire, anche se intorno è buio. Tempi da pionieri quelli, come questi sono ormai tempi agli sgoccioli. E in mezzo una breve età dell’oro. 
Adesso hanno tutti la macchina che li porta al supermarket a comprarsi camere intere, non sanno che farsene di uno che gli arriva fino a casa. Ma c’è stato un tempo breve in cui, nei paesi dove andavo, ero famoso come il sindaco. Arrivavo in piazza, mai nel giorno di mercato che ci voleva la licenza e gli altri mi facevano la forca. Legavo il cavallo al palo, suonavo la trombetta e subito la calca delle donne, Battista ce l’hai una buona scopa di saggina? Battista è vero che hai i boccetti di profumo? E le tovaglie francesi quando le porti?

Detto tra uomini, avevo una dote speciale che mi aiutava molto, sì, dai che hai capito, quello! E le donne la intuivano la dote o forse se la dicevano l’un l’altra, che un po’ mignotte lo sono sempre state. Mi compravano il materasso sapendo che facevo la consegna a domicilio e lo provavano con me senza toglierci nemmeno il cellophane, che avevano troppa fretta e troppa voglia. Quanti ne ho venduti così di materassi, col mio strumento di lavoro! È stato allora che mi sono potuto comprare il furgone. Credevo di essere diventato un signore. Non più le levatacce prima dell’alba, che tu non te lo immagini quanto va piano un cavallo, quando il carro è carico e la pancia è vuota. Partivo da Strambino alle quattro del mattino ed arrivavo a Vische a traversar la Dora per le sette. Già, tu non te li puoi ricordare i tempi del traghetto di Tonio il matto, la chiatta ballerina che si spostava lungo il cavo sfruttando la corrente. La paura che c’aveva Learco, il mio cavallo, a poggiare gli zoccoli su quelle assi che ondeggiavano, mettevo i fermi al carro e dovevo tenerlo buono per il muso e parlargli nell’orecchio. E gli parlavo del grano azzurro e di quello rosso, che c’era quella stranezza sulle sponde divise dalla Dora, di qua i campi a fiordalisi, di là dal fiume i papaveri a spuntare tra le spighe, mica per una scelta, questione di acidità diversa nel terreno. Adesso nessuno coltiva il grano, c’è dappertutto il mais orrendo e papaveri e fiordalisi li uccide il diserbante, ma allora gli dicevo al mio Learco, guarda l’azzurro che lasciamo e guarda là il rosso dove andiamo. E quelle macchie di colore lo tenevano tranquillo, o forse era il mio modo di parlargli come a un bambino da calmare. 
Già, credevo d’essere diventato un signore e mi sono innamorato di Teresa. Femmina di fuoco la Teresa, mica per niente era di pelo rosso e occhi neri. Se vai con qualcun’altra te lo taglio, mi diceva mentre mi faceva morire a letto ed io ho smesso le consegne a domicilio, capisci cosa intendo, mica per paura, è che mi sembrava giusto. Eh, la Teresa, che tempi! E trascuravo le piazze per il letto, io che vendevo materassi m’ha fregato un letto! Ma non è colpa di Teresa, lei è stata la mia vacanza. Mai accusato del mio destino la Teresa, che mi dava tanto, nemmeno quando... Poi s’è sposata con Michele quello dei formaggi. Hai fatto bene, le ho detto, che Michele c’aveva la bancarella fissa nei mercati e guadagnava i soldi. 
Così ho ripreso a girare col furgone, ma intanto gli altri sono diventati ricchi e non vogliono più i miei materassi che non sono della marca che dicono in televisione. Già, gli altri sono diventati ricchi ed io povero in canna, ma, fanculo, quattro scope di saggina le riesco ancora a vendere. 
Sai, non so se mi manca più il Learco o la Teresa. 
Dai, offrimi un altro bianchetto che a furia di parlare c’ho la gola secca. 

 
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