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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  I suoni, le luci, di massimolegnani 02/12/2016
 

I suoni, le luci

di massimolegnani





Capita che certi suoni io li riconosca al cuore prima che all’orecchio e certe luci dalla via del nervo ottico mi prendano dritte la strada dell’anima a rischiararne il fondo. Sono fenomeni normali, per me almeno che sento e vedo poco ma guardo e ascolto molto. Suoni e luci come quei sassi grossi piazzati a pelo d’acqua sopra il fiume che t’aiutano a ritrovarti all'altra sponda. E l’altra sponda altro non è che l’altra faccia della luna, il lato bello delle cose, che non sono cambiate loro ma sei tu a vederle in altro modo.

Il tintinnio delle tazzine, limpido d’estate, quasi un cinguettio per le strade dalle finestre aperte, più ovattato nell’inverno, che devi entrare nel locale per sentirlo appieno il suono amico che evoca e risveglia senza sapere cosa. La tazzina quand’è posata al banco o sul marmo di cucina è nota raffinata, più musicale a me del tintinnio dei soldi per l’avaro o dei bicchieri lunghi all’ultimo dell’anno. Divento Pavlov a quel suono, non tanto per l'acquolina in bocca, quanto per la mente che di riflesso spazia serena. Quel tintinnio è musica italiana, che altrove non lo senti, sarà la porcellana meno sottile o la tazza troppo grossa ma altrove il suono è fesso e il contenuto un beverone.

A volte dalla poltrona ascolto il rombo dei trattori e tra i tanti, potenti e prepotenti, cerco quell’ansimare ritmico che riconosco come unico, la macchina antiquata che lavora i campi appena oltre la statale, riconosco la sua fatica lenta ad aprire i solchi seguita dai gabbiani come fosse nave tra le onde e ripenso al barcone che solcava l’onda un tempo, il vecchio diesel dal suono spolmonato che tutti i giorni passava al largo della spiaggia. Mai lo vedevo, io gli occhi chiusi steso sulla sabbia lo ascoltavo e fingevo una prateria verde davanti a me. Sensazioni incrociate, ora con allora, di mare qui in Piemonte e terra arata là. 

Anche se ancora non è il tempo, ti dico ora del biancore, la luce senza luce che colgo di notte quando lo sfarfallio insistito del fiocco sopra il fiocco va a formare neve sopra al prato. E mi faccio albero nudo ai margini del bosco e sto a sentire il rumore della neve prima impercettibile poi pressante come uno stillicidio e il peso lieve divenire sempre più pesante, e sto a resistere le braccia, i miei rami che non devono schiantare. Alzo la faccia di legno al cielo, guardo il cadere bianco contro il nero e spalanco la bocca a farmi penetrare dal suono e dal colore. E non esiste freddo. 

Ma il suono che aspetto e cerco come il rabdomante l’acqua è il fruscio della lumaca sulla foglia di lattuga. Quando la vedo mi stendo all’orto, osservo e ascolto l’inesauribile lentezza del suo andare, m’incanto alla sua scia, sembra una lingua che viaggia devota sulla pelle.

 
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