REPORTER
Alla memoria di Diallo
Telli
primo segretario
dell'Organizzazione
per l'Unità Africana.
Sono tornato nella mia terra. Ho
approfittato di un viaggio di lavoro di un mio amico. Mentre l'aereo scendeva
riecheggiavano nella mia mente i tempi in cui studente ritornavo ogni fine
settimana dai miei vecchi: allora mentre percorrevo la strada, sfioravo con lo
sguardo immense terre smaltate da campi ordinati, coperti di messi sontuose.
Erano le fattorie dei ricchi, ben
organizzate e operose.
Ora, in taxi, ho pregato Alain di riaccompagnarmi in quei posti. Un tempo i miei
genitori erano
a servizio di un farmer, ora hanno abbandonato il
villaggio e si sono rifugiati da parenti, in città.
Pensavo di ritrovare qualcosa di quel
vecchio ordine. Cercavo campi ubertosi
di mais, ho trovato solo terra rossiccia, polverosa, crepata dalla siccità, che
custodisce pianticelle intisichite.
Dopo un viaggio in taxi alquanto
sgangherato ho rivisto la mia vecchia fattoria.
Davanti, nuove macchine agricole,di già abbandonate e arrugginite.
Alain mi
faceva notare che i granai erano (irrimediabilmente) vuoti.
Non sono stato capace di entrare, mi
sono accostato all'uscio.
Lungo la stradina ho incontrato Sekou
(da piccoli costruivamo piccoli
capanne).
Mi ha invitato a visitare il centro,
magari anche questa sera.
Dico che ci penserò e forse verrò.
Al ritorno le strade polverose si
riempiono di contadini affilati dalla fame che si aggirano in cerca di
elemosina e cibo.
Nei cortili, controllati dai soldati,
si ammucchiano sacchi di farina. Alcune donne la rubano e poi impastano.
Vogliono preparare la sazda (purea di mais).
Più uomini che bambini allungano le mani per cibarsi di questo piatto
quotidiano.
I miliziani, pur contrariati, lasciavano fare.
Ci siamo rifugiati in un albergo
rimuovendo ataviche paure.
Il sollievo però è stato temporaneo.
Sono echeggiati colpi da arma da fuoco, sibili fulminei che ci hanno riportato
alla vera dimensione di questa terra.
Terra riarsa e aspra.
Terra che promette e scontenta molti.
Terra verde e lussureggiante.
Terra acquitrinosa e fumosa.
Alain mi
accenna del suo nuovo incarico. Ne è lusingato, si sente apprezzato. Non gli passa per l'anticamera del cervello
che, beh, forse un pizzico del suo lauto guadagno cozza con le solite logiche.
Wilbur lo ha
insignito di un'alta onorificenza.
Ha preferito tergiversare,
adulandolo, per poi presentargli un piano così oneroso (lui dice che in fondo è
vantaggioso).
Va da se che gli operai saranno a
cottimo, in balia di un moderno caporalato. Più sanguigno probabilmente.
Sempre esoso, ingiusto, perfido e
avvilente.
Prendiamo una jeep e ci spingiamo
nella savana.
Alain e in
camicia kaki e pantaloncini corti. Io scruto con il binocolo.
Un branco di zebre ci osservano
stupite, mentre gruppi di gazzelle ruminano agitando la coda come un
frullatore.
Riconosco le impronte. Poco distante le iene si stanno disputando
con gli avvoltoi i resti di una carcassa di antilope.
Come questa terra. In preda ai più biechi lucratori:
tracciatori locali, feroci e vanitosi con lance e collanine.
Un amico ci ospita per la
nottata. Il suo è un lodge,
in pietra lavica locale, con i tetti d'erba della savana.
Seduti attorno ad un tavolo ci
raccontiamo le avventure della giornata.
Cecil, il
proprietario, si sente lusingato.
Dice che nella zona costiera le cose
stanno cambiando. Il turismo si sta integrando con i bisogni delle comunità
locali.
