L’uomo
che scolpiva nature vive
di
massimolegnani
Tra
due giorni l’esposizione al Salone Pluriuso.
Camillo
si rigirava nel letto, impossibile dormire e impossibile da sveglio
passare indenne attraverso quell’attesa.
Il
piccolo traguardo, la Mostra-Mercato
di Artigianato locale,
racchiudeva in sè il germe dell’umiliazione.
Seconda
Edizione e ancora gli bruciava la Prima.
Le
sue nature morte ammassate in uno spazio angusto, tra i bottiglioni
di grappa del Bepi, sempre ubriaco, e le motoseghe del Vatta che da
sole occupavano metà del salone, ma si sa Battista Vatta era
lo sponsor principale della manifestazione. Non aveva venduto un
pezzo, ma pazienza, non era quello il dispiacere. Erano stati i
commenti incompetenti dei paesani che sfilavano davanti a lui come
davanti al morto la sera del rosario, solo che, anzichè fare
le condoglianze a mezza voce, a mezza voce dicevano “bella
questa mela” “carina la zucca”,
ma il tono e il senso erano uguali, senza la minima passione.
Camillo
si era giurato che mai più.
Così
aveva sprangato la porta del laboratorio e gettato la chiave nel
naviglio. Aveva resistito un mese, ma dopo un mese aveva chiamato il
fabbro.
Quando
rimise piede nel suo laboratorio, l’uomo si commosse sentendo
l’odore del legno che lo abbracciava come un’amante
comprensiva, disposta a perdonare la trascuratezza dovuta al troppo
amore.
E
aveva ripreso a lavorare con maggior passione. La dolce frenesia
della creazione!
Si
assopì al ricordo di quel periodo emozionante. Nel dormiveglia
ripassò in rassegna le forme che aveva fatto nascere, perchè
la
forma è tutto,
racchiude
la sostanza e la protegge, come il frutto fa col seme.
Rivide il gesto del polpastrello a seguire la curva della pesca che
aveva levigato con delicatezza, seguire la curva e confrontarla con
l’idea e la memoria. Così era stato con la prugna e la
cotogna, che quello che gli premeva non era il realismo, ma la
fedeltà assoluta a ciò che gli balenava in testa.
Le
sue non erano opere di natura morta, ma narrazione di una vita, la
propria. Metafore,
avrebbe detto se fosse stato un letterato, ma lui era un povero
ignorante.
Camillo
si assopì, è vero, ma durò poco il sonno, che
presto lo prese una nuova agitazione per un rivelarsi improvviso
della verità. Non era l’incomprensione della gente che
gli rodeva dentro, era l’insoddisfazione di sè, la
propria mancanza di coraggio. Il coraggio di credere in se stessi a
prescindere, il coraggio di partire per l'altrove, in città
forse, battere altre strade, esporre con convinzione dove l’avrebbero
apprezzato o magari stroncato, ma solo dopo aver inteso il senso
delle opere. Il coraggio di...”occorre
chiamare le cose col loro nome”
ripeteva sempre suo padre. Già, ma lui non avrebbe mai trovato
il coraggio di chiamarle col loro nome, apporre quei bigliettini, che
pure aveva preparato,
figainamore,
sotto l’albicocca succosa, tettinenude
a
indicare due piccole mele laccate, perditadellaverginità,
per l’anguria spaccata, acazzoduro,
sotto un cetriolo indecente. No, non aveva il coraggio e allora aveva
poco da lamentarsi, si sarebbe dovuto accontentare di “bella,
carina”.
Non
resistette più nel letto. Si alzò di scatto e s’infilò
il cappotto sopra al pigiama. Scese nel laboratorio e si sedette
nella poltrona sfondata a guardare i pezzi allineati sul bancone, la
sua vita. Infilò una mano dentro il cappotto e nel pigiama.
Prese ad accarezzarsi lentamente, con determinazione, come un rito
dovuto. E venne piangendo.
Poi,
ad una ad una, gettò in un secchio le sue nature morte. Portò
il secchio in giardino, lo annaffiò di benzina e gli diede
fuoco.
Quindi
tornò a dormire, quasi sollevato. Non ci sarebbe stata nessuna
seconda edizione.
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