I
suoni, le luci
di
massimolegnani
Capita
che certi suoni io li riconosca al cuore prima che all’orecchio
e certe luci dalla via del nervo ottico mi prendano dritte la strada
dell’anima a rischiararne il fondo. Sono fenomeni normali, per
me almeno che sento e vedo poco ma guardo e ascolto molto. Suoni e
luci come quei sassi grossi piazzati a pelo d’acqua sopra il
fiume che t’aiutano a ritrovarti all'altra sponda. E
l’altra sponda altro non è che l’altra faccia
della luna, il lato bello delle cose, che non sono cambiate loro ma
sei tu a vederle in altro modo.
Il
tintinnio delle tazzine, limpido d’estate, quasi un cinguettio
per le strade dalle finestre aperte, più ovattato
nell’inverno, che devi entrare nel locale per sentirlo appieno
il suono amico che evoca e risveglia senza sapere cosa. La tazzina
quand’è posata al banco o sul marmo di cucina è
nota raffinata, più musicale a me del tintinnio dei soldi per
l’avaro o dei bicchieri lunghi all’ultimo
dell’anno. Divento Pavlov a quel suono, non tanto per
l'acquolina in bocca, quanto per la mente che di riflesso spazia
serena. Quel tintinnio è musica italiana, che altrove non lo
senti, sarà la porcellana meno sottile o la tazza troppo
grossa ma altrove il suono è fesso e il contenuto un beverone.
A
volte dalla poltrona ascolto il rombo dei trattori e tra i tanti,
potenti e prepotenti, cerco quell’ansimare ritmico che
riconosco come unico, la macchina antiquata che lavora i campi appena
oltre la statale, riconosco la sua fatica lenta ad aprire i solchi
seguita dai gabbiani come fosse nave tra le onde e ripenso al barcone
che solcava l’onda un tempo, il vecchio diesel dal suono
spolmonato che tutti i giorni passava al largo della spiaggia. Mai lo
vedevo, io gli occhi chiusi steso sulla sabbia lo ascoltavo e fingevo
una prateria verde davanti a me. Sensazioni incrociate, ora con
allora, di mare qui in Piemonte e terra arata là.
Anche
se ancora non è il tempo, ti dico ora del biancore, la luce
senza luce che colgo di notte quando lo sfarfallio insistito del
fiocco sopra il fiocco va a formare neve sopra al prato. E mi faccio
albero nudo ai margini del bosco e sto a sentire il rumore della neve
prima impercettibile poi pressante come uno stillicidio e il peso
lieve divenire sempre più pesante, e sto a resistere le
braccia, i miei rami che non devono schiantare. Alzo la faccia di
legno al cielo, guardo il cadere bianco contro il nero e spalanco la
bocca a farmi penetrare dal suono e dal colore. E non esiste freddo.
Ma
il suono che aspetto e cerco come il rabdomante l’acqua è
il fruscio della lumaca sulla foglia di lattuga. Quando la vedo mi
stendo all’orto, osservo e ascolto l’inesauribile
lentezza del suo andare, m’incanto alla sua scia, sembra una
lingua che viaggia devota sulla pelle.
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