Ci propone di investire nell'ecoturismo. Ci dice che accordi tra capitali stranieri e
comunità indigene significano conservazione dell'ambiente.
Io penso che i coloni vomitarono fuoco amalgamando terra e uomini.
Campi incolti furono irrigati e resi
produttivi.
Lo stesso fuoco, però, ora
disarticola la gente inducendola a compiere quotidiane follie.
Mi allontano temporaneamente dal
salotto.
Una nebbia esterna intristisce i miei
occhi ed io bevo un altro goccio di whisky. Forse farei bene a mettermi a lavorare
in società con il mio amico.
Tracanno tutta la bottiglia e mi
avvio, con la jeep, dal mio amico verso un accampamento militare.
Il
golpisti stanno mettendo a ferro e fuoco il paese.
Sembra però che vogliano chiudere con
gli orrori del passato regime.
Saluto Sekou
che tanto mi aveva aiutato nei primi anni.
Lui, dolce e fermo, mi conduce
avanti. Il graduati aprono le porte di Campo Pebeire: ermeticamente chiuse per venticinque anni sono
state divelte a colpi di makete.
Ai miei occhi un corteo dantesco di
spettri umani..
I volti infossati, gli occhi
dilatati, il cranio rasato, la barba irsuta e bianca.
Sekou mi dice
che da poco gli sono stati tolti gli stracci o meglio quello che rimaneva del
tessuto e che, pervicacemente, si era attaccato alla carne.
Io tremo dalla paura e uno strano singulto
sale dallo stomaco.
In uno stanzone osservo una decina di
uomini rasenti al muro.
Uno è diventato cieco e cammina con
le braccia tese in avanti, un altro avanza a quattro zampe emettendo sibili
strani.
Alcuni sono ridotti a manichini
d'ossa dinoccolate che sussultano sul suolo coperto d'acqua e di escrementi:
uomini sciancati, claudicanti, senza braccia, superstiti di torture e
privazioni.
Sekou mi si
stringe al braccio chiedendomi di uscire.
Lo prego di aspettare. Di colpo mi incuriosiscono le pareti ammuffite e
scrostate.
Sono coperte di graffiti e preghiere.
Sekou mi
traduce. Legge con difficoltà perché non
penetra la luce del giorno.
Alcune recitano: “L'uomo è un
apprendista, la sofferenza è il suo padrone e nessuno può conoscere se
stesso prima di aver sofferto” ;
“La felicità si trova sempre
sull'altra sponda della rive del deserto”;
“Amici, nessun bene è più prezioso
della libertà individuale: perderla vuol dire morire”;
“Mamma aiutami, sto male ”.
Un vento caldo soffia dentro di me quando noto di lato una scritta che è sta incorniciata a mò di una pergamena.
Mi dicono che è di un autorevole
esponente politico imprigionato dal dittatore e ivi morto di fame.
Recita così: “Se una voce d'oltre
tomba può avere un'eco, chiedo ai miei compatrioti di ascoltarmi per un
istante, per l'ultima volta :la patria non potrà vivere
senza la fraternità e la fusione delle sue componenti etniche.
Questa dittatura sarà vinta e il
popolo ritroverà la sua dignità, si riscoprirà che la missione naturale è di
essere una terra di libertà, di sintesi della razze e
di speranza per l'Africa”.
Mi precipito fuori trattando a malo
modo i mendicanti e i venditori ambulanti, non saluto nessuno.
In jeep bevo un'altra bottiglia di whisky, voglio rimuovere il tutto e penso di
rientrare nel lodge.
Mi attardo a visitare il mercato.
Procaci donne offrono frutta e verdura adagiate sulle stuoie. Indossano
stupenti vestiti colorati.
Niente mi interessa. Mi ritiro
infastidito, riprendo a guidare e penso che sicuramente non tornerò da Cecil.
N.B. I fatti sono
verosimili. Ho volutamente eliminato il nome dello stato africano per lasciarlo
all'eventuale desiderio
della vostra ricerca.
Grazie.